I critici letterari e i poeti hanno una forte diffidenza nei confronti dei giornalisti che scrivono versi, sono convinti che si tratti di una scrittura superficiale, inficiata dal mestiere che bada alla notizia, cioè a dare un messaggio scoperto e immediato senza preoccuparsi di assegnare alla parola quel mistero e quella carica semantica necessari per ottenere l’abbaglio, lo stupore e la rivelazione. Personalmente non ho mai letto un libro con il carico dei pregiudizi, Mario Fubini avvisava che la sola cosa possibile da fare, per verificare se un poeta esiste, è immergersi nella lettura dei testi possibilmente attuando una sorta di serena complicità. Se non si crea, meglio lasciare stare, la sintonia è un dato assolutamente necessario per sentire appieno la portata del senso che si fa subito verità inedita. Ricordo che quando nel 1995 la Mondadori presentò al “Premio Alfonso Gatto” Un cauto guardare di Zavoli per un attimo serpeggiò tra la giuria, di cui facevo parte, il dubbio della sua “legittimità”, anche perché poeti già santificati, a torto o a ragione, erano in lizza. Per fortuna la giuria del “Gatto” era illuminata e Zavoli vinse. La breve premessa per dire che bisogna evitare di entrare nella rete degli stupidi assiomi, specie quando si tratta di protagonisti della cultura che hanno saputo dare eleganza, lievito e spessore perfino nei servizi sportivi (è un dato storico rilevante Il processo alla tappa) e hanno saputo affrontare i temi dell’attualità senza mai disgiungerli da un doveroso confronto e direi dalla meditazione. Questo è il quarto libro di poesia di Zavoli, che mi pare che abbia dimostrato alla grande di saper riconvertire mentalità e linguaggio quando pone mano ai versi. Quel senso della misura già adoperato nella cronaca lo ha portato ad esiti quasi di tono e di cadenza greca, sapendo assegnare alla parola una forza evocativa che coinvolge e pone nel dissidio dei sentimenti che tuttavia assumono un riverbero di nostalgia e di dolcezza però mai troppo carico. Il libro è diviso in sette sezioni (l’ultima delle quali composta da una sola lirica) ma si può dire che sia un romanzo vero e proprio scandito dagli incontri e dagli affetti. Romanzo perché racconta la storia di una vita e lo fa dipanando una matassa ricchissima di presenze, ma dalla quale sono stati tratti gli affreschi più emblematici, le fotografie che non si abbandonano mai anche se i traslochi sono parecchi, i ricordi che non si rarefanno e anzi assumono forma di calore e si dilatano fino a coinvolgere la parte di noi rimasta in ombra, nascosta e in agguato per appropriarsi dell’essenza dell’amore. Quando Vittorio Sereni pubblicò Stella variabile in molti si meravigliarono che l’Autore de Gli strumenti umani avesse così quasi radicalmente cambiato registro espressivo e tematico. Durante una conversazione mi confidò che negli ultimi tempi aveva avuto dei momenti straordinari in cui il film della sua vita si era rapidamente aperto nel suo cuore e subito s’era cancellato. Lui ne aveva tratto quei versi, in cui contavano la famiglia, le amicizie, il lavoro, la malattia. Credo che Zavoli abbia avuto una visione e una percezione simili prima di accingersi a scrivere questo libro. Si sente un grande calore umano pagina dopo pagina, si avverte che gli è fiorita impellente la necessità di saldare a se stesso ciò che ha veramente vissuto e amato e perciò mi verrebbe da dire che egli “ha viaggiato leghe d’ombra dentro il suo cuore”, anziché dentro il suo pensiero. Ognuna delle composizioni, che non sono numerate, non hanno titoli, (dediche a parte), mostra una scoperta maniera di confessare la pienezza del sentire. Zavoli pone dentro i ricordi il seme di nuovi sogni, ne dilata la portata onirica e percorre le tappe della sua esistenza senza colorarla dello sfarfallio della gloria e delle soddisfazioni, ma seguendo passo passo il ritmo del suo sangue. Così ci porta nel mare della sua infanzia colorato di fantasticherie, ci fa conoscere il padre, la madre, la moglie, la figlia, Andrea, e ci propone una nuova figurazione di luoghi e di protagonisti, come Fellini o Luzi, fuori da qualsiasi tentazione di maniera. Se così non fosse, a noi lettori non interesserebbero; se gli affetti di cui “narra” non