Corrado Alvaro e le elegie per i militi ignoti di San Martino, di Michele Rossitti

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Corrado Alvaro, San Luca (Reggio Calabria), 15 aprile 1895 – Roma, 11 giugno 1956

A volte si vorrebbe scrivere una lettera anche se ormai è demodé e, se l’esser felici diventasse virale, in mezzo alle righe, bisognerebbe capire che, dietro l’apparenza di un sorriso, la vita è stata difficile nonostante il peggio lo si nasconda, perché la parte migliore di sé è fuggita con l’altro cuore.
Senza plagiarsi su Giusy Ferreri e “Ti porto a cena con me”, una foto presa al bazar delle pulci mostra un alpino rannicchiato dentro la grotta sul Canin e rispolvera il censimento delle trincee assieme ai ragazzi che, da Ivrea a Cefalù, si scoprono manovali e imparano a svuotare i rischi e spalarli.
Il retro reca delle strofe popolari ferme ai conflitti locali spicciolati dalle testate qua e là, fra le rubriche culinarie: “Se dovrai scrivere alla mia casa, /Dio salvi mia madre e mio padre, / la tua lettera sarà creduta/mia, e sarà benvenuta. /Così la morte entrerà/ e il fratellino la festeggerà”.
Nelle fosse delle trincee, il giovane intasca i desideri e l’estimo dell’interrato vale l’ennesimo compleanno. Sebbene tolga il fiato, la fatalità è fuoco amico che non conosce riposo e avalla l’andirivieni di bossoli tra metri cubi di asporto, dove un caporale spaventa più degli austroungarici. L’insubordinazione mina le tregue e fra la messa di Natale e la missione dei cappellani militari la disciplina della recluta viene meno agli ordini. Il senno fuoriesce, armi spianate il soldato si ammutina agli imperativi sotto la scarica punitiva del plotone. La fratellanza fra coscritti è il precariato delle utopie però farebbe ricuperare all’amputazione del proprio esser ingenui lo slancio del suo battito primitivo. Luogo e data dello scatto sormontano la dedica A un compagno e l’analogia con Il mantello di Buzzati, costruito sulla partenza del fante per il fronte, sul suo ricordo nella memoria dei familiari, li presiede: un transito si delega nitido dispersore del distacco. Al posto del soldato, come per la rondine di Pascoli, nel nido che non ha potuto difenderlo siede la morte.
thumbnail-by-urlQuesto coinvolgimento nell’emisfero dei defunti con cointeressenza, cioè il ricondurli al soglio dei viventi, riscontra la doppiezza nascosta nel Carso delle Poesie grigioverdi di Corrado Alvaro. Anzitutto, la metafisica del reduce vede lo sgretolio dentro gli elmi, lo status quo è teso alle aspirazioni trascendenti e ai limiti dell’immanenza tra muscolosi dissesti di risorsa creatrice, schiva nella sua instabilità impotente. A seguire, l’ipocrisia di un eroismo decantato versifica il consenso e la fiducia plaudente della moltitudine che è stata manipolata o costretta alla guerra dagli interventisti.
La distanza del lasciarsi sul campo manifesta le ultime disposizioni per il decoro di chi rimane, la fede allevia gli sconforti genitoriali e il piombo incarica il commilitone di distendere la misericordia del rantolo sulla buonanotte priva d’incolumità: “Se dovrai scrivere alla mia casa, / Dio salvi mia madre e mio padre, / non vorranno sapere/ se son morto da forte. /Vorranno sapere se la morte/ sia scesa improvvisamente. / Dì loro che la mia fronte è stata bruciata là dove/ mi baciavano, e che fu lieve/il colpo, che mi parve fosse/ il bacio di tutte le sere”.
L’offesa del destino non compatta nebbie ma perpetua limpidezze sul commiato. Forse, il dispetto fluidifica il passaparola nella mascella del bersagliere M., quasi fosse un dopo turno di trebbiatura da Archivio Luce: “Dì loro che avevo goduto/tanto prima di partire/ che non c’era segreto sconosciuto/ che mi restasse a scoprire. / Dì loro che c’era gran sole/pel campo, e tanto grano/ che mi pareva il mio piano;/ che c’eran tante cicale/ che cantavano…”. La virilità omerica giustapposta alle imprese compie l’eutanasia e un figlio viene eletto Patroclo: “Dì loro che dopo la morte/ è passato un gran carro/ tutto quanto per me;/ che un uomo, alzando il mio forte/ petto, aveva detto: ‘Non c’è /uomo più bello preso dalla morte”.
Se per i guai e gli acciacchi degli anni valgono le cerimonie del disfacimento, per la propaganda lo stare coi morti e preferirli ai vivi fa sì che, nella diaspora bellica, il ‘caro sangue” degli estinti si espanda albero corporativo più che genealogico. Così sorretto dalla dea Vittoria, il caduto non soffrirebbe l’esanime solitudine: “Mi seppelliron con tanta/tanta carne di madri in compagnia/sotto un bosco d’ulivi/ che non intristiscono mai; / e c’è vicina una via / ove passano i vivi/ cantando con allegria.”. Ecco i cori squadristi in un’Italia di santi, poeti e navigatori, tifoserie odierne nella tristezza dei sommersi che coabitano lungo piazze e metrò intitolate a Cadorna, tutte da rinominare Florence Nightingale.

Michele Rossitti

 

A un compagno

Se dovrai scrivere alla mia casa,
Dio salvi mia madre e mio padre,
la tua lettera sarà creduta
mia e sarà benvenuta.
Così la morte entrerà
e il fratellino la festeggerà.

Non dire alla povera mamma
che io sia morto solo.
Dille che il suo figliolo
più grande, è morto con tanta
carne cristiana intorno.

Se dovrai scrivere alla mia casa,
Dio salvi mia madre e mio padre,
non vorranno sapere
se sono morto da forte.
Vorranno saper se la morte
sia scesa improvvisamente.

Di’ loro che la mia fronte
è stata bruciata là dove
mi baciavano, e che fu lieve
il colpo, che mi parve fosse
il bacio di tutte le sere.

Di’ loro che avevo goduto
tanto prima di partire,
che non c’era segreto sconosciuto
che mi restasse a scoprire;
che avevo bevuto, bevuto
tanta acqua limpida, tanta,
e che avevo mangiato con letizia,
che andavo incontro al mio fato
quasi a cogliere una primizia
per addolcire il palato.

Di’ loro che c’era gran sole
pel campo, e tanto grano
che mi pareva il mio piano;
che c’era tante cicale
che cantavano; e a mezzo giorno
pareva che noi stessimo a falciare,
con gioia, gli uomini intorno.

Di’ loro che dopo la morte
è passato un gran carro
tutto quanto per me;
che un uomo, alzando il mio forte
petto, avea detto: Non c’è
uomo più bello preso dalla morte.
Che mi seppellirono con tanta
tanta carne di madri in compagnia
sotto un bosco d’ulivi
che non intristiscono mai;
che c’è vicina una via
ove passano i vivi
cantando con allegria.

Se dovrai scrivere alla mia casa,
Dio salvi mia madre e mio padre,
la tua lettera sarà creduta
mia e sarà benvenuta.
Così la morte entrerà
e il fratellino la festeggerà.

Corrado Alvaro

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