“Seeds” di Adam Vaccaro, Chelsea Editions, New York -2014, nota di lettura di Dante Maffia

Vaccaro%20cover_revSean Mark ha fatto davvero un lavoro encomiabile per le poesie di Adam Vaccaro. Innanzi tutto ha scelto, ponderato, cercato le affinità e poi è entrato nel mondo del poeta evitando di mutilarlo, anzi spesso dandogli qualcosa di suo, com’è inevitabile in tutte le opere tradotte. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: limpido, essenziale, capace di dare ai lettori americani e inglesi un’idea congrua di questa poesia così densa di umori e di problematiche, così ricca di fulgori sinestetici. Vaccaro è un poeta sanguigno e tuttavia non si è mai abbandonato al dettato interiore senza prima averlo vagliato attraverso le consonanze filosofiche che coltiva da sempre. Egli sembra volerci dire che non può esistere poesia se non corroborata dal pensiero, ovviamente senza funestarlo di teoremi o di ossessioni teoriche. Nella versione inglese Vaccaro guadagna in sintesi, e dimostra che il suo mondo può raggiungere anche emisferi lontani, perché non è mai disgiunto da una carica umana davvero calda e convincente. Sarà l’effetto di quello che lui chiama adiacenze? Sarà quel che vi pare, ma in questo libro possiamo sentire un’ampiezza di dettato e di respiro rari nella poesia italiana odierna troppo spesso legata all’assurdità degli enunciati tout court. Ma sia chiaro, egli non è per nulla lontano dalle consuetudini della quotidianità, soltanto che dopo l’incipit sale verso sfere diverse e cerca approdi nuovi. E ciò, è evidente, lo porta a considerazioni che hanno accensioni inaspettate. Egli viaggia dentro se stesso e fuori di sé senza fare distinzione e così l’io e l’universo si scambiano il fiato, si accapigliano, giocano perfino, per trovare un punto d’arrivo. Naturalmente questi affondi sono possibili perché egli possiede in sommo grado la facoltà dell’intuito, una larga cultura ben digerita e la necessità del canto.

Dante Maffia

 

Come una guerra

Come una guerra che frantuma il ventre
si attarda negli occhi e sui volti
un liquore che sa di sale mentre
le transenne alle case quasi mute
e la chiesa piena di ferite e calcinacci
vibrano al vento come pezzi di cuore e
I capelli si drizzano come serpenti
impazziti mentre tremano ancora
I vetri con voci di anime tornate
tra pareti che vorrebbero
quasi scoppiare senza un grido

mentre l’aria shrivida ancora
e la piazza si riempie come a festa
tra clacson da dopoparrita
mentre marialuigia dice no
chiude porte e finestre e piano urla
allo specchio: voglio morire qui da sola
in braccio a Dio e contro
tutte le coliche del mondo
dentro casa mia.

 

Like a War

Like a war that bursts stomachs and lingers
on faces, in eyes, like salty liquor
the barricades round semi-silent houses
and the church full of hurt and rubble
quiver in the wind like pieces of heart
hairs stand straight like crazed snakes and
windows still shake with the voices of souls
flocked back between walls they would almost
wordlessly love to explode

while the air still shudders
and the streets are as packed
as a holiday, horns as loud
as after a march –
Marylou shakes her head
shuts windows and doors
and cries gently at the mirror:
I want to die here – alone
spared all this world’s colics
in God’s arms, in my home.

 

(Il posto)

C’era una volta un posto una cosa un paese
tanti sassi e mille case accoste
tante cose e persone piene di fame e di sogni
una voglia di vita con una collana dura intorno
uno splendore di luce in mano a tante mani scure

 

The Place

Somewhere once was a place a thing a town
rife with stones and a thousand houses stacked,
heaps of matter, hungry people wracked with dreams,
a drive for life bound by hard pearls,
a bright light clasped by a dozen dark hands.

 

(l’ortogiardino)

curava mio nonno un luogo un
giardino per me d’incanti e fatica.
Il mio braccio – mi disse – si sposa
qui con questa terra e polla d’acqua

e ne fa bellezza e frutti che nessuno
può sapere fuori da quel cancello
là in fondo se non sale quest’erta
di sassi e spine e non sa che qui

brillano rose fiori di zucca e pomi
doro che al riparo di siepi di un orto
giardino appeso al mio dito con ali
di foglie gira gira intorno al mondo

sognando l’infinito

seguirono visioni di cose e volti
sepolti – ognuno dicendo di sé e
dell’immenso – sconosciuto eppure
vivo nel vento chiaroscuro della sera

risentì di nuovo nel ventre
della bottega colma di trucioli e
pialle affilate la voce del padre
quasi sfidando dire il tempo è mio
e riandò ancora più oltre fino a
campi che nessuno poteva ormai
più sapere – fino alla fonte oscura
rimasta sua carne ignota e perduta

 

The Garden

Grandpa had a garden: a place
for me of wonder and fatigue.
“Here,” he’d say, “my arm is one
with this land and spring of water

generating beauty and fruits
unknown to those outside the gate
who never scale the steep slope
of stone and thorn, and ignore the

pumpkin flowers, roses and apples
golden, which shine here sheltered
by hedges that sit on my finger
with leaf-wings that twist
and turn around the world

dreaming of the infinite.

After this came visions of buried
things and faces – each one telling
of itself and the immense – unknown
but alive in the winds of the night

and once again he heard his father’s voice
ring out in defiance from deep inside
his workshop stocked full of woodchip
and sharpened tools: “Time is mine”

and he wandered on further, back across
fields where no man could ever step forth –
until he came upon the obscure source
embodied in his flesh, unknown and lost.

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