Montalbano- Pisticci, dopo Buonabitacolo-Torraca, Roma, con periodi a Parigi. Ecco le principali tappe della biografia di Luciana Gravina presentata da Francesco D’Episcopo e Giorgio Linguaglossa in questo variegato, denso ed elegante volume: Percorsi poetici e pretesti critici ( 1979- 2019). D’Episcopo parla di una ’vocazione autentica e assoluta’ che l’ha portata ad uno ‘sperimentalismo avido e ardente’ che può rinviare fino ad un assurdo iperreale (alla Beckett) unito ad un ‘creativismo semiologico’, produttivo di neologismi e parole inventate ( ma non meta semantiche). Una poesia che va letta a voce alta, col sottofondo dell’adagio in sol minore di Albinoni o con i violini e piano di Mozart conc.n. 21 o, ancora, con brani del Parsifal di Wagner, provate. Nella prima fase poetica (inclusa sul carro ‘femminista’ di R. M. Fusco del 1980) ecco un racconto di paese : “Passeggiata nel corso, andata e ritorno/ più volte; senza biglietto, signori, si guarda./ Dall’arco alla fontana dove la piccola Venere/ snida la pietà delle monete false./ Racconto di paese dove non soffia il vento/ e la vita si vuole perfetta come la morte./ Fino all’arco sotto l’orologio,/ passi consueti sul porfido/ fin dove annega l’azzurro fumo della notte,/ dove i nostri destini allineati / hanno la durata di un grido,/ vi cerco ogni sera l’astuta follia dei lampioni/ e nell’oro falso mi fingo un timone.”(A folle uno, XX). Poi questa ‘ formalizzazione del magmatico esistenziale’ (Donato Valli, che vi rileva un’ascendenza simbolista) cambia ancora a partire dai frequenti endecasillabi de ‘La polena’ (del 1984), ’ simbolo dell’avventura umana’ e ‘metafora del silenzio’, per assumere una posizione ‘mediana’ fra Sanguineti e una classicità postmoderna (Gennaro Mercogliano), racconto d’un’apolide il cui bipolarismo oscilla fra i due campi della natura-realtà e dei segni-simboli. Più decisa poematicità si registrò con ‘M’attondo il giorno’ (del 2004, con grafica di Vanni Rinaldi e testi musicati dal M° Vincenzo Borgia), dove la versificazione ipermetra espone, nella ‘deformezza della norma’ un’inclinazione filosofica “io sdoppiata e a raddoppio, speculare di me, testimoniale del tu/ (altra me) a cui tendendo…”, con cui tenta di ‘spraticare la norma’, di evidenziare il groviglio del mondo e di tentare il ‘controllo del piccolo caos quotidiano”(Mario Lunetta). L’acqua, lo specchio, la spirale, la rotondità sono immagini con cui razionalizzare il quotidiano, fino a ‘Rosso cavallo’ nel cui vigore linguistico si registra il declino dei valori e delle certezze ( siamo immersi nel paesaggio post-ideologico e nella desertificazione dell’umanesimo, ricostruisce Martina Peloso). “rossi che ti assomigliano se anche il mondo dorme rosso/ a un’ombra di carne. Cosicché rosso mi porti un vascello/ roco di vibrazioni solenni. Cosicché rosso. E lo zoccolo/ batte, rojo batte all’antico fiore, red(i)vivo/ ad ogni piccola morte, ad ogni viaggio. Rosso.”. Ancora diversa forma mostra l’originale poemetto ‘Del senso e del sé’ (2006), dedicato alla ‘Dama con il liocorno’ (arazzi parigini del museo medievale di Cluny) (musicato dal M° Mauro Porro), dove s’illustrano i cinque sensi e si chiude con il libero arbitrio; la constatazione di una “vita mbruscinata nel mare insonne” con un “ questo nostos pendolare tra Torraca e Parigi”. Qui Gravina legittima la spiritualità del corpo, perché il corpo che sente non è disgiunto dallo spirito e, quindi, la persona, uomo o donna che ‘sente’, afferma la sua consapevole esistenza nell’armonia dell’universo…condizione mistica”. Sembra un riporto da J. Bohme ed invece è spia del percorso della Gravina che si è avvicinata alla filosofia della Crescita personale e muta ancora le sue forme poetiche, si serve d’un panismo unitario, figurato nella spirale, che è pure la forma d’un suo gioiello, e la direzione va verso un ‘infinito presente’, che è un augurio per noi tutti, il raggiungimento del chakra, della ruota, forse anche arcolaio induista, sui cui punti si registra l’incontro fra il sé e il mondo, con equilibrio e pacificazione