La poesia di Valter Casagrande e la ricerca della verità, di Marco Onofrio

prigioni

La poesia di Valter Casagrande nasce dal problema creativo fondamentale che oppone “vita” e “forma” ma le accosta nella possibilità di una sintesi dinamica, grazie a cui la vita si renda cristallizzabile e la forma fluidificabile; ed è proprio questa sintesi l’ideale traguardato dalla sua scrittura. Il poeta vuole che la vita si possa afferrare in una forma capace di proteggere dall’angoscia del caos e dall’agguato, sempre insorgente, della negatività; e vuole altresì che la forma non uccida la vita, ma sappia mantenere calda e malleabile la sua materia lavica, ricca di contenuti e nutrimenti simbolici. La poesia nasce dalla vita e giunge alla forma: proprio attraverso la forma, andando a ritroso nel processo creativo, è possibile contattare il palpito generatore da cui essa viene originata. Casagrande insegue la possibilità di raggiungere uno sguardo al contempo “vivido” e “limpido”, capace cioè di accordo tra vita e forma, con cui mettere a fuoco l’essenza della realtà incastonata al cuore interno dell’esperienza.

C’è un problema etico fondamentale da cui muove questo processo di conoscenza: il problema della verità. E scaturisce, in via primaria, dal confronto con la morte, il mistero insondabile, che a sua volta veicola la ricerca metafisica alla percezione del “sacro”, alla capacità di oltrepassare le situazioni esistenti nel “valore” culturalmente attivo della presenza umana, alla fuga dalla storia – tra mito e rito, magia e religione, smarrimento e salvezza, e insomma (di nuovo) vita e forma. Il vero, per Casagrande, è rintracciabile «ai bordi di ciò che è reale»: sotto la «patina stanca» degli occhi puoi leggere «laghi profondi / e sognanti», a patto di acquisire una percezione, e di conseguenza una scrittura, dei “margini” dove appunto si nasconde quella verità. La poesia è chiamata a bordeggiare le coste dell’incanto, magnetizzando ricordi che vagano, voci e richiami interiori, orizzonti fantastici, sensazioni, immagini, sfumature. I versi disegnano traiettorie mentali lungo vie ipnotiche, che conducono a luoghi “altri” e “presenti”, lontanissimi e vicini al tempo stesso, come l’enigma di ogni attimo nel mondo. Dalle parole – accostate in accordi lampeggianti, brevi come i versi con cui vengono effusi – riverbera una malia di sensi affascinati e affascinanti: è in questa profondità armonica, prossima alla pienezza universale del silenzio, che Casagrande raccoglie la sua umanità per veicolarla ad uno slancio di concreta trascendenza. Occorre slargare le maglie di “filtro” che ostacolano la percezione, cioè restare disponibili ad accogliere le scoperte del “viaggio” restando il più possibile immuni da pregiudizi e condizionamenti. I pensieri, così, vagano «pericolosamente» come acrobati sul filo, e il poeta deve aprirsi al rischio dell’errare (nel doppio senso di sbagliare e vagabondare). La poesia, allora, si configura come un viaggio di esplorazione dei vuoti e dei pieni del mondo: tra luci, penombre e tenebre, lo psiconauta della creazione poetica cerca il “filo comune”, ovvero l’ordine interno, dei frammenti molteplici e difformi raccolti, via via, lungo il dipanarsi del cammino. Le parole sono armi di chiarificazione, grazie a cui

«mutevoli forme
morbide sotto le mani
senza disegno,
diventano chiare
precise».

