Chi, conoscendo il carattere tutto lirico e autobiografico della prosa di Pavese,
si accostasse alla sua produzione in versi di “Lavorare stanca”con l’intento di cogliervi
una confessione diretta e immediata della sua angoscia esistenziale, resterebbe in gran parte
deluso. Poche sono le liriche in cui egli mette a nudo il suo cuore, abbandonandosi
ad una rappresentazione diffusa e patetica del suo male di vivere; si direbbe, infatti, che la
consuetudine alla autocritica gli impedisca di lasciarsi prendere dalla piena dei sentimenti,
sicchè preferisce trasferire in altri il suo travaglio.
Il quale, nella sua prima scaturigine, deriva dalla incapacità di cogliere un rapporto
tra l’individuo e le cose, per cui il tema dominante è quello dell’isolamento nel mondo.
E’ inutile precisare che siamo di fronte ad un motivo
tipico della filosofia sartriana e esistenzialistica, sottolineato anche da
alcuni critici; ma qualche altro potrebbe anche citare il “Canto notturno di un pastore errante dell’ Asia”,
pur se diverso è l’animo del Leopardi, il quale, pervaso da fremiti romantici, non si rassegna al deserto
intravvisto e contemplato dal suo pastore. Pavese, invece – come del resto altri poeti del nostro
tempo – analizza la vita e la guarda nel suo squallore, col gusto cinico di chi gode
ad osservarla nella sua nudità. C’è il distacco scettico e disgustato, tipico dell’uomo che
ha sofferto e soffre troppo per scomporsi e appassionarsi ancora:
” Ogni cosa è isolata davanti ai miei sensi,
che l’accettano senza scomporsi: un brusio
[ di silenzio.
Il poeta si sente fuori del vortice della vita e lontano dalle cose; anzi – come si diceva –
assapora con un senso di soddisfazione e di disincantato compiacimento tale sorta di isolamento,
che è l’unica forma di libertà possibile in un mondo che ci serba solo delusioni e acerbità:
” un gran sorso e il mio corpo assapora la vita
delle piante e dei fiumi, e si sente staccato
[da tutto.
Le cose rimbalzano davanti agli occhi e alla fantasia dell’uomo solitario, assolutamente indifferenti,
perchè non hanno ragione sufficiente per esistere:
Mangio e guardo nel cielo – chi sa quante
[donne
stan mangiando a quest’ora – il mio corpo
[è tranquillo
…………………………………………………..
Fuori, dopo la cena, verranno le stelle a
[toccare
sulla larga pianura la terra. Le stelle son vive,
ma non valgono queste ciliege, che mangio
[da solo.
Si potrebbe anche parlare di un egoismo edonistico, che spinge ad usare delle cose solo
quando ci tornano utili; e c’è, in questo disimpegnarsi di fronte alla realtà globalmente intesa,
un piacere fisico e una beatitudine narcisistica, come di chi si guardi tutto solo davanti allo
specchio e si contempli con piacere:
…Qui al buio da solo,
il mio corpo è tranquillo e si sente padrone.
Questo gusto dell’essere fuori del corso della vita, che ci dà un senso di superiorità,
non è accidentale nè provvisorio in Pavese. Infatti non sono pochi i critici che hanno rilevato
come egli abbia una netta propensione per le figure degli eremiti, dei bastardi e dei vagabondi in genere,
che vivono alla giornata, sradicati dall’esistenza comune e senza impegni di sorta verso alcuno.
In tal senso, essi sono gli unici che, godendo di una certa libertà,
godono anche di una certa felicità. tutti gli altri, che si affannano ad allacciare legami
con il mondo, finiscono inevitabilmente col rimanere distrutti dalla macchina inesorabile della vita.
Ne è un esempio il caso di quella donna che, bella e ridente finchè si lasciò andare,
si consunse allorquando volle procreare:
…ma è un gioco rischioso
prender parte alla vita. E’ così che la donna
c’è restata in silenzio, fissando stravolta il
[suo uomo.
quest’ultima immagine della donna stravolta che è morta in silenzio, come sopraffatta da un
destino che non ammette possibilità di scampo e di transazione, è fra le più belle che, per tragicità,
essenzialità e realismo (si legga il “c’è restata”) ci abbia dato poeta della letteratura italiana.
