Sulla “damnatio memoriae” ingiustamente inflitta al poeta romanesco Giulio Cesare Santini (1880-1957) si pronuncia Eugenio Ragni (con la bella monografia “La gioia intrecciata ar sospiro”, Roma, Edilazio, 2010), scrivendo di un poeta «praticamente dimenticato anche in stimabili e informati repertori e interventi critici sulla poesia dialettale del Novecento: un’assenza decisamente ingenerosa e soprattutto immeritata». Il raffinato critico e filologo di origine emiliana invita, per converso, a restituire a Santini un posto di diritto nella cultura non soltanto romanesca del Novecento. Santini ha pagato, forse, l’isolamento derivatogli da un’indole riservata e modesta (che lo portava spesso a bilanci ingenerosi su sé stesso e sulla propria opera), e da una vita alquanto anonima, che lo vide operare serenamente – senza clamori e schiamazzi narcisistici – in qualità di impiegato comunale e distributore di libri presso la Biblioteca Frankliniana, a Roma. Santini, tuttavia, è autore di un nutrito e variegato corpus poetico: circa 30.000 versi, da cui emerge un affresco vastissimo dell’Urbe, dalle epoche remote fino alla tragedia dell’ultima guerra e oltre. Tra le cinque raccolte di liriche – grazie a cui Santini si configura cantore di una Roma soprattutto popolare, quella dei rioni dove il poeta s’intrufola per dipingere, in parole, ritratti intimamente quotidiani di persone, luoghi, ambienti, con un sentimento affettivo ed effusivo, sottilmente malinconico, di attenzione alle piccole cose, alla gente comune, alle vittime eterne della Storia – emergono in controcanto tre poemetti di maggiore architettura e più ampio respiro: “Napoleone” (1913), “Dante” (1923), “L’omo primitivo” (1929). Peraltro, con il primo poemetto, composto di 188 sonetti divisi in 4 parti e inquadrati nella “cornice” di un’osteria, Santini fa il suo esordio pubblico in volume. La Storia per una volta è inquadrata attraverso la vicenda emblematica di un celebre protagonista, ma la voce narrante è quella di un uomo comune che racconta Napoleone agli amici. Le 4 parti (con relativi ritorni al presente dell’osteria) corrispondono grosso modo alle fasi biografiche del grande còrso: le due campagne d’Italia, quella d’Egitto, l’ascesa europea e, da ultimo, il malinconico declino. Perché Napoleone? Perché era un personaggio di sotterranea afferenza romana (come testimonia ancora oggi il Museo napoleonico), che dunque la Città teneva ben vivo entro la memoria collettiva: per i due papi deportati in Francia (Pio VI e Pio VII); per i saccheggi di chiese, palazzi, monumenti; per i sogni di libertà e uguaglianza, germogliati poi nella Repubblica Romana; per il matrimonio della sorella Paolina con il principe Borghese; per la madre (“Madama Letizia”) che visse a Roma i suoi ultimi anni. Il poemetto non sottace, con vena ironica, le spoliazioni di opere d’arte perpetrate a Roma:
La religione? Sì, l’arispettava:
nun era tipo d’attaccà Madonne,
perché, semplicemente, le staccava.
E rappresenta, con crudo realismo, la carneficina dei campi di battaglia. Ad Austerlitz:
Molleggiavano sopra un pajariccio
de corpi umani, che metteva orore…
E tutt’e dua provavano un tremore
de paura, un socché de raccapriccio.
“Tutt’e dua” sono gli imperatori di Austria (Francesco II) e Russia (Alessandro I), avversari di Napoleone.
Poi la luna coprì tutto de bianco:
moribondi buttati da ‘gni parte,
cavalli morti cascati de fianco,
lastre de ghiaccio, fiaccole de paja,
zaini, gibberne sperze, e Bonaparte
vittorioso sur campo de battaja!
E in Russia:
Fischiò ‘na tramontana, ‘na giannetta
che faceva cascà la bajonetta
da le mano gelate (…)
Su la neve, er sangue umano
spicca come un disegno de corallo.
Zoppi, invalidi… Un quadro da fa orore!
E in Egitto (con tanto di fate morgane):
Camminaveno su la sabbia ardente,
sempre co sta visione avanti a l’occhi…
Arivaveno là: nun c’era gnente!
Ma rifèttece, immagina un momento
che tortura, perdio!, d’inquisizzione:
da lontano mirà l’acqua d’argento
e poi, invece, scoprì ch’è ‘na finzione!
Per poi concludere coi giorni amari della sconfitta, dell’esilio, della disillusione:
Avé pensato de regnà sur Monno,
èsse salito in cima pe du’ vorte,
e pe du’ vorte rischizzato in fonno!
Avé detto fra te: “So strapotente,
comanno su l’esercito più forte”,
e adesso dové dì – Non conto gnente! –
Complimenti vivissimi per l’articolo su Santini con un ben indovinato inquadramento storico nella realtà romana:si pensi solo al conte Primoli..Un saluto affettuoso. Sabino