L’archetipo del viaggio labirintico di Emilio Villa, di Gabriella Cinti

EMILIO-VILLA-suo-ritratto

Emilio Villa, Affori, 21 settembre 1914 – Rieti, 14 gennaio 2003

Il labirinto appare la figura mentale o archetipale del viaggio nella sua forma primaria di prova, esplorazione di un al di là labirinticamente immaginato. Il sacro e la magia lo esprimono nelle movenze alternanti e ondulatorie della danza, che ricorda il movimento della tessitura, intreccio dell’immagine destinica della vita: specchio del filo labirintico e peraltro sua immagine liberatoria, grazie al superamento del percorso irto di pericoli. E’ la discesa nella caverna sacra: cammino nella casa dei morti e viaggio di ritorno del morto alla terra madre; sfondo soteriologico del mito, presente a ogni latitudine, da Creta alla Mesopotamia fino alle tribù indiane dei Pueblo e così via, che nella morte intende non il contrario della vita, ma il suo aspetto polare, complementare: un luogo o una condizione di passaggio da cui l’esistenza conclusa è ricondotta a un nuovo ciclo e può così rinascere. Per questo, secondo Attali, “Chi ha attraversato il labirinto è diventato un iniziato, entra in una nuova vita”.(1) Sempre associati al labirinto compaiono le idee, spesso indicate con espressioni proprie del viaggio, di strada, itinerario tortuoso, visceralità avviluppata. Legata a questa idea dell’intrico troviamo la raffigurazione del disegno, che presuppone un apprendimento mnemonico del tracciato, filo di continuità del percorso, possibilità di collegamento del tessuto dell’esistenza precedente e mezzo per conservarne l’identità nell’orizzonte ignoto dell’al di là. La chiave mnestica (il filo d’Arianna della memoria, è il senso stesso del viaggio, di cui La Potnia o Signora del Labirinto, Dapuritoio, la Potinia, è anche “padrona del viaggio”, nel senso di tenerne le fila. Allusivamente la metafora del tracciato labirintico arriva a paragonarne l’idea a quella del destino, come il solco assegnato a fondamento della vita individuale ripercorribile infinite volte. D’altra parte, il labirinto trova l’espressione topologica di una duplicità nell’immagine di un interno e di un esterno, allo stregua di quello scambio osmotico che si verifica tra l’ambiente e l’organismo vivente; punto di saldatura con una concezione dell’interiorità del corpo come infinita metafora che sottende la possibilità di esplorarlo in ogni direzione, di articolarlo in gesti e significati attraverso la lingua e la scrittura. E’ anche la dimensione fisiologica, su cui insiste Villa nei suoi Labirinti in una chiave di circonvoluzione, di percorso intricato caratteristico di vari organi e funzioni biologiche,visceri, cervello, fegato, orecchio, attestabile anche figurativamente come “linguaggio della sessualità” (Attali) che esplicita idee di fertilità cosmica, documentate da numerosi reperti, anche fra il materiale analizzato dall’archeologa lituana Marja Gjmbutas. Si passa così all’analogia tra il cosmo e l’utero materno che a sua volta giustifica molteplici parallelismi presenti nelle varie mitologie, in una serie di immagini cosmico-astrali correlate fra l’idea della caverna e quella del percorso spirale del sole e della luna. Il filo conduttore di questo viaggio astrale è lo stesso descritto dal mito cretese del labirinto. La Harding lo riconosce sia nelle “peregrinazioni della dea lunare notte per notte e durante i ventotto giorni del suo ciclo(2)”, che nel “moto della luna nel cielo, […] rappresentato come un viaggio del dio su un carro o un battello”(ibidem). Pensando poi all’equivalente viaggio solare, in riferimento a quello analogo nell’epopea di Gilgamesh, Tagliaferri afferma: “l’equa bipartizione del percorso labirintico tra luce e tenebra, sopra e sotto, ha per modello primario il viaggio del sole che a occidente si inabissa sotto terra e poi riprende da oriente il suo cammino diurno. L’andata e ritorno nel grembo materno, evocato a proposto dalle voci labu irtu è l’andata e ritorno di Apollo Aplum nel grembo aleatorio della terra madre.(3)”. Sul filo di queste considerazioni il viaggio assume come proprio il tema del tempo, al cui riguardo Attali ricorre alla suggestiva immagine della clessidra:

I labirinti erano concretamente tempo trasformato in spazio[…], Il labirinto è analogo alla clessidra , […]la clessidra è spazio nel tempo[…] esige un’andata e un ritorno. Come il labirinto la clessidra è misura infinita del tempo in uno spazio chiuso […] il labirinto esige un rapporto con il tempo particolare, non si tratta di economizzarlo ma di invaderlo e di spenderlo. […] Il labirinto rimanda a un tempo che prende tempo, che si espande, che ritorna sui suoi passi, che si perde per ritrovarsi in un cammino successivo. Perseverare ha lo scopo di accumulare esperienze, cercare il proprio tempo, seguire i dedali di un cammino interiore.(4)