fluida (Rino Malinconico) e infatti ascoltiamola: “ Rimediarla la vita, jamais, ma di / riappropriazione dico, perché quisqueciascuno è / fabbro e averla fra le mani… / annegare i deliri, sfrangere le paure del poi, risistemare il / prima, a luce di fresca nascita di un infinito presente “. Ricompattare il caos, ecco il progetto, anche attraverso una poesia di corpo e di pensiero, in maniera da ripristinare la vitalità ed ottenere l’equilibrio della persona (Anna Maria Vanalesti, 2012). Questa teleologia di vita continua ad esprimersi in una forma mistilinguistica, con l’ottativo del desiderio e l’oltranza: “ potessi spalmare / questo tremore illuminato (…) mi piacerebbe cambiare / strada prossima allo sbaglio (…) corcare / l’attimo afferrato benché fuggente e vivìrlo di fresco questo/ smottamento del cosidetto amore…”. Infine, il poemetto (della bambina con) “Il fiocco in testa” inedito, impreziosisce questo stratificato volume in cui lo sguardo disnuda il bianco silenzio, il mutismo della condizione femminile nelle società patriarcali, l’incomunicabilità delle emozioni: “Cantavo sottovento in fuga. Il / fiocco in testa non si conosceva deciduo. I muli squassavano/ le sonagliere. Disegnavano la…..biografia della piazza”. Rinvio il lettore ai puntuali commenti di Valentina Nesi e Filomena Anna D’Alessandro. Nella postfazione, Linguaglossa inserisce l’intero e diversificato percorso poetico della Gravina nelle linee italiane, dal predominio finale della neoavanguardia alla crisi degli anni Novanta, quando la post-ideologia rivela il declino dei valori e dei codici della tradizione umanistica e qui la Gravina declina una “dizione sperimentale che recepisce la crisi dell’io e la crisi della forma-poesia ricevuta…”. Gravina è dentro il tema della crisi della forma-poesia; evita le poetiche del ripiegamento; devia dal minimalismo del quotidiano; divaga da impegni sociali di una scrittura di protesta e tenta il sentiero della dismetria, a volte ironica, affondando il periscopio nella materia stilistica, fusa con una ‘poesia corporale’ distillata fra pressione esistenziale e sorgività del canto, che tritura memoria e angoscia. In tale maniera la ‘krisis’ è entrata all’interno della parola poetica, che allestisce una propria scenografia linguistica, in cui si recita la scissione fra il nome e la cosa, fra il soggetto e il linguaggio, in maniera drammatica e forse irrisolvibile, almeno per la nostra generazione.
Antonio Lotierzo
Da E se..
E se…
restaurando sulla verifica delle intuizioni
rinnegando
dandosi da fare
aiutando
il telefono a barare
combaciassero
finalmente tempi distratti
i nostri strabici crocevia?
E se…
attestandosi
gli angeli di verderame
sul lungotevere sangallo
ci cogliessero
-noi così immuni dal vizio
degli orizzonti-
puri sul gioco aperto
sul limite?
Otranto
l’anello chiuso sul mosaico
(guglielmo primo ha gli occhi di gatta)
a prescindere dalla navata
– la fuga della luce –
è Giònata che regge. I nostri fiati
hanno scudi rotondi e avversari
nel sortilegio corpi di leoni
battono i tacchi al tacco.
Ma è la tregua
del mare che mi spiazza.
Da M’attondo il giorno
Agogica dei verbi
I
E tu sradica. Smonta l’azzeramento, ora che nel vento s’è persa
tutta l’eco possibile del tuo risibile
fantasiare o poesiare e lampi a guizzare
nella stagione rovente, oscillante per colpa e/o innocenza
e trappole nell’aria e le terra di insidie e congiunture.
Fu il vento-infanzia vizio-lacerazione (ma tu erodi) sfangato
per l’afflato ignaro, fu che si perse fuso all’orizzonte di una piattezza
brutale il menomale arrembante, poco importa se ricucire, ma
catalogare ogni fibra (con la pazienza dei pazzi)
i grumi di violenza sorta sua sponte a monte della fame di vita per cui
ogni soffio era fatuo e falso: fu appunto il vento apolide (altro me)
che per primo si perse sullo sgretolamento.
III
E tu dissolvi. Arma del prima il poi. Viziarlo
di cruente striature, creature-dedali di abissali perdizioni,
ricatto di stremate mappe lunari, echi distrati a smontare,
anche se il vento è una baldracca liquefatta, sciogli gli imbrogli.
