L’eteronimia in Fernando Pessoa, a cura di Roberto Taioli

La propensione all’eteronimia è centrale nella poetica di Fernando Pessoa (Lisbona 1885- 1935). Non si tratta di una tecnica che, come tale, potrebbe essere  interrotta, né di un artificio letterario, ma di un habitus ontologico consustanziale al poeta che avverte se stesso come perennemente altro, diversamente dislocato e quindi condannato ad un’alterità sempre sfuggente.

Sebbene altri poeti abbiano avvertito questo condizione, come Rimbaud che nella famosa Lettera del veggente diceva Je est un autre, o nel disorientante titolo di Pirandello Uno, nessuno e centomila, la tendenza all’eteronomia di Pessoa è pari ad una condizione esistenziale e la domanda sull’essere è incalzante, ossessiva, bruciante. Non c’è porto di approdo a questa deriva che sgretola le forme in altre forme e queste a loro volta si sciolgono in altre replicanti domande di senso. Le domande, sempre le stesse ma sempre cangianti, hanno tuttavia molte sfaccettature e risvolti e i personaggi  che di volta in volta le formulano, sembrano svanire con le mancate risposte. Un mondo muto eppure accerchiato da tanti interrogativi è la cifra di Pessoa che nella sua sconfinata produzione ritorna sempre abbagliato dalla sconfinata amplitudine dell’essere. Prigioniero di questo reticolo, il poeta non approda però al nichilismo, ma di volta in volta riorganizza se stesso per un nuovo erratico cammino. La dissociazione interiore dell’eteronimia conduce alla consapevolezza dell’uomo di non poter pervenire all’unità, di non poter abbeverarsi ad una sapere concluso, indiscusso, come proposte da non poche filosofie di stampo razionalistico come quella hegeliana, verso le quali avrebbe usato il martello, per citare una immagine da Ecce homo di  Nietzsche.

Il senso del mistero, dell’invincibile quesito si ripropone a ondata successive chiunque ne sia l’interprete, come se Pessoa volesse verificarlo fuori di sé; la questione irrisolta dell’identità, del nostro status sulla terra e del nostro cammino, si riverbera negli altri che incontriamo o a cui doniamo nome. Ma nel replicarsi dei nomi cerchiamo in fondo di dare nome a noi stessi e ne viviamo lo scacco.

Il tema della viandanza, che è poi anche la cifra del poeta, fa del poeta stesso  un interrogativo irrisolto. Dove ci conducono le parole che usiamo, anche se le attribuiamo ad altri nomi che non sono il nostro? Il nome ci fissa ad una identità, ma questa si replica anche in altri che utilizziamo, come possibile via di fuga dal noi. Tuttavia, quello di Pessoa non è nascondimento e neppure un gioco. È, pare di leggere e capire, l’essenza della nostra presunta singolarità, in fin dei conti della nostra solitudine. Nessun sistema filosofico di tipo sistematico infrange questa condizione se non ricorrendo ad artifici dialettici che ci confermano abbandonati nel mare dell’essere.

Questo stato aurorale dell’essere che sempre vaga alla ricerca di una consistenza che poi si stempera e si scompone, come le forme di Goethe che vagano da metamorfosi in metamorfosi, leggiamo in un  altissimo poema di Pessoa che fa scrivere all’eteronimo Àlvaro de Campos:

Sono un sogno di Dio

Ah, di fronte a questa unica realtà che è il mistero,

Di fronte a questa unica che è l’esistere essere

Di fronte a questo abisso d’esistere un abisso,

Questo abisso per cui l’esistenza di tutto è un abisso,

È un abisso perché semplicemente è,

Perché può essere

Perché esiste essere!

Di fonte a tutto ciò come a tutto ciò che gli uomini fanno,

Tutto ciò che gli uomini dicono,

Tutto quanto costruiscono, disfano o attraverso di loro si costruisce e disfa,

Si riduce!

No, non si riduce … si trasforma in altra cosa –

In un’unica cosa tremenda e impossibile,

Una cosa che si trova oltre gli dei, oltre Dio e il destino –

Ciò che fa sì che ci siano dèi e Dio e Destino,

Ciò che fa si che ci sia essere perche possano esistere esseri,

Ciò che sussiste oltre tutte le forme,

Attraverso tutte le vite, astratte e concrete,

Eterne e e contingenti,

Vere o false!

E da questa paura, da questa angoscia

Ciò che, una volta compreso tutto, rimane ancora al di fuori,

Perché quando si è tutto compreso non si è compresa

La spiegazione del perché è un tutto,

Perché esiste un qualcosa, perché esiste un qualcosa,

perché esiste un qualcosa!

La mia intelligenza è diventata un cuore colmo di paura,

Ed è per le mie idee che tremo, per la mia coscienza di me,

Per la mia coscienza di me,

Per la sostanza essenziale del mio essere astratto

Che  soffoco perché incomprensibile

E di questa paura, da questa angoscia, da questo pericolo dell’oltre-essere

Non si può fuggire, non si può fuggire, non si può fuggire!

Carcere dell’essere, niente ci libera da te?

Carcere del pensare, niente ci libera da te?

Ah, no, niente – né morte, né vita, né Dio?

Noi, fratelli  gemelli degli dèi tutti, di tutta la specie,

Poiché siamo lo stesso abisso, poiché siamo la stessa ombra,

Che siamo ombra o luce, è sempre una stessa notte,

Ah, se affronto fiducioso la vita, l’incertezza della fortuna,

Sorridente, senza pensare, la possibilità quotidiana di tutti i mali,

Incosciente, senza pensare, la possibilità quotidiana di tutti i mali,

Incosciente, il mistero di tutte le cose e di tutti i gesti,

Perché non dovrei affrontare sorridente, incosciente la Morte?

La ignoro? Ma cos’è che io non  ignoro?

La pena che impugno, i caratteri che scrivo, la carta su cui scrivo,

Sono misteri  forse più piccoli della morte? Come se tutto è uno stesso mistero?

E io scrivo, sto scrivendo, per una necessità senza nulla.

Ah, che io affronti la morte come un animale che non sa che essa esiste!

Possiedo l’incoscienza di  tutte le cose naturali,

Chè, per quanta coscienza io abbia tutto è ancora incoscienza,

Salvo l’aver creato tutto, e l’aver creato tutto è incoscienza,

Perché è necessario esistere per creare tutto,

Ed esistere è essere incoscienti, perché esistere è la possibilità che ci sia essere,

E la possibilità che ci sia essere è più piccola di tutti quanti  gli dèi.

Scritta con l’eteronimo di Àlvaro de Campos

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