L’indicazione di Attali si presta a sottolineare l’archetipo labirintico in relazione a una cesura tra due tempi, una età antidiluviana e una postdiluviana: la prima appartenente alla dimensione del passato, sprofondato nel sottosuolo dell’oblio e del mondo dei morti, attingibile soltanto attraverso un viaggio iniziatico e soteriologico; l’altra, proiettata sul presente e sulla vita. In ogni caso ricollegabili attraverso il percorso del labirinto che, come un’andata e un ritorno, annoda le fonti della vita e della morte e permette, attraverso il recupero di un tempo scomparso, di ricondurle entrambe a un’idea ciclica di ricorrenza. La parabola del viaggio, con la profondità dei suoi connotati e la pluralità delle sue valenze, esplicita, dal racconto di Odisseo alla saga mesopotamica di Gilgamesh, il viaggio dell’eroe: è la ricerca della immortalità, ma è anche un nostos , un viaggio di ritorno per ritrovare la patria celeste perduta. In questo contesto di riflessioni si collocano i Labirinti villiani. Il labirinto della lingua è per Emilio Villa il viaggio infinito dell’uomo nei dedali della scrittura, dei significati delle parole. L’intera opera di Villa appare labirintica: un rincorrersi tellurico e sismico di parole, immagini, pensieri e suoni, che nei suoi Labirinti trova un culmine erratico, di ricerca e interrogazione del senso. Quindi Villa labirintico già prima della specifica produzione a questo tema dedicata, dove peraltro il suo meth’hodos si configura davvero come un viaggio nell’oltre. L’operazione di singolare scavo filologico, etimologico, antroposofico, mitosofico intorno alle origini della parola, a partire dai radicali mesopotamici che la caratterizzano, è soprattutto un viaggio e tra i più abissali. Anche perché l’esplorazione del linguaggio, sottoposto ai più imprevedibili giochi combinatori, nel tentativo di forzarlo a rivelare l’inesprimibile, coinvolge livelli subliminali, pulsioni psichiche, motorie e gestuali, in una sorta di coazione a ripetere che coincide con lo stesso percorso labirintico. Da questo punto di vista i Labirinti si direbbero un’operazione di regressione nell’inconscio, ab imis o ab originis. La riscoperta dell’archetipo labirintico si rivela espressione simbolica della totalità dell’esperienza come ciclo vita-morte-rinascita, si manifesta nello strutturarsi della coscienza e della memoria, ambiti in cui si costituisce il processo cognitivo linguistico originario nell’avvicendarsi delle epoche e delle culture: un paradigma di organizzazione scrittoria a partire dalla figura ricavata dall’intreccio e dal nodo come prima forma di annotazione e che prosegue come incisione, scariphasthai in greco, della parola sulla pietra, e al tempo stesso materia di costruzione del labirinto stesso. E qui si innesta l’interesse villiano per l’arte rupestre interpretata come inizio di carattere sacro e sacrificale dell’espressività artistica dell’uomo. Nel tentativo di Villa di ripercorrere il grande tema dell’Origine, al centro della sua produzione, i Labirinti si collocano in una prospettiva oracolare e misterica della parola di cui egli diventa consultante e creatore al contempo, come appunto un Oracolo, strumento ed emanatore di una verità in magmatico divenire; ciò è particolarmente evidente nel ”suo” francese, impiegato come una lingua originaria, prenatale, dalle consonanze foniche di intensa pregnanza semantica o nel suo latino salmodiante. Viaggio dunque nel Labirinto anche attraverso i suoni che produce. Del resto in questa chiave uditivo-oracolare l’orecchio compare espressamente come uno dei significati colti alla radice della parola mesopotamica analizzata nell’autografo del Labirinto 004, dove, nello specifico, troviamo i radicali BUR e LA. In particolare al primo, a cui associa una serie di valenze semantiche, su cui Villa ritornerà spesso nell’ambito del progettato e mai compiuto dizionario etimologico mitico, sono associate le valenze semantiche Profondo, Parola, Pietra, Orecchio, Mondo, Universo, Foro, Abisso, Caverna,Torrente, intelligenza, spazio cavo. Sono connotazioni che moltiplicano l’idea connessa a una dimensione del profondo, del passaggio come aspetto ctonio e abissale, un sorta di fiume nel cui alveo risuona il viaggio della parola originaria. Ne risalta in particolare il versante di una fisiologia interiore, aspetto implicito nell’altro elemento radicale, ossia il –LA. Del resto molti vocaboli greci comincianti con questa sillaba per il tramite dei relativi ascendenti accadici (secondo Semerano), fanno riferimento a questo tipo di interiorità fisica, suggerendo idee