Poesie e prose del poeta Petr Král, nota di Giorgio Linguaglossa

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So bene quanto sia difficile comprendere la poesia di Petr Král, nella tradizione poetica italiana del novecento non abbiamo nessun equivalente che ci possa aiutare. E però quello che noi stiamo tentando di far capire parlando della «nuova ontologia estetica» è qualcosa che molti grandi poeti europei hanno già fatto e che oggi fanno… si tratta di una poesia che si muove secondo altri canoni, altre regole da quelle cui ci ha abituato la tradizione della poesia italiana di questi ultimi decenni. Se leggiamo alcuni versi di Král ci rendiamo conto della distanza che separa questa poesia dalla contemporanea poesia italiana (almeno quella precedente la «nuova ontologia estetica»).

Ora

E uno zeffiro rimescola l’oblio nelle pagine del libro
Con i brividi dello sterpeto circostante ci tiene senza fine
in guardia

Per quello che possiamo capire dalla traduzione di Antonio Parente, qui abbiamo la esemplificazione di una scrittura che si muove tra gli spiragli e le fessure del referente, anzi, dei referenti; una scrittura che sembra spostare di lato i referenti; per esempio, leggiamo soltanto il primo verso. Che cosa significa dire: lo «zeffiro» agisce sull’«oblio» per agire (di rimando) «nelle pagine del libro»?. Davvero, un bizzarro assemblaggio di attanti. Davvero bizzarro è che lo «zeffiro» agisca per interposta persona per poter agire «nelle pagine del libro»! Questo è davvero un impiego insolito (almeno per noi abituati ad una scrittura lineare e ad un concetto lineare e corrispondentista delle parole rispetto ai loro referenti) delle parole che sono trattate con una libertà fantastica inusitata e sfrenata. La parola (lo «zeffiro») agisce quasi autonomamente, di propria iniziativa, sganciata da qualsiasi azione umana. Il soggetto non c’è più, qui è uno «zeffiro» che agisce motu proprio e prende l’iniziativa di veicolare la significazione poetica. La poesia diventa così una macchinazione significazionista, una macchinazione di significati scentrati, ellittici, fuori centro, lateralizzati. La significazione procede e agisce per contraccolpi e per rispondenze indirette certo non obbedienti al codice a cui siamo abituati nella lingua di relazione: Parole=referente. Qui, alle parole corrisponde un referente «spostato», «lateralizzato». La macchinazione significativa della poesia si sposta di clinamen in clinamen fino a lateralizzarsi in continuazione…

Il linguaggio della poesia comunica e nasconde. Parlando produciamo inconscio e non solo intenti razionali e lineari. Il linguaggio agisce ma è soprattutto agito da una parte di noi che rimane sconosciuta. Mentre utilizziamo la parola per dire il nostro voler dire, per prescrivere il giusto, il consono nella parola si insinua sempre qualcosa che la scardina, che le fa dire qualcos’altro, che le impedisce di ancorarsi saldamente ad un significato, qualcosa dell’ordine della mancanza, qualcosa che distorce la nostra intenzione significante. Se l’inconscio freudiano parla, è perché ha qualcosa da dire, e questo qualcosa si colloca a livello del non sapere: l’individuo parlante non sa cosa dice. Si può dire con Lacan che nella catena significante il senso insiste, ma non consiste.

La parola poetica è detta in funzione della comunicazione con altri, per i quali la parola diventa a sua volta una cosa, un significato che ha bisogno d’essere afferrato attraverso un significante, cioè un’altra parola. Questa può anche essere la medesima della prima, ma con questa entra in un rapporto di indeterminazione indistinta analogo a quello che legava la prima parola alla cosa significata. In altri termini, il linguaggio umano è una gamma di innumerevoli spazi intermedi, di comprensioni incerte, di fiducia carente, di equivoci, di menzogne, di inganni, di sospetti inevitabili.

