“Disfunzioni” (Edizioni della sera, 2011, pp. 116, Euro 10) di Marco Onofrio è un libro strano ma autentico, che parla di cose vere. Sette poemetti, articolati in un percorso organico: altrettante stazioni di un unico poema. Onofrio colpisce al cuore le “disfunzioni” del mondo contemporaneo. Ma la disfunzione che le racchiude tutte è, secondo me, la mancanza della consapevolezza, di cui – più o meno – soffriamo tutti. E la poesia è forse la sola cura utile e necessaria a un recupero della consapevolezza. Perché la poesia ha il potere di fermare attimi, pensieri, frammenti, situazioni, significati. E non solo di fermarli ma di dargli valore, di amplificarli, farli esplodere: bruciarli fino a farne emergere l’essenza. La poesia ci rende consapevoli di essere unici e straordinari. Ci lucida lo sguardo dall’indifferenza, dalla polvere dei giorni.
La poesia di Marco Onofrio tende a farsi teatro, e poi cinema. Chi ne conosce le pagine sa a cosa mi riferisco, perché Onofrio è una mitragliatrice di immagini. Sono immagini complesse e poliedriche, su cui occorre fermarsi a pensare, masticandole, metabolizzandole. Si prenda ad esempio, proprio da “Disfunzioni”, il poemetto Fuga, in cui la volontà di isolamento è rappresentata dalla caduta vorticosa nell’ignoto. Un precipitare continuo, una spirale che si fa arte durante la perlustrazione della casa e di tutto ciò che abbiamo accanto, e in un certo modo anche dentro, ma che prima non avevamo mai visto e che ora, per effetto dell’emergenza, diventa anzitutto “nuovo mondo” («c’è un paese intero da scoprire / all’angolo d’incrocio dei due muri») e poi riparo, anfratto dove abbracciare, attraverso la desistenza, una condizione di autenticità: «Così m’infilo nel pertugio e m’intrometto / m’intrippo nel più sodo all’intervallo / m’installo in un forziere di metallo / come un bel tesoro. / Nessuno scoprirà, nessuno più saprà. / Resterò ignoto, nell’infinito tutto dell’assente». La scrittura di Onofrio, in poesia come in prosa, non è esercizio di stile, né manierismo o estetismo letterario. Certo, le parole bisogna saperle usare e accostare, e talvolta anche inventare: Onofrio sa farlo da par suo (a proposito di neologismi: nel poemetto parodistico Al privè troviamo voci dei verbi “sambare”, “silvupleggiare”, “vandosireggiare”). Ma le parole occorre anche saperle osservare, come si fa con un dipinto. La poesia si osserva, quando le parole sono espresse, con perizia magistrale, sulla “tela” del libro. Andiamo a vedere uno di questi quadri, nel poemetto Roma Esercito, laddove sfila – sul tapis roulant del suono e del ritmo, ben incastonati – un carosello di figure («Cardinali, deputati, borgomastri / finanzieri, turcomanni, ciambellani / e prevosti, gabellieri, dignitari, / graduati, marescialli, caporali, / conestabili, balivi, cortigiane, / portaborse, parassiti e fannulloni») simboliche delle mille facce del Potere, articolato nelle sue forme più basse, ottuse, burocratiche, ciecamente autoritarie.
La scrittura si fa scandaglio che attraversa lo spessore del vuoto, della disperazione: «La mente stanca, soffiata, annuvolata, / sfiancata dal silenzio di quel niente». Nel poemetto Impallato emerge la figura aggiornata di Chaplin in fabbrica: solo che ora gli ingranaggi sono i tasti e gli schermi dei computer. È un personaggio anonimo che saggia la sua alienazione sui tracciati invisibili delle autostrade informatiche, automa davanti a uno degli innumerevoli terminali di controllo della Grande Impresa: «minchione tutto il giorno al terminale / di uno schermo ostaggio e in fondo schiavo: / pagato per non pensare, / per digitare i tasti ed eseguire / comandi programmati e soluzioni / caterve di sequenze e informazioni». Disperazione vera, profonda, senza via d’uscita: «I movimenti fermi del pensiero / sempre più pigro, sempre più banale. / Inetto e inutile, abissale». Penso a me, ai miei inutili giorni trascorsi nell’ufficio dove lavoro come “impiegato” a cose lontane dal mio vero essere, e debbo farlo solo per lo stipendio, per pagare il mutuo di casa; e quando guardo i colleghi vedo che non si accorgono nemmeno di non esserci, se non con il corpo, mentre la disperazione che provo è talmente profonda da creare un clone, il mio clone.
Il fondo dell’alienazione, se c’è un fondo, viene toccato (e poi rovesciato con rabbia incendiaria di ribellione) in poemetti esplosivi come Respinto ed Espulso, dove ci si confronta in un corpo a corpo terribile con i liquami simbolici e gli altrettanto simbolici cattivi odori che emanano dalle macerie sanguinanti dell’essere, anzi: del non essere. Ma, in fondo, chi può arrogarsi il diritto di sostenere che davvero quegli odori sono “cattivi”? Ne siamo davvero sicuri? No. Infatti è proprio il fondo l’unica via d’uscita: un fondo che conduce a un precipizio aperto sul vuoto, lo stesso da cui si era partiti. Le “disfunzioni” di Onofrio rappresentano la vittoria sofferta della diversità, dell’uomo e del poeta. Poiché Onofrio proprio nella disfunzione, cioè nella sua disperazione di “sconfitto”, si afferma come uomo libero.