E la poesia stessa è una “sonda” per sentire la “forza” nascosta e invisibile che anima la trama, il «pentagramma vitale / di tutte le cose», l’essere del divenire attraverso la lotta degli opposti che si con-tengono, l’apparenza dei dualismi – esterni e interiori. L’armonia dinamica della forma (quando è intrisa di vita) getta un ponte di raccordo e di attraversamento possibile fra i tralicci della natura e della cultura: questo consente un riequilibrio delle energie psichiche dissipate, con misure opportune di compensazione, ovvero di superamento dell’esperienza e riconciliazione col passato. È dunque un viaggio verso

«la foto
dell’irreale
mentre una musica
riempie
tutto l’interno
ed una voce cantata
ripete con insistenza:
“Bisogna soltanto
uccidere
tutto il rimpianto”».

Questa forte tensione conoscitiva spinge la poesia di Casagrande a farsi voce elementare che riemerge, purificata, dal frastuono del mondo contemporaneo: una sorta di “eco della vita” attinta alle sorgenti archetipiche dell’essere. Il poeta è un “navigante” del plenilunio che illumina le ombre dal didentro, in viaggio aperto verso il “promontorio del lungo silenzio” dove le cose si rivelano da sé. La terra-limite degli estremi confini del mondo, oltre i vincoli del tempo, appare – forse – come miraggio di uno sguardo catturato all’orizzonte, maturato fra tutti i vettori energetici della nostra presenza, nell’attesa di un segno decisivo per arrivare, finalmente, «al punto / più libero / alla visione».

Ecco, allora, la funzione determinante del Mito come elemento conoscitivo insostituibile, poiché capace – per sua stessa natura – di arginare la complessità del mistero senza bruciarla, mantenendo fluida una forma dove schermare e al contempo rivelare, in ordine agli apparati metaforici, le verità profonde della vita. La ricerca poetica di Casagrande è andata focalizzando man mano, nel corso degli anni, questo compito di attualizzazione del Mito, nella sua eterna potenzialità di accordo sintetico tra cuore e ragione, tenebra e luce, poesia e scienza, attraverso le direzioni molteplici di un racconto inesauribile e sempre da pensare, come appunto siamo noi, anche al di là delle singole mitologie (Pegaso, Bellerofonte, Giocasta, Antigone, Filemone, Bauci, etc.) ormai acquisite al patrimonio della civiltà. Il Mito non è dunque razionalisticamente inteso, o non soltanto, come paccottiglia di sciocchezze inattuali, immaginate e ripetute dagli antichi, o repertorio erudito di “dotte coglionerie”, o prontuario intelligente di citazioni; bensì come strumento acuminato e versatile per affrontare – ogni volta daccapo – la realtà strabordante della Storia da un punto di vista universale (sub specie aeternitatis) esterno ad essa, e insieme interno, grazie a cui raggiungere le verità “ultime e prime” che si nascondono nel doppiofondo dell’esperienza. Un modo di guardare alle cose, utile a sbucciare – pellicola dopo pellicola (come Peer Gynt con la cipolla) – gli strati superficiali della realtà percepibile, fino al mistero ontologico dove si annida, in ultimo, il cuore dell’essenza che non si vede.

Valter Casagrande - Arianna

Nel poemetto “logo-mitico” (più che “mitologico”) Arianna e la verità complessiva (EdiLet, 2011, pp. 86, Euro 10), Casagrande reinterpreta il mito di Arianna e Teseo come modello epistemologico di ricostruzione della “verità”. La visione delle cose è sempre parziale e ingannevole perché fondata sull’aporia complessiva che assomma le diverse verità contrapposte, altrettante «scene / di un tutto / che parlano al cuore / da punti diversi, / per arrivare alla sola / ed unica / verità complessiva». Così infatti conclude, il poeta, la sua “Introduzione” al testo: «La somma di tutte le verità parziali è la verità complessiva che, in ultima analisi, è quella che più si avvicina alla verità». La celebre vicenda del Minotauro (oscuro labirintico segreto, annodato tra le spire delle ardenti luci mediterranee) viene ricostruita post factum attraverso i punti di vista delle sue verità parziali, rappresentate dalla voce dei 7 protagonisti – Arianna, Teseo, Egeo, Minosse, Pasifae, Dioniso, oltre allo stesso Minotauro – chiamati man mano in scena a deporre, in guisa di “testimoni”. Le diverse scene, necessariamente successive, tendono all’ideale dell’unica, sincronica scena:

«Un’unica scena
con quadri diversi
illuminati,
in una sequenza
in progresso
che ricompone
ciò che era stato
scomposto
dalle visioni
dei singoli
attori».