Dal punto di vista linguistico, la «metonimia-spostamento-cut-up» indica la combinazione tra un significante ed un altro, mentre la «metafora-condensazione-fold-in» si costituisce come un movimento di sostituzione nel quale un significante prende il posto di un altro significante producendo un effetto di significazione, un dipiù di senso. La metonimia produce una fuga del senso, un suo scorrimento resistente alla significazione (una parte significante per il tutto, che scivola di significante in significante per definire sempre lo stesso tutto sfuggente). Direi che la poesia di Petr Král obbedisce alla legge della catena significante.

Giorgio Linguaglossa

 

Tempo di sonate

Qua e là risuona ancora Chopin, si sbriciolano toni madreperla,
incerta si ravviva la morbida penombra dei saloni; le signore si
inturgidiscono e ondeggiano, singhiozzano bluastre
nel fazzolettino. Nonostante gli ammassi fumanti di morte
ammucchiati oltre le aie
dell’autunno è ancora possibile che tu, come un eroe vivo,
passi anche col treno fino alla stazione al centro di una provincia
senza nome,
spalanchi la porta, in una saettata d’occhio balzi giù sul binario,
ti precipiti alla festa da ballo e dopo un ballo lento risuoni nell’alcova
gli inaspettati sospiri bluastri di qualcuna. E tra i sospiri, oltre
le tende rigonfie,
scorgi dalla finestra la steppa come una distesa intera e nuovamente
fresca – All’orizzonte il bosco intanto continua a scongiurare
l’indifferente cima, scuro collare di castoro,
dal fumo delle nostre trine, nel deserto circostante e nelle oscure
coulisse
si muove, respira soltanto il tempo fuggente.
E sale da solo in salotto lungo le rigide figlie del padrone di casa,
lungo la piccola nudità di alabastro
sul pianoforte fino agli ornamenti scalcinati del soffitto –

Petr Král, dall’Antologia Tutto sul crepuscolo ed. Mimesis, 2014.

 

Il caffè

Il sabato, dopo aver dormito a lungo, usciamo e scivoliamo indietro nel tempo con la morbida indeterminatezza che solo la mattina meno impegnata della settimana consente; ci uniamo ai vivi, un po’ di sbieco, solo quando, appoggiati al bancone del bar, ordiniamo un caffè che berremo osservando incuranti la strada e il suo sfocato viavai dietro il vetro. Lasciarsi portare verso se stessi da un sorso bollente, inaspettatamente preciso, della bevanda che ci scorre in corpo insieme ai residui del buio notturno, significa concentrarsi di colpo e affermare chiaramente la propria presenza, nonostante la momentanea indefinitezza dei nostri gesti e la sonnolenza del momento.

 

La camicia

a Milan Schulz

Una camicia pulita è la nostra seconda – e miglior – pelle: i suoi ondeggiamenti e rigonfiamenti dilatano il respiro di quella che ci è data una volta per sempre, la onorano e la cullano quasi affettuosamente. Anche il giorno che ci circonda, insinuandosi con un colpo d’aria sotto la camicia, sembra quasi accarezzarci. Quando una camicia ha ormai fatto il suo tempo ci congediamo da lei lentamente, come fosse una donna. La camicia ci è più vicina di un cappotto, nelle cui tasche già vaghiamo a volte desolati come nel mondo. E con i pantaloni, che ogni mattina sono lontani quanto la stazione, non va certo meglio.

 

Lo spettacolo

Ancora una volta, al mattino, assistere stupiti allo spettacolo del posacenere, dei bicchieri e della caraffa che immobili misurano la pianura del tavolo.