assumessero l’ampiezza di una universalità che travalica il dato personale, a noi lettori potrebbe soltanto incuriosire, ma non coinvolgerci. C’è un momento in cui i familiari di Zavoli diventano i nostri familiari, c’è un momento in cui il “concertino allegro” delle conchiglie lo sentiamo fisicamente e ne avvertiamo tutto il delicato stupore infantile. Il tutto è detto con accenti semplici, senza alchimie letterarie, con pronuncia chiara, diretta, anche quando avviene il ribaltamento dei ruoli normalmente assegnati alle cose, come nella bellissima Comprare le parole nei mercatini aperti o in Penso di essere un mare, oppure in Ho dato col silenzio il meglio di me stesso. La capacità del poeta di saper entrare nel vivo dei sentimenti e trarne momenti eterni è magistrale: solitamente si cade quando si vogliono cogliere a volo gli sprazzi di azzurro che attraversano la nostra anima e vogliono farsi parole. Zavoli ci riesce senza cadere, riesce perfino ad alleggerire l’elegia, e a dare ai Versi civili una credibilità poetica che diversamente porterebbe alla retorica. In questo senso credo che il mestiere di giornalista l’abbia aiutato a sfrondare e a rendere essenziale il dettato portandolo all’osso, come direbbe Bartolo Cattafi, e affinandolo fino alla trasparenza. Gli è che evidentemente egli sa che “la lirica è inesauribile” (Cvetaeva), così come sa che la melodia va dosata e calibrata e non abbandonata a sé. L’uso degli endecasillabi (si legga almeno La pioggia s’è indurita all’improvviso) è portato a risultati davvero perfetti perché al momento opportuno Zavoli spezza l’euforia con un quinario per subito riprendere l’aire: “La pioggia si è indurita all’improvviso / mentre il vento la sbatte sopra il molo / come gli stracci contro il lavatoio, / ma non viene alla bocca una parola, / e ci stringiamo al poco che rimane / l’uno dell’altra. / Una remota voglia di stanchezza / si allungava su quella breve luce, / finché la spiaggia si annerì d’un tratto”. È soltanto un esempio di come Zavoli sappia padroneggiare il verso e sappia riempirlo di immagini che focalizzano il suo stato d’animo per trasmetterlo intatto a noi. Secondo il dettato di Umberto Saba, anche lui trova “l’infinito nell’umiltà” e non teme che la tradizione sia sinonimo di abitudine, anzi, la tradizione porta con sé un mondo di risonanze straordinarie che, sapute assommare al proprio essere, producono quegli scatti di luce necessari per far scintillare la parola di quel fuoco sacro capace di rubare un acconto all’eternità. Proprio come fa in questo libro Sergio Zavoli.
VERSI D’EPOCA
Vedo che una farfalla dove passa
lascia un’ombra per terra,
eppure le ali bianche attraversano il vento
e nulla di quel volo sembra pesi
nell’aria, ripetendo sotto di se la forma
trasparente del viaggio.
Chissà se apparteniamo all’ombra
o al chiaro, e se nel doppio andare
siamo gli stessi, oppure chi è l’intruso,
se più l’animo o il corpo,
magari sconosciuti l’uno all’altro,
chissà chi era il pinnacolo
e chi il vento.
A EUGENIO MONTALE
Se non mi chiedono cos’è,
io so che il tempo è dove sei e sai.
Ho la pretesa di saperne abbastanza
per dire che ci manca solo quello
che abbiamo, il resto non è il tempo,
è l’ombra scolorita di quando
noi non siamo, non sappiamo.
A SAN GIMIGNANO
Era come d’estate,
quando si radunano i merli luttuosi
e le allodole volano nel grano.
All’improvviso arriva una ventata,
e riparte chiamata da lontano,
i pioppi incrociano le ombre
e mi sbarrano il passo.
Tutto pareva vero mentre il bianco
dell’alba entrava tra le ciglia.
Bellissime poesie, lontane da ogni intellettualismo , che pongono al centro una visione, una riflessione, ovvero l’uomo come sta , dove sta, incerto e zoppicante.
Narda
«la sola cosa possibile da fare, per verificare se un poeta esiste, è immergersi nella lettura dei testi possibilmente attuando una sorta di serena complicità. Se non si crea, meglio lasciare stare, la sintonia è un dato assolutamente necessario per sentire appieno la portata del senso che si fa subito verità inedita».
Parole limpidissime, di grande sapienza letteraria e finissima sensibilità umana. Le sottoscrivo e le dedico a tutti quei critici o sedicenti tali che, invece di “lasciar stare”, amano aggredire e stroncare.