“Luce del tempo”, di Marco Onofrio, letto da Dante Maffìa

Maturità confermata e anzi oltrepassata in meglio, dopo i fulgori di “Azzurro esiguo” (2021), con questa nuova silloge pubblicata ancora da Passigli (“Luce del tempo”, 2024, pp. 136, Euro 15). La crescita della poesia di Marco Onofrio è costante e, direi, quasi inesorabile. È un poeta “massimalista” a cui piacciono da sempre le grandi sfide, inseguire l’infinito o l’infinitesimo e condensarli su carta per quel che hanno di indicibile. Qui è la “luce del tempo”, cioè, mi è sembrato di capire, l’aria del mondo e la presenza stessa del suo Mistero avvertite d’attimo in attimo, nel film della realtà che evolve e quindi nell’incrocio eterno tra divenire ed essere in cui ci è dato plasmare e sviluppare la vita. Non è casuale che il libro offra, in limine, un pensiero di Louis-Ferdinand Céline: “La vita è questo, una scheggia di luce che finisce nella notte”. Dunque nel libro seguiamo questa scheggia di luce che finisce nella notte, ma vediamo anche come ci finisce, perché ci finisce, che cosa si nasconde nel viaggio quotidiano.

Torna, torna sempre

parola in viaggio

attraverso gli orli della notte

come un’aquila accecata

che annaspa su tegole marce

ascoltando il suono della vita.

Lo scenario su cui Marco Onofrio si muove sono queste tegole marce da cui proviene il “suono della vita”. Quindi una sorta di atteggiamento decadente ma presentato come un fattore esterno al proprio essere, perché l’aquila è cieca, le tegole sono marce e arriva appena “il suono della vita”. La sua posizione è, fin dall’incipit, creativamente ambigua: dall’“odore dei fulmini” alle conseguenze dello spillo che cadendo

innesca un rotolio di onde

nel mare sconfinato degli eventi

dove tutto è contenuto in una rete

di connessioni, invisibili

all’occhio dei più

e poi diventa misura dell’armonia del mondo, peso specifico di un percorso che non ha limiti e che sa essere valore eterno del senso primo e ultimo dell’esistere. Onofrio non lo cita, ma credo che nel sottofondo vi sia un piccolo strascico mandelstamiano, quella sorta di metafisica intensa ma sempre affacciata alla porta dei versi per non farli diventare astrazione. Così, andando avanti nella lettura, “l’eco del niente” va perdendo la sua trasparenza per diventare suono senza vaghezza, principio d’una sollecitudine che ha bisogno di uscire dal mistero per poter riconoscere la vita nella sua dimensione carica di intendimenti, di sibili sovrannaturali, di percorsi finalmente abbarbicati a una umanità non più vigilata e mortificata, ma libera, al di là e al di sopra d’ogni barriera. Quasi inutile aggiungere che Onofrio salta a pie’ pari la poesia, si fa per dire, dei vari Cucchi, Riccardi et simili impiegati delle case editrici, con poteri più o meno decisionali, perché si rende conto che non esiste poesia nel contare le vacche di Fanfani o le pecore al pascolo nella pianura padana. Forse non si saprà mai esattamente che cosa è la poesia, nonostante le migliaia di definizioni di filosofi e di poeti, ma si sa esattamente che cosa non è. La poesia non è dove la parola è contabilità e non fa sentire il fremito della vita, e dove non brilla “la luce del tempo”.

In questo libro Onofrio ha superato se stesso, è riuscito a trovare la cifra espressiva che sa sminuzzare il senso e ricomporlo per affinità, e mai per eccessi o per difetti. Ha finalmente trovato l’alchimia perfetta tra natura e cultura, tra le accensioni e le rarefazioni, tra i grandi doni che ha avuto in sorte e il peso delle smisurate letture a cui si è abbeverato. C’è una scansione linguistica molto compatta e una lirica che, composizione dopo composizione, sviluppa qualcosa di magico, a tratti spinta da una libertà che diventa sale imprescindibile e che determina senso e spazio, la via d’accesso alla Bellezza e alla Verità. Marco ha sempre scritto con l’anima, filtrando attraverso la sua immensa cultura, ma questa volta, oltre l’entusiasmo, oltre l’impalcatura teorica che sorregge l’intero volume, fa sentire come non mai i palpiti del sentire interiore, convinto che solo se le parole, anzi le sillabe, sanno innestarsi al senso della quotidianità, arricchiscono il mondo di luce nuova.

“Non dobbiamo sorprenderci per versi così lievi e gaudiosi; è proprio infatti nel cuore di una quasi scanzonata capacità di godere che si riafferma in tutta la sua pienezza ancora una prospettiva filosofico-esistenziale, che implica la valorizzazione senza residui del mondo e dell’esistenza”. Sono le parole conclusive del prefatore, Gianni Turchetta, che ha saputo entrare nel mondo di Onofrio evidenziandone le qualità e decifrandone gli intenti. Uno scritto, quello di Turchetta, direi magistrale per la capacità di illuminare le misure e gli esiti di una poesia che è fermento costante e che, quando raggiunge un traguardo, subito lo dissacra e l’oltrepassa in cerca di mete nuove, in una dilatazione di lieviti umani ed estetici tesi a sviscerare il senso profondo delle cose e del percorso umano.

Onofrio è un artista perennemente inquieto, come se fosse attraversato da un fiume in piena del quale vorrebbe recuperare, più che i tesori trasportati, gli intenti che stanno dentro le ragioni dell’acqua. È il mistero di questo colloquio che rende le composizioni di “Luce del tempo” dei veri gioielli, anche perché le pagine non lasciano sereni nel mentre si aprono ai suoni e alle immagini, ma creano turbamento. Il che non è poca cosa, significa che Onofrio non sa stare affacciato alla finestra ed è disposto addirittura a diventare tempesta pur di acciuffare il senso recondito della vita, dell’amore e della morte. Al punto che io vi ho intravisto, senza tema di esagerare, uno scatto più avanti alla voce di Hölderlin e di Leopardi. Segno confortante che la poesia può ancora bruciare le scorie – come un fuoco liquido di purificazione – sotto la cenere ammuffita del potere e della moda.

Dante Maffìa

 

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