[…] Intanto piove ad Itaca – struggente visione di un ritorno che priva Odisseo di ogni speranza di incontri felici; nella mappa che lui stesso ha disegnato, lo scoglio dell’isola è freddo, umido: su Itaca piove. La domanda rimane perciò sospesa: tutte le carte che l’hanno orientato fino alla sua amata isola che destino gli hanno disegnato? Il cuore di questi poemetti è cupo e pietroso, ma ricco di anfratti che aprono su mondi epici ben noti, rivisitati con le lacrime agli occhi (o forse è solo la pioggia che cade su Itaca…): c’è uno scacco nel dire poetico dell’argomentazione razionale, che Odisseo insiste a voler utilizzare per dare senso ai suoi itinerari, alle sue storie, e al suo ritorno. In contraddizione con sé stesso e con la sua storia e col suo mito, l’Odisseo di Francesco Randazzo denuncia il limite della ragione, che credeva fosse carnale e sensuale, per scoprire infine, in quest’isola piovosa, che il nocciolo del reale è sordo al canto, all’epos. Ne consegue una ferita che lo disorienta fino a fargli smarrire la bellezza del meraviglioso vissuto. Itaca è la terra umida del trauma: così come battute dai venti sono le lacrime fredde di Penelope e di Aretusa. Itaca è un approdo per naufraghi. Ed è una storia di naufragi, questo trittico disperato e disperante. Assistiamo al disarticolarsi dell’uomo Odisseo non più eroe non più mito; lo ascoltiamo narrare le sventure e gli incontri, sfrangiati ormai, sbocconcellati, è il destino di un uomo che non riesce a tornare a casa e che scopre non esserci più casa, non esserci mai stata. A nessuno è più dato di avere casa: Odisseo non la ritrova, Penelope la perde, Aretusa la fugge. Disintegrate le certezze: tenute appena in vita da una narrazione sempre meno sicura delle verità conservate nella memoria, forse presunte, forse sognate.
Pippo Ruiz
ITACA DESERTA RUGGINE
Scrosto i licheni dai pilastri della piattaforma,
sento il metallo corroso come sabbia e l’odore
di ferro e mare stride sulla pelle e sul cuore.
Io non sono più io, mi sono perso troppo a lungo,
troppe vite ho vissuto, troppi errori, troppo tutto.
E infine, stanco, a me stesso straniero, eccomi
qui, ad Itaca, il relitto fragile e duraturo, l’unica casa.
Non c’è un cane ad accogliermi, nessuno qui ormai,
soltanto fantasmi nemici, bulloni slentati, ruggine.
La mia reggia è soltanto una baracca semidistrutta,
la maceria polverosa del tempo mi bracca spietata.
Dal mare un’alga, per vent’anni, è affiorata sul ferro,
bramando l’aria salmastra, nell’illusione della terra,
è salita fino in cima, sulla piattaforma arida dove
ha saputo trasformarsi in albero, spezzata l’illusione,
ha pianto dai rami, vincendo la morte, s’è fatta salice,
e nella solitudine, sul ferro piantato nel mare, persiste.
Il vento che l’accarezza fa fremito di foglie e sospiri.
Un pescecane ha spezzato i suoi denti
sulla mia coscienza, morendo esausto.
Sventolano dappertutto brandelli di tela,
riconosco la mano di Penelope, tessitura fitta,
strappi larghi e rabbiosi, colori forti, sbiaditi.
Sembrano le bandiere del mio naufragio,
schioccano secchi contro i pali rugginosi,
mi rimproverano urlando: – Troppo tardi! Troppo tardi!
Eppure sono qui, penso, sono qui, finalmente.
Ma dove sono veramente? È questa Itaca?
La mia isola artificiale si sgretola al tocco della mano,
e la speranza è diventata polverosa morte. Nessuno.
Un pescecane ha spezzato i suoi denti
sulla mia coscienza, morendo esausto.
Avessi un occhio solo, ristretto cannocchiale,
vista parziale, campo ridotto, più modestia,
sarei uno che ha vissuto senza strappi, nell’ordine
compiuto, sdraiato sul divano, sportivo dello zapping,
beato Polifemo domestico ammansito dal plaid lambwool.
E invece ho avuto sempre la smania di vedere più
e oltre, nessuno mai più di me a perdita d’occhio
ha vissuto nello sguardo e nel cammino, follemente.
La vita un prurito continuo, grattarsi ovunque e senza pace mai.
Pure quanta miseria, sabbia, pulviscolo, scorie,
le mie mani stringono tristemente e l’acqua
della fuga mai riesce a lavare, così guardo
i miei palmi consunti e le corrose linee tradite,
così mi specchio tra le dita scarne, memoria e artrosi
di lusinghe, entusiasmi, presunzioni, oltraggi, miei.
Un pescecane ha spezzato i suoi denti
sulla mia coscienza, morendo esausto.
Piove ad Itaca, dal mio arrivo. Le onde dabbasso
si frangono in spruzzi, dall’alto si schiantano gocce
rabbiosamente tristi, risuonano sul metallo e sembra
che la ruggine si sciolga in sangue velenoso, corrosivo.
Tutto è rimpianto, eppure niente mi sembra mio quanto
questo simulacro di casa, questa tomba di famiglia.
Da qui trivellavo le profondità marine, io furbo,
imprenditore, manager intraprendente: petrolio o gas
– dicevo – Superata l’acqua c’è il fondo, e sotto la ricchezza,
da qui estrarrò potenza, energia e denaro! Questo è il mio Regno.
Quanta solitudine, nel potere e nel denaro, mi aggiravo rabbioso.
Perché nulla poteva bastarmi, nulla aveva senso e la vita soltanto
accumulo ottuso. Guardavo il mare con lo sconcerto e il panico
che avrebbe potuto spazzarmi via in un momento, e di me niente
sarebbe rimasto, se non la menzogna di un’esistenza vana.
Tutto è vanità tranne il cercare, l’andare, il navigare l’acque,
e incontrare, conoscere, in movimento diritto e pendolare,
nel tragitto tortuoso, nel groviglio serpentino della spinta,
il senso dell’assurdo vitale, fino allo specchio che sta in fondo
ad ogni strada. Anche questo mare e questa piattaforma sono
lo specchio in fondo al mio cammino, mi ci rifletto e vedo,
tra ricordi e rimpianti, il branco di pesci migranti che mi abita.
Un pescecane ha spezzato i suoi denti
sulla mia coscienza, morendo esausto. […]
Francesco Randazzo
Francesco Randazzo si è laureato in Regia all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico” di Roma nel 1991. Siciliano della diaspora, sovente col cervello in fuga all’estero, è scrittore e regista. Ha pubblicato, con vari editori, testi teatrali, poesie, racconti e tre romanzi; ha ottenuto numerosi riconoscimenti in premi e festival nazionali e internazionali. Ha svolto attività didattica con corsi di recitazione, regia, drammaturgia e scrittura creativa, storia dello spettacolo, stages e conferenze per varie istituzioni pubbliche e private. Ha creato e gestisce il blog Mirkal. Delle Arti e delle Lettere e Ozarzand (questo non è un diario). Per la webzine Maredolce.com cura la rubrica “Le lettere di Woland”.