di avvolgimento e di nascondimento proprie degli organi interni. D’altra parte termini come “abisso” o “universo” conducono a metafore assimilabili a quelle che si riferiscono allo scorrere quindi con riflessi sul piano acustico. È questo il senso che si ritrova per esempio nel greco λαῖτμα, profondità, abisso del mare, in singolare sintonia con le profondità illimitate d’altronde evocate anche dal buru. Al cuore dei connotati del labirinto, è dunque il BUR ad assumere il valore apicale di punto d’ideale confluenza della parola “forata”, porta d’ingresso del viaggio nel profondo, nei primordi, luogo ombelicale del labirinto, centro del centro del mondo. Da questi cenni propriamente di natura linguistica la prospettiva del viaggio villiano labirintico si amplia a una serie di indizi che riconnettono il termine a diverse aree, formando un disegno al tempo stesso diacronico e spaziale, una sorta di mappa geografico-temporale. Villa fa risuonare il terreno semantico dei due versanti che compongono la lingua. Da un lato la capacità di trasportarci in situazioni immaginative ancorate alla presenza fisica dei luoghi (la palude, la caverna, la montagna, la città, il palazzo, il corpo umano), fino a ricomporre un universo mentale che li passa in rassegna come lungo un viaggio, dove questi topoi trascorrono l’uno nell’altro ma assumono anche la valenza di un ordinamento, mentale del viaggio della vita e della conoscenza. D’altro canto è la parola stessa generatrice di una molteplicità di significati e richiami reciproci in continuo transito. Questa chiave emerge sin da quello che appare il punto di partenza di tutto il lavoro sul tema, che Villa identifica in uno schema consonantico alternante al quale ricondurre tutte le varie forme in cui si articola la parola. Ne individua la possibile origine concettuale nell’ipotesi di uno sviluppo urbanistico di villaggi preistorici nell’area anatolica: un indizio di una collocazione fisica oltre che mentale in un luogo. Da qui il percorso villiano riconduce alle tracce mesopotamiche, con le relative attestazioni sumere e accadiche, per tornare all’ittita, quindi di nuovo in area anatolica per poi arrivare alla Grecia, fino alle lingue latine. Per un esempio di questi continui spostamenti di piani, trapassanti dalla dimensione linguistica a quella concreta, si consideri il gruppo consonantico –dpr che si ritrova in accadico dando luogo alla variante ugaritica dprn, traducibile con il latino juniper, equivalente al dupranu, accadico (Lab.005). Questo termine risulta nella toponomastica, in connessione con la provenienza dell’arbusto, che forniva un’essenza particolarmente pregiata, dalle montagne a ovest di Aleppo, in Siria, come indica anche la Bibbia. Un’altra modalità operativa sullo stesso è riconoscibile, in un foglio successivo, (010) dal punto di vista della polarità oppositiva fra i significati deserto-selva. Nella prima accezione di deserto, Villa individua l’accadico madbaru, (gruppo consonantico presente in generale anche nel semitico) e in particolare nell’ebraico, mdbr, dove peraltro la – m equivale alla –w che viene velarizzata in –l. Sulla base del già citato schema consonantico alternante si ha qui la matrice, con la supposta caduta della –d di quel –lbr, che è la base della parola greca labyrinthos. D’altra parte, lo stesso gruppo consonantico si presta al parallelismo con il latino umbrae (cui Villa aggiunge l’attributo summae) e nella correlazione tra deserto e selva si innesta quel vero e proprio ossimoro che definisce ancora una volta lo spazio del labirinto collocato entro due estremi. Così, attraverso questi spostamenti linguistici si ha una presa diretta di quel viaggio condotto anche all’interno della parola che ne interseca i percorsi. La selva, nel suo groviglio rimanda a sua volta a dupranu dell’altro labirinto, come presenza dell’arbusto caratteristico della intricata macchia mediterranea da cui è difficile districarsi come dal labirinto stesso. In questo continuo spostamento di piani mentali e prospettici si evidenzia il cuore dello stesso problema labirintico, traccia nodale come traccia del percorso che identifica l’individualità biografico-poetico-artistica di Emilio Villa.

Gabriella Cinti

Note

1) JACQUES ATTALI, Trattato del labirinto, Milano, Spirali, 2003, p. 53.

2) M. ESTHER HARDING, I Misteri della donna, Roma, Astrolabio, 1973, p. 219

3) G. BARBAGLIA, ALDO TAGLIAFERRI, Uno e Due. Indagini sul teatro dell’onnipotenza, Milano, Edizioni Sipiel, 1998, p.313

4) JACQUES ATTALI, Op.cit., pp.. 160-­‐161

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