
Giovanni Orelli, Bedretto, 30 ottobre 1928 – Lugano, 3 dicembre 2016
“..sono Bubka che soffia,sbuffa/ in pista alla rincorsa per il salto con l’asta/ …Calandrino che nella corta buffa/ con le tre carte da un diavolo è giocato….Sono Arlecchino:/ tra calci in culo- aut aut- o schiaffi in faccia/ tertium non datur! Elegge la minestra; sono Caino/ randagio…Bertoldo diffidente…Socrate che al destino Santippe apre le braccia.”
Il Ticino svizzero si incunea nei territori lombardi e piemontesi, di cui ha in comune la storia antica, medioevale ed il paesaggio : l’alto lago Maggiore, il fiume Ticino, le vallate come la val Levantina e la val Bedretto, che si stende da Airolo al passo della Novena. Ha dato i natali nel 1928 a Giovanni Orelli, che lì è cresciuto, ed al cugino, il poeta Giorgio Orelli, due importanti, coltissimi e ben noti esponenti della cultura in lingua italiana in Svizzera, che ci hanno recentemente lasciati: Giovanni nato come prosatore, romanziere, Giorgio come poeta di lungo respiro, benché entrambi abbiano frequentato nel tempo i due generi letterari: Giovanni coltivando soprattutto le poesie dialettali (Concertino per le rane) e Giorgio un unico romanzo dal titolo Un giorno della vita, 1960. Gli studi e l’università di Zurigo e Milano, con una laurea in filologia medioevale e umanistica, hanno aperto a Giovanni Orelli la strada dell’insegnamento e della cultura. Una cultura enciclopedica, fatta di curiosità e di vivacità intellettuale che non si limitava solo agli aspetti contenutistici, ma era rivolto anche allo studio di quelli formali, come dimostra il fatto di aver sperimentato in prima persona ed in modo inesausto gli stili e i generi più disparati: dalla narrativa alla poesia, dal tragico al comico, dalla lingua al dialetto. Per non parlare poi delle sua voracità di studioso e di lettore, interessato di stilistica, semiotica, filologia, filosofia, poesia, grammatica, filosofia, etnologia e politica. Di qui la fama di scrittore difficile, non per tutti i palati. Gli occhi, vispi, scintillanti, arguti erano quelli di chi sapeva vedere connessioni inusitate, costruire castelli argomentativi, leggere tra le righe; di chi, insomma, interpretava il mondo (e i libri) come un sistema di sistemi, in cui ogni singolo sistema condizionava gli altri e ne era condizionato. Occhi da intellettuale, da scrittore, da persona che amava sviscerare l’inestricabile complessità dell’universo, ravvisando la presenza simultanea di elementi eterogenei. Una strada espressiva che ricorda C. E. Gadda. L’unica via per capire Orelli è leggerlo con gli strumenti che la sua prosa richiede: il bisturi, il dizionario, la curiosità, l’occhio indagatore e colto di chi abbia molto tempo a disposizione e molte letture alle spalle. Ha iniziato la sua carriera letteraria nel 1965 con il romanzo L’anno della valanga, ( prefazione di V. Sereni) per cui gli è stato attribuito il premio Veillon, la sua prima opera, che lo ha fatto conoscere non solo a sud delle Alpi, ma – grazie alla traduzione – anche nelle regioni di lingua tedesca.
L’anno della valanga è un romanzo che ha pochi eguali in Ticino e pochissimi tra quelli che il Ticino lo abbiano messo veramente a tema (Il fondo del sacco, Il Signore dei poveri morti). Descrive infatti l’evento tragico della valanga che nel 1951 si scagliò su Airolo e Bedretto costringendo gli abitanti ad abbandonare la valle e inducendoli a confluire in pianura, “nella società degli umani”. Il romanzo d’esordio di Orelli colpisce nel segno, grazie alla sua intensità lirica-espressiva semplice, concepita come un distacco dalla gioventù, una presa di distanza dall’idillio precario del mondo dei contadini di montagna che ben conosceva. L’intero libro è costruito su questi due poli, senza nostalgia ma al contempo senza predilezione. Da un lato il polo semplice, pratico, concreto del mondo contadino, e dall’altro quello vivace, straniante e arricchente della città. Contadino e letterato, Giovanni Orelli ha tenuto insieme per tutta la sua esistenza due mondi, senza mai rinnegarli, anzi facendoli interagire. E questo gli valse la fama e la notorietà. Una duplicità necessaria, e ugualmente formativa, che si ritrova anche negli altri libri, in particolare in La festa del ringraziamento e Il gioco del Monopoly del 1980 (in cui emerge con forza anche un’altra importante dimensione che connota la pluralità di Orelli, che fu anche politicamente impegnato: la sua vena civile ed ironica, in cui parla di denaro e potere in Svizzera. Nel primo romanzo incontriamo