Alcune Rime di Michelangelo Buonarroti

Michelangelo Buonarroti (1475–1564)Caprese 1475 – Roma 1564

Scultore, pittore, architetto. Giovinetto, visse alla corte di Lorenzo il Magnifico, a Firenze, ove tornò dopo aver soggiornato a Venezia, a Bologna, a Roma. Chiamato (1505) dal papa Giulio II, fu poi al servizio di Leone X e di Clemente VII. Cacciati i Medici da Firenze, fu al servizio della Repubblica per fortificare la città. Dal 1534 si stabilì definitivamente a Roma. Formatosi sullo studio delle opere di Donatello e di Jacopo della Quercia per la scultura, e di Giotto e Masaccio per la pittura, sintetizzò nella sua arte tutti i valori del Rinascimento, preannunciando e preparando per molti versi l’esplosione del Barocco. Nella scultura, che predilesse fra tutte le arti, espresse con estremo vigore la sua visione plastica, tormentata e drammatica, la stessa che domina nelle sue opere di pittura in cui disegno e volume sopraffanno il colore. Quanto alla sua opera di architetto, il movimento di masse che l’anima è già di stampo Barocco. Michelangelo fu anche poeta, e i suoi versi ispirati dall’amicizia per Vittoria Colonna sono un interessantissimo documento della sua angosciata vita interiore. Leggiamo alcune rime.

 

Non ha l’ottimo artista alcun concetto
c’un marmo solo in sé non circonscriva
col suo superchio, e solo a quello arriva
la man che ubbidisce all’intelletto.
Il mal ch’io fuggo, e ‘l ben ch’io mi prometto,
in te, donna leggiadra, altera e diva,
tal si nasconde; e perch’io più non viva,
contraria ho l’arte al disïato effetto.
Amor dunque non ha, né tua beltate
o durezza o fortuna o gran disdegno,
del mio mal colpa, o mio destino o sorte;
se dentro del tuo cor morte e pietate
porti in un tempo, e che ‘l mio basso ingegno
non sappia, ardendo, trarne altro che morte.

*

Sì come per levar, donna, si pone
in pietra alpestra e dura
una viva figura,
che là più cresce u’ più la pietra scema;
tal alcun’opre buone,
per l’alma che pur trema,
cela il superchio della propria carne
co’ l’inculta sua cruda e dura scorza.
Tu pur dalle mie streme
parti puo’ sol levarne,
ch’in me non è di me voler né forza.

*

Non pur d’argento o d’oro
vinto dal foco esser po’ piena aspetta,
vota d’opra prefetta,
la forma, che sol fratta il tragge fora;
tal io, col foco ancora
d’amor dentro ristoro
il desir voto di beltà infinita,
di coste’ ch’i’ adoro,
anima e cor della mie fragil vita.
Alta donna e gradita
in me discende per sì brevi spazi,
c’a trarla fuor convien mi rompa e strazi.

*

Tanto sopra me stesso
mi fai, donna, salire,
che non ch’i’ ‘l possa dire,
nol so pensar, perch’io non son più desso.
Dunche, perché più spesso,
se l’alie tuo mi presti,
non m’alzo e volo al tuo leggiadro viso,
e che con teco resti,
se dal ciel n’è concesso
ascender col mortale in paradiso?
Se non ch’i’ sia diviso
dall’alma per tuo grazia, e che quest’una
fugga teco suo morte, è mie fortuna.

*

Le grazie tua e la fortuna mia
hanno, donna, sì vari
gli effetti, perch’i’ ‘mpari
in fra ‘l dolce e l’amar qual mezzo sia.
Mentre benigna e pia
dentro, e di fuor ti mostri
quante se’ bella al mie ‘rdente desire,
la fortun’ aspra e ria,
nemica a’ piacer nostri,
con mille oltraggi offende ‘l mie gioire;
se per avverso po’ di tal martire,
si piega alle mie voglie,
tuo pietà mi si toglie.
Fra ‘l riso e ‘l pianto, en sì contrari stremi,
mezzo non è c’una gran doglia scemi.

1 commento
  1. Quelli di Michelangelo non sono giochi verbali o sperimentalismi di carattere linguistico spesso in passato catalogati come esercizi prebarocchi o manieristi: sono sostanze della mente, cioè pensieri divenuti lirica in una forma altissima e terribile, mastodontica. E’ intellettuale e appartenente all’istinto creatore. Appare una poesia ideativa, nell’accezione di “idea” usata da Descartes, termine in voga presso i filosofi per designare le forme di percezione della mens di Dio. Ricordiamo comunque il binomio perfetto: la conoscenza divina è un conoscere facendo, così come plasmare il primo uomo dal fango o levare l’eccesso del marmo.

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