Dalla ricostruzione che Casagrande attua di questo mito, cioè dalla luce che emerge nell’«equilibrio / raggiunto / tra tutte le parti», è possibile dedurre una avvincente chiave “estetica”, per cui – a mio personale giudizio – diventa il mito stesso dell’arte, del “poiein”, del fare creativo. Teseo è l’artista che deve entrare nel labirinto, perdersi nel buio della reggia d’oro (il palazzo di Cnosso) per affrontare l’orrore, il perturbante, l’osceno, e dunque uccidere il Minotauro. Quest’ultimo è il male necessario e innocente («Non ho deciso io / la mia sorte / e l’indole atroce / che distingueva / il mio essere, / non ho deciso / il percorso / e la fame perenne, / cui ero costretto, / per divorare / l’orrore»), cioè l’inconscio, l’inferno degli istinti e delle verità più inconfessabili, il buio che permette lo splendore della luce. Il Minotauro è figlio degenere di Pasifae, che rappresenta la Storia («Potessi girare / all’indietro / la ruota del tempo / io lo farei / senza un attimo / d’indecisione, / ma a nulla / servono / i miei poteri di ninfa / né le magie / condivise / ed apprese / sul promontorio / dove è possibile / ascoltare in silenzio»), la Storia irreversibile e genitrice di orrori. Teseo deve uccidere il Minotauro per fuggire con la sorella di lui, Arianna, che rappresenta l’opera d’arte, cioè la forma che – aiutando l’artista a uscire dal labirinto creativo della conoscenza – indica la terra dove salvare la vita senza passare con ciò che, altrimenti, passa: «Laggiù, / nel buio / creato da Dedalo, / quando la morte / sfiorava perversa / il mio volto, / soltanto la luce / di occhi ridenti / mi ha indicato la strada, / la via di passaggio / per ritornare / al mondo reale».

Ma poi Teseo deve abbandonare Arianna per averla, cioè concludere l’opera e staccarsene, eroe «con il cuore / di ghiaccio». Ogni opera si consegna al mondo a partire da questo abbandono fondamentale, dal filo spezzato di questo tradimento del caos in nome del cosmo, dell’amore in nome della ragione, del magma istintivo della vita in nome della forma. Non a caso Arianna viene lasciata sull’isola di Naxos, laddove la terraferma è circondata dalla tentazione fluida del mare aperto, e nel rapporto dialettico che lega sabbia e acqua si delinea il confine sconfinato delle perenni trasformazioni: Atene (di cui Teseo sta per diventare re) rappresenta la società civile che non può accettare fino alle estreme conseguenze il potere eversivo di Arianna (l’opera d’arte), che è pur sempre sorella del Minotauro. E così l’opera, faticosamente emersa alla luce della forma dalle tenebre labirintiche della vita, viene di nuovo inghiottita nel magma, nel buio, nell’oblio: Dioniso sposa Arianna abbandonata.

«Lascia,
senza rimpianti,
le dispute
umane
per la conquista
del nulla,
il tuo posto
è al mio fianco
(…).
Togli quei veli
che annebbiano
gli occhi
perduti nel mare,
Arianna
di Nasso,
io ti dono
quest’isola, alza lo sguardo
più in alto
potrai già vedere
il corteo
che scende veloce
per accoglierti
in testa
e sulla tua fronte,
tornata gioiosa,
potrà risplendere
ancora
la stella
più fulgida
dell’universo».

Marco Onofrio

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