il personaggio-tipo di Orelli: un giovane brillante e disilluso, acuto fino ai limiti del cinismo, in pacata lotta con la tradizione da cui proviene e lì lo scrittore inizia a saggiare sulla pagina un modus scribendi che ha molte affinità con l’istituto della contestazione irosa, risentita, come voce di un autore che punti il dito verso Dio e gli dica «Io non sono d’accordo. Io ti sfido», che ricorda il nostro Gadda. La sua efficacia è innegabile, così come è evidente che al fondo, alla radice, il problema suscitato sia dei più seri. Nei libri successivi, da La festa del Ringraziamento (1972) a Da quaresime lontane (2006), cambiano i temi e le ambientazioni ma il “modulo” espressivo non subisce che lievi ritocchi. Si assiste semmai al frammentarsi sempre più aspro della sintassi, all’infittirsi di citazioni e rimandi, insomma al venir meno della tensione narrativa in favore del discorso sociologico e culturale. Interessante il suo Da quaresime lontane, 2006, racconti, spesso legati a piccole memorie lontane che aprono scenari sull’insensatezza presente, che comprende una serie di straordinari personaggi, come il maestro che ha deciso di lasciare la scuola per fare il becchino, perché “a fare il maestro gli si smerigliavano i nervi” o l’autobiografico personaggio che è alle prese coi propri ricordi e coi propri fantasmi e fatica a dialogare coi figli “ vedo il mio albero genealogico, è un albero contadino, con un esile ramo che si stacca e dà vita a un arbusto nuovo, non più contadino…Ricordo il giorno del primo distacco da casa. Andavo nel canton Friburgo per imparare un po’ di francese, in uno di quei collegi che conoscono i preti…”, e che teme la vipera che si è annidata nella vecchia casa sperduta di montagna : “ A tutto resiste questo Gabriele D’Annunzio dei rettili sinuoso e inafferrabile, lascivo e micidiale, nelle sue subdole movenze, nei suoi andare a capo, sottrarsi alla nostra vista, maestro negli enjambements… lui, don vipero, avanza con movenze da ballerino, da odalisca sinuosa e gira con circospezione intorno alla trappola che gli abbiamo montata…”, oppure l’uomo ossessionato dalla incapacità di impacchettare le cose, gli oggetti ( ancora di elaborazione ironica biografica) …: “Mai ho imparato, non imparerò mai a fare un imballaggio decente.. con la verpackung -imballaggio ho un complesso rapporto che tocca sentimenti vari: la gratitudine, la paura, l’orgoglio per la mano che , la lingua e non poco altro… io sono un disastro, una frana, un minus habens non solo nel verpackung, ma anche nel legare bene insieme una conversazione…”Questi racconti prendono avvio da fatti minimi di una realtà locale, il paesaggio ticinese, tra montagne, paesi che sembrano abbandonati, luoghi fisicamente e psicologicamente impervi, per tessere pensieri, divagazioni, associazioni di immagini e di idee, richiami letterari, piccole biografie di personaggi non illustri.
Il suo romanzo migliore è il più visionario: Il sogno di Walacek (Einaudi, 1991), che parte dall’ osservazione di un quadro di Klee, per ricostruire, a forza di associazioni paradossali e divagazioni, il sentimento tragico di un’epoca, quella del nazismo, rivissuta da un angolo di Svizzera. Di Walacek, la giovane mezzala che dà il nome al romanzo, e di Klee, il pittore, nel 1938 (il primo poco più che ventenne, ma con un passato di profugo alle spalle, il secondo prossimo alla morte, che sarebbe avvenuta il 29 giugno 1940) non ci viene narrata la “storia”; al contrario le loro presenze aleggiano nella conversazione vagamente allucinata di un gruppo di avventori in un’ osteria, nel quale figura, sia pure di scorcio, lo stesso Klee, e che si infoltisce via via per l’ intervento continuo di nuovi interlocutori: così Arthur Schopenhauer, o Bertrand Russell, o Viktor Sklovskij si mettono a discutere sui possibili significati di quella O che in Alphabet I di Klee decapita Walacek; e ognuna delle mille possibili interpretazioni dà luogo a un frammento di vicenda, o a un grumo di riflessioni, o a un irrispettoso sberleffo, fra i quali si affacciano di tanto in tanto i sogni sognati da Walacek.
“ Interpretare una O è come interpretare una nota per tromba, che uscisse, isolata, nella solitudine di una campagna, da un concerto per tromba,…. Un poco discosta dal luogo dove aveva catapultato la sua fulminea o, aveva indicato una timida H, ma forse non era una H… invece che un teatro circolare, a pianta centrale, luogo della dimenticanza, del vuoto, della disponibilità, Klee voleva forse disegnare un circo…?”
