La transumanza ontologica di Paola Pennecchi. Lettura di “Traslochi”, di Gabriella Cinti

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Paola Pennecchi muove dall’adesione all’espressione come moto primordiale dei viventi: questo dato – di per sé – la inscrive in un percorso di pensiero-parola che è il suo vero viaggio. Il panismo filosofico si innerva in una trepida creaturalità, che affratella Paola alla natura, in un misticismo poetico del tutto originale. Sì, perché questa poesia volge il quotidiano – le cose – verso uno stadio sempre successivo e la metamorfosi è il passo o la falcata di questo suo volo, del TRAS- LOCARE. Si è osservata criticamente l’idea dell’abbandono che circola in questi versi, ma mi pare di cogliere in questo stato, non un rassegnato adagiarsi all’esistere bensì un morbido ma deciso dinamismo esistenziale. Nella dialettica oppositiva tra il movimento e una stabilità come presa di coscienza, Paola Pennecchi propende per il suo singolare incedere verso un oltre che la riconnetta agli stadi non umani del vivente, in una conciliazione di forme che schiude una nuova pacificazione ontologica. Che il viaggio sia spirituale, sia volo, è attestato anche dall’inclinazione ornitologica della poetessa, che si colloca in una tradizione novecentesca non meno che arcaica. Gli uccelli vedono le cose dall’alto quindi incarnano una visione superiore e sono l’emblema del viaggio, proprio per il loro avere la migrazione come pulsione ancestrale. Ma gli uccelli di “Traslochi” sono anche fidamente domestici, per quella speciale sintonia che l’autrice instaura con l’universo animale, che si estende, oltre il cielo, dalla terra alle acque. E, specificamente, troviamo le rondini, protagoniste della omonima sezione Io rondine, creature dal moto perpetuo, libere per essenza (“Le rondini viaggiano/ senza passaporto”). Con questi esseri, Paola Pennecchi spinge il processo metamorfico fino all’estremo di una fusione che le permette di esperire il loro fascinoso trasvolo e di contemplare il mondo con i loro occhi. L’universo zoologico, orficamente ammansito da versi-leve capaci di ribaltare le distinzioni logiche, si offre mansueto alla transumanza ontologica di Pennecchi all’insegna di una pace errabonda di incerta conquista. Lo stesso afflato partecipativo investe le cose, le case, depositi d’anima negli oggetti. Il tras-loco dunque è sempre un congedo iniziatico e sacrificale che la memoria non può colmare, pur nel travaso affettivo che poesie come “Casa Antica” mettono in essere. La cucina poi, incarna questa ambivalenza di vita-morte, assenza-presenza, squallore di mancanza e calore familiare, in una poesia che abbraccia con sapienza poetica gli opposti: non a caso questo ambiente ha un posto di rilievo, con i suoi dettagli da intimità fiamminga e con la nuda essenza di nucleo animico in grado di generare redenzione: “l’araldo della fortuna/ bussa/ con l’obolo / del riscatto/ e la promessa dell’esistenza..”. Questa confidenziale adesione alla sostanza della vita, anche nelle sue metafore abitative, non tragga in inganno, distogliendoci da uno dei precipui centri poetici di Pennecchi, e cioè l’idea del divenire, che infatti intitola una sezione del libro: Incessante divenire, dove l’aggettivo ne potenzia l’espansione. Comprendiamo che tale moto investe in primis una cruenta e malcelata trasformazione interiore – vissuta “come un sudario” – verso una essenzialità che è una direzione ontologica più che un traguardo etico: “smantello/ la parte/ superflua/ di/ me.” L’orientamento si disvela appunto verso una essenza originaria con cui Pennecchi familiarizza attraverso una creaturalità primitiva, extratemporale, foriera di una “lunga e lenta […] guarigione”: elaborare il vivente attraverso stazioni di via crucis decorporanti, fino allo stadio della pura spazialità, inondata di luce. La casa dell’anima diviene ipostasi delle abitazioni terrestri e della dimora di carne del nostro percorso terreno. Nello scorrere le varie sezioni del libro, con titoli sempre molto significativi, come “Coscienza della solitudine”, ci si persuade sempre più che il tras-locare della poetessa non sia solo geografico o esistenziale, ma bensì di specie: vale a dire che al lettore pare di assistere – tra i versi – a una vera permutazione di stati, che sono le tappe metamorfiche dell’anima del poeta, trasmigrante tra condizioni aeree o equoree o vegetali (il suo “alfabeto minerale”), alla ricerca di un’identità o di una conciliazione con il vivente non riduttivamente psicologica ma di portata ben più vasta. Paradossale è la ricerca della sostanza, nella diaspora delle condizioni, in questo farsi sempre altra di Paola Pennecchi, ma è la cifra di una ricerca inquieta sulla condizione umana, la sua inappagata tensione verso una condizione che incarni finalmente la sostanza dell’uomo, inseguita nella sua singolare araldica botanica, verso quel suo “casato vegetale” che forse più di altri conserva il suo stemma.Tutti i fili convergono in quell’autenticità totale con cui si espone alla vita, e da essa viene premiata: “Cuore chiaro/ chiama la vita/ e ne ha risposta”.
Paola Pennecchi è parola e anima diveniente, cifra nefelica di un’inchiesta-confessione di vasta portata, che approda alle rotte alte di un volo che ha già nelle ali un nido paradisiaco.Negli scarti improvvisi del reale – dove cammina per segrete illuminazioni – Paola Pennecchi ci consegna scaglie lucenti dell’unica verità possibile, a lei iniziaticamente concessa: volgersi verso il cuore dell’Essere, in un’alterità che non la disconosce ma la include, in una plurima variazione al cui centro rifulge la dolcezza del suo sorriso.