Fu pallida vendetta il figliare luoghi sregolati di tempo, struggere
la tenuta di un crocevia, di una battuta di storia, (non sai mai se eco o
memoria) ora che lo scarto della furia è l’ironia accidentata, litania
distillata per una divinità anch’essa dispersa.
E tu poésia. Ora leccare lo strepito, l’onda concentrica, l’ambiguità
della disfatta, ora l’intatta nudità – spirale e liturgia – folgorare
una via insofferente, scandagliare il niente di un nome, fantasmare
per arbitraria devozione. Ora. Di per sé vibrasse la stramatura della
convenzione, spraticare la norma, rifondarsi dove anche il mare
svaria e il trasalimento è questo tardivo groviglio di clonazioni
pullulate sul fastidio del sogno. Ora che il vento è soltanto una
sbavatura dell’aria, disaffezione al furore, alla stura involontaria; se un
fiato non legittimato sbatte alla parete accanita, sete a poesiare le
sospettose viscere: fantasiare. Un niente. Scrutare l’intarsio
di colori di suoni per astuzia: suitare, cosicchè, oboando, flautando.
Da Scherzi, elegie, lamenti
Hortus conclusus
La stanza che mi tiene è un assolo
svaria il lato che non coincide e conclusa
in punta d’orto mi semina. L’aria ha frazioni d’ore,
è controtempo. Ha il perimetro basso la mia stanza.
È stretta di misura con prato slimitrofo,
in punta di parola mi squadra e l’orto mio
colora di fonemi senza voce. Li diresti suoni e mi
bussano per ogni dentro.
Mi chiede la parola accesa di suono, scrolla
la mia seggiola afasica (quattro piedi e un cuscino
di paglia), il racconto dell’oltre mette ai miei giorni,
ripesca svoglie di sue mani.
Da L’Odorato
1
In naso più che in bocca, questa “t”
m’ero tenuta (ven”t” huit, madame?)
va a scaricarmi, il tassista, ovviamente,
al ventotto (vent huit) di Marx Dormoy.
A rischio di sbatacchio, Gare du Nord,
e di valigia. Parigi è anche questo.
2
Rue des epices, cosicchè cammino
nell’aria di cumino e pelli scure.
È l’odorat che mi porta a casa.
La vigna di Montmarte fragra per questa
primavera dispotica stanandoli
gli intervalli e spiandomi a naso.
3
In agguato il pulsare dell’aria.
A naso sfasso passo e a fiuto cedo
se Rue di Rivoli sape di pioggia
mi ci cammino dentro, in questo odore
che non è acqua, non è aria, non.
Mi ci cammino. Dentro a questo odore.
Da L’Infinito presente
Spiralitudine
Avessi. E l’ansa preordinata del pensiero,
contromaterica avventura, enigma invalido, claudicante
eresia combinatoria di werther und sachen. E così sprofilata mi
attengo ai brandelli, proprio gli ultimi, alle frange magari,
me ne cammino su queste, sui panorami, sugli orizzonti
sfuggenti, mentre le porte sbattono beanti, avessi visto
il sole, le soleil, la turbinosa distrofia del progetto.
Avessi visto. Cosicché
dondolandosi e inusuale godendolo il cerchio (dico di
avvedute infrazioni) lo traessi del nuovo dal mio fianco,
oltre che dalla testa, come adamo da eva, come il sole dalla
luna, sovvertendolo l’ordine sterile ormai, perché a spirale
mosso, in vortice traverso alitare di vita, ipsiare di se
stessa, attorcersi a nuovo.
Qui Moebius non c’entra, non scorre, non
shechera colori, non dimostra che. Se ne sta, sapendolo,
annicchiata e quasi modesta nelle sue curve di rame un po’
brunito, quel tanto fatto apposta in combutta con l’umido,
con l’aria, con l’ossigeno che scruta e scura e muffa tutto e
scansa la logaritmica di infinita vita in sé risorgente toujours
(eadem) tra alfa (mutata) e omega(resurgo).
Potesse, per quel dentro in me, per l’io che
ordina e travolge, per il corpo che nella parola avviene
e si concede, per il sé che il verbum contraddice, potesse lo
scarto ricorrente del fiato superstite, disseminato nelle cose
e l’ordine, annientare, se l’esilio dell’io libero, appunto, è
la norma e non c’è tu che tenga perché è l’ordine che sfalsa
e sfasa, guadare l’avventura rimanente anche se a norma (il
fout) ricondurre ogni clamore e morìrlo questo élan
bergsoniano (se appena è possibile) ricompattarlo il caos
e vivìrlo.
Luciana Gravina