 

Radersi

Prima di raderci spalmiamo la schiuma bianca sul viso, come clown prima di entrare in scena, sotto di essa ci è più facile trovare la nostra pelle nuda; come in una parentesi di breve eternità ci attardiamo soli con noi stessi ai margini del tempo, nella cui corrente stiamo per immergerci. Proprio come accade al momento del risveglio è in quell’attimo che ci sovvengono i pensieri più profondi e originali della giornata e ancora meglio: mentre ci radiamo e misuriamo senza fretta l’estensione della nostra nudità, sappiamo tutto.Mentre il corpo è occupato nella cura di sé, concentrato su ogni suo minimo aneddoto, l’anima, come un’ape libera, sorvola il mondo intero, e osserva i suoi nascondigli sconosciuti.Un impercettibile tremito nell’aria o in noi stessi, un semplice niente, deciderà della riuscita della rasatura – e allo stesso modo dell’atto d’amore che in fondo ora, con il rasoio, offriamo a noi stessi. Niente è anche la brezza che sfiora la guancia con una goccia di colonia, come l’ultimo fremito dell’abisso che, grazie alla rasatura, abbiamo felicemente oltrepassato.

 

Gli orologi

Le grandi città sarebbero di certo incomplete senza i grandi orologi che svettano all’improvviso per strada sul viavai dei passanti; ma la conferma che gli occhi cercano nel loro quadrante va molto al di là dell’accertamento dell’ora esatta. Lo sguardo che in risposta ci rivolge il quadrante, aperto e sereno dietro le lancette che con la loro posizione evocano non tanto l’ora precisa, quanto uno sbadiglio segreto del tempo – quello sguardo ci sostiene in un certo senso grazie solo alla sua impassibilità; il tempo di cui ci dà notizia è solo quella durata infinita, estesa in ogni direzione, che fa da sfondo a tutto ciò che esiste, l’assenza di colore sparsa in tutto il quadrante ci rammenta semplicemente che siamo al mondo. Lo spazio di numerose città – soprattutto meridionali – si rivela ancor più chiaramente perché viene demarcato dagli orologi che mostrano a ogni angolo di strada qualcosa di diverso, un altro tempo, un’altra stagione – senza nemmeno sembrare imprecisi per il luogo e il quartiere in cui si trovano, ognuno col suo movimento e il suo ritmo. L’orologio sul piccolo municipio di un quartiere di Bruxelles – particolarmente esemplare – ha continuato per anni a mantenere ostinatamente le lancette fisse sulle dodici, un simbolo dell’ora zero che include tutte le altre.

 

L’attaccapanni

Essere solidali con l’attaccapanni e con la sua nudità, che mantiene intatta sotto il peso provvisorio dei nostri vestiti da clown.

Petr KrálNozioni di base, Miraggi, 2017 (Traduzione di Antonio Parente)

 

petr-kralPetr Král nasce a Praga il 4 settembre 1941, in una famiglia di medici. Dal 1960 al ’65 studia drammaturgia all’Accademia cinematografica FAMU. Nell’agosto del 1968 trova impiego come redattore presso la casa editrice Orbis. Ma, con l’invasione sovietica, è costretto ad emigrare a Parigi, la sua seconda città per più di trent’anni. Qui, Král si unisce al gruppo surrealista, che darà un indirizzo importante alla sua poesia. Svolge varie attività: lavora in una galleria, poi in un negozio fotografico. È insegnante, interprete, traduttore, sceneggiatore, nonché critico, collaborando a numerose riviste. In particolare, scrive recensioni letterarie su Le Monde e cinematografiche su L’Express. Dal 1988 insegna per tre anni presso l’Ecole de Paris Hautes Études en Sciences Sociales e dal ‘90 al ’91 è consigliere dell’Ambasciata ceca a Parigi. Risiede nuovamente a Praga dal 2006. Petr Král ha ricevuto numerosi riconoscimenti: dal premio Claude Serneta nel 1986, per la raccolta di poesie Pour une Europe bleue (Per un’Europa blu, 1985), al più recente “Premio di Stato per la Letteratura” (Praga, 2016). Tra le numerose raccolte poetiche, ricordiamo Dritto al grigio (Právo na šedivou, 1991), Continente rinnovato (Staronový kontinent, 1997), Per l’angelo (Pro Anděla, 2000) e Accogliere il lunedì (Přivítat pondělí, 2013). Curatore di varie antologie di poesia ceca e francese (ad esempio, l’Anthologie de la poésie tcheque contemporaine 1945-2002, per l’editore Gallimard, 2002), è anche autore di prosa: ricordiamo “Základní pojmy” (Praga, 2003), 123 brevi prose, tradotte in italiano da Laura Angeloni nel 2017, per Miraggi Edizioni. Attivo come critico letterario, cinematografico e d’arte, Petr Král ha collaborato con la famosa rivista “Positif “e pubblicato due volumi sulle comiche mute.