Gabriella Cinti

 

 

Devo tornare
da dove sono venuta:
dalla parola.

Da quel grumo
inesprimibile
che fu prima
suono gutturale
e poi
gioioso stridio di rondine.

Da quel verbo
che tutto spiega.
Così,

semplicemente.

*

Viaggiano
gli agnelli
nelle sacche
riscaldate
da mule antiche
e
le pecore
avanzano
con i loro
crani
di osso duro
appena velato
di lana.

Si compie
il rito,
la magia
di un
presepe mobile
appena
increspato
di strada.

Ed io sogno,
sogno
la transumanza

del mio vello
ossidato.

*

Tace
il becco
del merlo mattutino,
tace nelle brume
di ottobre.

Pupille
come
scintille
di melograno

seguono
il volo
dei migratori.

*

Quanta sacralità
nelle madie linde
e sulle
tovaglie increspate
di farina.

Com’è rituale
quel moto planetario
del mescolo
che porge
il nutrimento.

Quanta poesia
nel silenzio di case
senza affaccio
dove mai
l’araldo della fortuna
bussa
con l’obolo
del riscatto

e la promessa
di esistenza.

*

Eccole là
le mie ferite argute
stampate
sulla camicia
da notte,
come un sudario
Pop,
sindone mattutina.

Sono andata ormai
oltre
il mantello epiteliale
e diligentemente,
ogni notte,

smantello
la parte
superflua
di
me.

*

Come se
dovessi
decomporre
la materia
mia

un altro me,
in sosta
millenaria,

attende
al dazio
degli dei.

*

Semi di frutti
e fiori.

Ho deciso di
offrirmi loro,

silenzioso concime
urlante di vita.

Così sarò
anch’io
Appartenenza

Con i colori
vessillo
del mio casato
vegetale.

*

Ma cos’è
quella spinta
sottile
che sfila
il lenzuolo dell’insonnia
e le occhiaie perturbatrici?

Migrazione da luogo statico
Uscire

Trasparenze
dalla cassa toracica
Cuore chiaro
chiama la vita

e ne ha risposta.

*

Viola estremo
e tagli di grigio
lucente.
Argento vibratile

come rifrazione
di elitre
e betulle.

Questo
il mio alfabeto
minerale.

Le rondini
viaggiano
senza passaporto.

Paola Pennecchi

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