Paolo Vanacore
Dal poemetto “Fuga”
(…)
Soffia, dalle sbuffanti sacche dell’ordigno,
il mantice a pressione
che gonfia e nuovamente rifà vuoto
ancora eternamente all’infinito
e mugge dal profondo che vi appare
nella distanza muta del suo lampo
quell’essere bovino originale,
l’incandescente spirito animale…
E non ha scampo, ché deve
rituffarsi e scomparire
per poi di nuovo a monte incominciare…
È il distillato omuncolo fetale
la concrezione prima del bambino,
è l’amnio prenatale
membrana lamellosa e iridescente:
è il grido del silenzio viscerale…
Ci sono demoni nascosti dentro l’aria:
si sentono vicini palpitare.
Sono vestigia delle ataviche deità
nelle più grasse bolle contenute
articolando mute opacità:
a frotte, a schiere, a torme di legioni
nei posti più nascosti e soffocanti
di taglia più normale e straordinari
sobbollono, sorvegliano, a metà
come socchiusi occhi al cuor profondo
quando finisce il mondo al buio vero,
come le stelle mute in fondo al cielo…
(…)
dal poemetto “Roma Esercito”
(…)
Cardinali, deputati, borgomastri,
finanzieri, turcomanni, ciambellani,
e prevosti, gabellieri, dignitari,
graduati, marescialli, caporali,
conestabili, balivi, cortigiane,
portaborse, parassiti e fannulloni:
tutti belli assisi a manducare.
Sono i potenti di successo,
gli affermati ipocriti e arroganti:
quelli dall’occhio lungo
aggressivo, cinico, vorace,
che l’hanno ucciso dentro,
con le loro mani e da parecchio,
il bambino che erano un tempo:
gli sverginati, quelli che gente onora
deferente, per paura e conto personale:
quelli che infine lo han trovato,
dopo tanto tempo a sgomitare
a trafficar con mani di bilancia,
un posticino al mondo da godere.
Bella la vita, eh?
E noi buoni, quaggiù,
a torcer le budella e a non fiatare.
“Armiamoci e partite”, prorompono improvvisi,
e poi grasse le risate a crepapelle
e fiumi di buon vino a festeggiare.
Per altra via, piuttosto
bisognerebbe intripparli di cibo:
dal bucio più nascosto e verecondo,
dal fondo dell’oscuro,
per una digestione all’incontrario.
Uscirebbe cacca dalla bocca
o il pabulo, mezzi a mezzi digerito
tornerebbe, poi, fatalmente al basso,
sospinto dalla forza digestiva?
Giustappunto con la merda, ecco
io li vedrei contenti a pasteggiare;
io stesso gliela servirei di tutto punto,
in guanti di velluto,
calda di fetore e appena fatta,
plaf, col mestolo sul piatto di ciascuno
– un inchino reverente e un bel sorriso
(“i miei omaggi, signore”) –
siccome una porzion di zuppa inglese.
E poi, ancora, io passerei a pulire
i grugni sporchi
sbavati d’ingordigia immemoriale
beati di satolla compiacenza
gaudenti di bisboccia e carnevale:
gli netterei la faccia da maiale
col bell’asciugamano a fiorellini:
ma quello del bidet, naturalmente,
e vecchio poco poco almeno un mese…
Ma sì, lo sanno che ho pensato,
ché nulla è a lor precluso o non gli arriva
e il mondo è solo un piccolo paese…
Io resto insituabile e impunito:
mi mettono in consegna a far le spese.
Ah, le uniformi, le maschere infinite
che indossiamo!
Perché non ribellarsi, non possiamo?
(…)
Dal poemetto “Impallato”
(…)
Passivo, imperturbabile, donato,
completamente reso all’esperienza,
io sfioro l’infinito dell’essenza.
Schivo tutti gli ostacoli
i multiformi impacci del cammino.
Un attimo prima dell’impatto:
a un istante dal prodursi del suo fatto…
Che me ne fotte, scusa, in conclusione
se il tizio si spupazza la mia lei
e se la calza a punto, quanto me?
Gliel’ha messo? non gliel’ha messo?
Glielo sta per mettere?
Posso permettere questo scempio
di sentimenti, di promesse sussurrate
a fior di labbra nell’amplesso
di menate prese sul serio
o finte tali? Dovrei riempirlo di botte?
E scannare incaprettare sbudellare?
Riporlo a macerare in una botte
di vino robustoso e rubicondo
fino alla radice del suo male?
E ascoltare le sue urla preventive?
Come un maiale che vive, ancora,
ma annusa la sua ora e inorridisce
perché arriva l’inganno dell’uomo
e il tradimento bruto dell’ingrasso
finalizzato al suo stesso gioco
(altro che affetto! altro che bontà!)
Ma che, per caso, solo a me
deve piacere il sesso,
godere della donna
e dei suoi frutti?
Non siamo fatti tutti a una maniera?
Dov’è, dov’è, bandiera dei diritti?
Libertà, condivisione, partecipazione.
Promiscuità di corpi e di respiri.
Siamo colori di uno stesso arcobaleno!
E allora ecco, diciamo che è lo stesso
o poco meno, e insomma
non è un guaio (fesso! fesso!)
se anche mi fa becco e non vorrei
che essere beccaio
scotennatore dei suoi sgonfi zebedei …
“It’s the same… It’s the same…”
(papilla a parrocchetto con la gamma
intera delle sue espressioni)
– insensata eco alla mia mente,
io mi ripeto addosso inutilmente…
Disperso nell’abisso in fondo al tempo
passato alla ragione:
eseguo ottimamente la missione…
Continuo ininterrotto, artificiale.
Automatico, eterodiretto.
Alieno, allogeno, sublime.
In preda alla tranquilla convulsione.
In cerca del suo nulla, poco e male.
Proteso alla smisura dell’uguale:
ridotto a un pupazzetto in videogame…
(…)