Génia Walacek , nato nel 1916 a Mosca, giunse in Svizzera di nascosto, iscritto sul passaporto della nonna, con un convoglio di rifugiati, ed è stato, fra la fine degli anni Trenta e i primi anni Quaranta, una mezzala della nazionale svizzera di calcio: senza dubbio un buon giocatore, ma non tanto da essere annoverato in quel Gotha dei miti calcistici che si tramanda di generazione in generazione , ma una volta appesi gli onesti scarpini al chiodo, è stato presto dimenticato, come quasi tutti i suoi colleghi. Il caso ha voluto, però, che nel 1938 Paul Klee, anziché una tela, scegliesse un foglio del giornale per dipingervi il suo Alphabet I, un disordinato insieme di lettere e misteriosi geroglifici impresso con “inchiostro nero pastoso”, e che su quel foglio (la pagina 13 della National Zeitung di Zurigo) campeggiasse il resoconto della finale della Coppa svizzera di calcio, fra il Grasshoppers e il Servette, squadra nella quale militava Walacek. ..Che vuol significare? Ma a sognare non è la giovane mezzala, bensì un anziano signore che sonnecchia sul treno diretto a casa dopo un raduno di vecchie glorie, organizzato per festeggiare il cinquantennale della storica vittoria della Svizzera contro la Germania nazista (rinforzata dopo l’ Anschluss dai fuoriclasse del “Wunderteam” austriaco), ai campionati del mondo di quel fatidico 1938. La scatenata verve narrativa di Orelli, insomma, si espande in tutte le direzioni possibili senza costruirsi gli argini costrittivi di un intreccio o di un ordinato sviluppo di eventi. Ne Il sogno di Walacek c’ è di tutto: dal gioco al nonsense, dalla parodia all’ erudizione, dalla commozione al dramma dalla riflessione alla tragedia. E un linguaggio di estrema duttilità serve a meraviglia lo scrittore in tutte le acrobazie di passaggio da un registro a un altro, da una condizione a un’ altra: quelle acrobazie per le quali ti puoi imbattere nell’ allusione improvvisa a un episodio minimo riferito un centinaio di pagine prima, o trovarti a scivolare sempre più velocemente in un abisso di digressioni del quale non si vede il fondo, e da cui torni invece improvvisamente alla luce. La morale, come sempre spesso accade nelle satire, è catastrofica: il nazismo all’ apice della sua potenza fa da controcanto drammatico alla svagata conversazione che fornisce la struttura portante al romanzo, e rende automaticamente vittima, storicamente vittima, chiunque, calciatore o pittore, conservi un’ idea estetica della vita e dell’ esistenza. Le ceneri di Paul Klee, riportate alla vedova su un traballante furgoncino da un inconsapevole autista dopo che i giornali svizzeri non avevano neanche dato notizia della morte del pittore, suggellano senza patetismi l’ insignificanza dell’ arte di fronte ai delitti della storia. E l’ uso continuo che fa Orelli della citazione da fonti letterarie del passato sembra infine rispondere all’ esigenza di tracciare il percorso più che bimillenario della violenza insensata e brutale subìta dalle parole della bellezza ad opera delle forze cieche del male. Ma questa morale lo scrittore non ce la impone, né la dichiara; la affida magari a un sogghigno, a un’ intemperanza verbale, o alla fantastica formazione di una squadra di calcio: a un minimo intreccio di eventi e di idee, insomma, alla scoperta quasi casuale di nessi nascosti e imprevedibili, proprio come la O di Klee sul nome della sognante mezzala svizzera.
Vi sono poi le poesie in dialetto e in lingua, dove coniugava un’ossessione per le radici mai declinata in chiave elegiaca, la sua lombardità etica e civile che prendeva sfumature anche di satira, con il divertissement e il calembour affine a esperienze neo sperimentali, infine con la prossimità verso il mondo e il linguaggio infantile (scelta che lo avvicinava al cugino Giorgio, grande poeta del nostro secondo Novecento). C’è forse una parola che più di altre può permettersi di racchiudere in sé uno dei grandi caratteri della sua ultima poesia: “giuoco”. I suoi versi, infatti, sono scenario – soprattutto con il “filastrocchico” delle Quartine per Francesco e quest’ultima raccolta – dell’incontro-scontro tra una componente candidamente ludica e una componente inevitabilmente dotta . Una parte consistente della produzione poetica di Orelli consiste di sonetti. Sonetti originali.
Maria Grazia Ferraris
II magnifico stato in cui non ero al mondo
o vi ero solo per constatare che non vi ero
non è quello che dicono il giocondo
tempo d’infanzia. Più somigliava al nero
rumore che senza tempo sale dal profondo
del precipizio sull’alpe a un passo dal sentiero,
baratro che il falco scruta in girotondo
sinistro, sul ciglio di quel rupestre zero
assoluto, buio d’inferno: era il profumo del timo,
di maggiorana, le lusinghe e fragranze
inganni della vita, la carpibile cima
del piacere. La mia accidia era li. 0 si avanza
verso l’alpe ove vacche si sdraiano per il primo
meriggio, sazie, o verso abissi la devianza.
Bellissima questa ricostruzione di un poeta che non deve essere dimenticato