1 commento
  1. L’uguaglianza assiologica del linguaggio poetico rispetto al linguaggio comune

    Preferisco non adottare fraseologie come «dittatura dell’ignoranza» riguardo alla società mediatica di oggi, o come l’altra dicitura di Zagajewski secondo il quale «abbiamo perduto la tensione verso il sublime». Entrambe le locuzioni presuppongono una superiorità assiologica del poeta (il quale sarebbe colui che ha l’esclusiva di trattare del «sublime» preclusa agli altri esseri umani) rispetto alla assiologia degli altri esseri umani. Io sono animato dalla convinzione di dover abbandonare questa posizione di superiorità o di presunto privilegio che il poeta avrebbe sugli altri esseri umani, penso invece che dobbiamo ripartire ponendo in discussione queste interpretazioni categoriali. Io penso che il «poeta» non ha alcun diritto di rivendicare per sé una diversa nomologia rispetto a quella di tutti gli altri esseri umani. Quella di Majorino e di Zagajewski è ancora un tardo prodotto di una cultura della riappropriazione e della rivendicazione assiologica, è ancora il prodotto di una visione elitaria, di casta chiusa, una visione da controbattere e da abbandonare. Quella visione non ci ha portato da nessuna parte.

    Penso che dobbiamo imparare a guardare alla poesia del nostro tempo, la migliore, quella di Petr Kral ad esempio, come ad una poesia che si fa in mezzo alla folla. Quello che mi ha colpito della poesia di Petr Kral e di Michal Ajvaz è che la loro scrittura poetica sembra scritta da un uomo della folla, potrebbe essere stata scritta da una persona qualsiasi, addirittura, a leggerla bene, sembra totalmente esente dal «sublime» (che ancora si percepisce nella poesia di Zahajewski), sembra totalmente estranea a qualsiasi forma di rivendicazione o di riappropriazione assiologica… voglio dire che le frasi di quelle poesie di alcuni poeti cechi (di Kral e di Ajvaz) sembrano quasi essersi fatte da sé, non si percepisce alcuna forzatura del linguaggio, il loro linguaggio poetico non differisce in alcun modo dal linguaggio degli uomini «normali» di tutti i giorni. È questa, io penso, la situazione cui deve tendere la poesia italiana e che io vedo accadere ad esempio nella poesia di Anna Ventura, di Mario Gabriele o di Gino Rago (non tanto in quella del ciclo di Ecuba quanto nell’altro ciclo delle poesie indirizzate a Ewa Lipska, la poesia del ciclo degli «stracci») e, in genere, mi sembra questa la direzione presa dalla poesia della nuova ontologia estetica, una poesia fatta di scampoli, di rottami, di stracci, di eccedenze degli altiforni, di scorie, di frantumi, di lessemi sfuggiti alla combustione del Moderno.

    Lì ci sono le parole che noi cerchiamo, si sono rifugiate lì, nella patria linguistica delle parole volgarmente rottamate ed espulse. Penso che dobbiamo andarle a cercare lì le parole «nuove», ma senza alcuna alterigia o altezzosità, senza alcuna spocchia di superiorità assiologica.

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