Essa sembra dirci che, in definitiva, non c’è possibilità di accogliere in noi la vita per gustarla, perchè,
al di là di alcuni momenti passeggeri, vissuti istintivamente (” La donna era giovane e rideva e parlava”),
essa niente ci dà che non si muti in nostro male.
Su un piano generale, la condizione umana può offrirci solo il tedio di una vita incolore, assurda,
la cui fine è una assurdità essa stessa. Presa in questa nuda essenza, l’esistenza non ha ragione di essere
avvolta dalla compassione; val molto di più accettarla in silenzio e disprezzarla, riguardandola
con un ghigno amaro sulle labbra:
Sempre compassionare fu tempo perduto
l’esistenza è tremenda e non muta per questo,
meglio stringere i denti e tacere.
Insomma, c’è uno iato fra noi e la vita, e non esiste liberazione se non nella coscienza che è
impossibile colmarlo: donde nasce una sorta di riso beffardo, che è già condizione di suicidio.
Al tempo di “Lavorare stanca”, invero, il poeta era troppo giovane per darsi un atteggiamento
più comprensivo e meno acuto. I suoi anni, le sue rinunzie, i suoi complessi, si mutavano in pose
da uomo che sfida tutte le tradizioni e tutti i compromessi, ponendosi in una situazione di rottura.
Illuministicamente egli immaginava che, fuori dei limiti imposti dalla società, e abbassandosi al livello
della natura fino a confondersi con essa, all’uomo era possibile partecipare alla vita delle cose e provare
il “senso” della nostra esistenza. Si è detto che anche lui, un po’ come accadde al Leopardi, vagheggiò
il mito del primitivo; ma l’uomo primitivo di Pavese, tuttavia, sempre si porta appresso
il sentimento di un mondo assurdo in cui ci troviamo a vivere senza che sappiamo e vogliamo,
per cui raramente egli si abbandona ad un’estasi di serenità e di amore. Per dir così, il primitivo pavesiano
procede più da un senso di ribellione e da uno sforzo di volontà, che non da un’ansia di riposo o elegiaco abbandono,
sicchè esso è preso da fremiti di vita e dal bisogno di sensazioni violente e irriflesse.
Quanto di dannunziano vi sia in ciò, è facile immaginare; ma è
anche facile immaginare che vi è qualcosa di forzato e di calcato, derivante dal bisogno
di infrangere gli schemi della società fascista, falsamente moralistica e grettamente conservatrice,
perchè tutta presa dall’ipocrito gioco delle parti. Era comunque un “fatto” ben presente alla coscienza di Pavese,
se egli, tentando un confronto fra il Middle West americano e il Piemonte, poteva stabilire un parallelo
proprio sotto questo profilo. ” Per Anderson – scriveva – tutto il mondo moderno è un contrasto di città
e di campagna, di schiettezza e di vuota finzione, di natura e di piccoli
uomini. Quanto tocchi anche noi quest’idea, credo inutile dire”.
L’ha ribloggato su "LA GROTTA DELLE VIOLE" di Giorgina Busca Gernetti.
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Analisi perfetta di Cesare Pavese, della sua incapacità di abbandonarsi al flusso della vita reale, del suo guardarla scorrere assurda e deludente restandone fuori, solo.
Giorgina Busca Gernetti
E’ proprio vero quello che scrisse Leone Piccioni a proposito di “Lavorare stanca”: “… non ci sarà lettore che non si senta profondamente toccato e trascinato in un’onda di estrema pietà, di commozione per la disperata solitudine di quest’uomo…”. Lessi i versi di Pavese la prima volta a 18 anni, e per alcuni anni fui portato (per autodifesa) a nascondere in me quel senso di estrema comunanza a quei versi che in seme erano già la stagione esistenziale (visione)che da lì a poco avrei iniziato a percorrere.
La sua disperata solitudine commuove ma affascina: potrebbe divenire pericolosa a causa di un certo rispecchiamento quasi inevitabile per gli animi sensibili.
Giorgina