Il destino di Gaia nel poema fusionale e metamorfico di Donatella Bisutti: “Erano le ombre degli eroi”, Passigli – 2023, nota di lettura di Gabriella Cinti

Uno degli elementi che più colpisce, in questo libro è la particolare con-fusione temporale che si manifesta come snodo  dinamico tra mito e presente o meglio, il mito perfora il tempo per incarnarsi nel presente. I simboli, che sono presenze viventi e archetipiche del mito, non solo vibrano vividi nei versi, ma nella ricca appendice chiarificano la loro presenza, espandono i risvolti metaforici a loro connessi. Cortocircuito dunque tra mito e presente tecnologico. Tebe non è solo uno sfondo ma pare a volte un Eldorado aureo, una sorta di Città del Sole, modello cui l’antichità fece a lungo riferimento. Le figure del mito prese a campione di questa umanità tragica e mitica, sono intrise di una sorta di violenza destinica, non solo umana ma oltreumana. Ecco perché possono essere prototipi di drammi archetipici, la cui ombra si allunga fino al nostro devastato presente. Questo poema inarca le presenze mitiche in distopie temporali, attualizza gli dèi, come è compito e missione di chi vive il mito e la fa rivivere. Una segreta pietas porta a far sì che figure emarginate di “migranti” arrivino a combaciare con le eroine sofferte del mito, all’insegna di un paradigma atemporale e di una saldatura simbolica di grande impatto emotivo, non meno che etico. La poesia del mito di Donatella Bisutti è intinta nel sangue – tema e lemma che ricorre significativamente più volte -, nelle forze potenti della vita e della morte, fino ad un eros quasi ferino;  il suo orizzonte si volge a un tempo che scavalca quello greco per rivelarsi ancestrale. La precisione delle fonti amplifica l’effetto di vastità, dilata il fondo sotterraneo che alimenta i miti tragici, cosicché la ricchezza dei ragguagli accresce la densità del peso specifico dei versi, che paiono corali anche in virtù delle risonanze che vi circolano.

 Il poema si snoda portando letteralmente in scena gli eroi tragici, specialmente Edipo, eroe tragico per eccellenza, portatore di un dramma decisamente archetipico, quello dell’abbandono, per esempio, che Bisutti universalizza portandolo nel presente con uno dei suoi  folgoranti e frequenti salti temporali. Più che una attualizzazione del mondo greco si tratta di una messa in luce, poetica e tragica di come i mali che perdurano nel presente,  i traumi, le violenze, affondino le radici nella forma esemplare che la letteratura greca ha saputo darne. Tale consapevolezza è risolta poematicamente, nella soluzione originale della poeta di un affiancamento al limite della sovrapposizione, per cui i personaggi, greci e uomini attuali sofferenti, compaiono in una sorta di bekettiano “finale di partita”, straniato ma coinvolgente, tra sorpresa e struggimento. Singolare come la materia tragica, così sanguinante e fin truce possa trovare nelle parole di Bisutti una composizione aurea, una misura armonica di architettura verbale di grande rigore e di seduttiva suggestione, al contempo. Lo stile allitterante e onomatopeico raggiunge in alcuni Atti, come il XXIV, una intensità anaforica che ricrea un ipertesto acustico, una partitura in cui il dramma è sonoro prima ancora che nei contenuti. “stridono gli dèi levandosi dalle rocce al tramonto/ stridi/ simili a singulti strozzati/ risa sardoniche…”. “Le sirene delle campane/ suonano campane a morto”: versi tragici che hanno la durezza delle rime petrose di Dante in cui la forma diventa speculare raddoppiamento della materia tematica.

Bisutti ci fa attraversare gli scenari tragici e foschi delle figure oscure e feroci per farci comprendere come il male e la violenza siano l’altro volto della armonia ellenica, in una complementarietà in cui risiede quella dimensione totale che è propria dei Greci, perentori e definitivi in quella illuminazione speciale, con sciabolate di luce radente, quella incarnazione mitica di ogni possibile sentimento umano. In quegli abissi cui il mito e la tragedia giunsero, si aggira la poesia di Donatella Bisutti, tra statue divine ricreate dai suoi versi, con una drammaticità plastica che li rende sculture di suoni. I miti sono forme mutanti per eccellenza e in questo poema possiamo cogliere in pieno il trascolorare di creature mitiche dalla leggenda al piano del reale, come se le dèe in particolare Selene, avessero una vista panoptica, espansa su ogni piano della. fantasia e del reale, come se ancora oggi le vicende, per lo più quelle tragiche di morte e di violenza, potessero essere viste e considerate da un punto di vista mitico-divino. Nei versi ritorna questo senso epifanico, ma cambiato spesso di segno: gli dei sono testimoni dell’insensato orrore umano, ma tendono a ritrarsi di fronte a una efferatezza che supera i più sanguinolenti scenari mitici.  Bisutti indossa con disinvoltura la livrea cangiante del mito, muovendosi in pieno in quella dimensione circolare del tempo in cui appunto esso si muove, al punto tale che tale metamorfosi diviene stile e precipuo, connaturato direi, non solo prospettiva concettuale. Se un luogo è anche un centro simbolico, la città che, più delle altre, condensa l’ostinato sogno di grandezza greco è proprio Tebe che Bisutti pone al centro del suo poema. Quella Tebe intrisa di grandezza minoica e soprattutto del retaggio miceneo, coniugato con l’aggressività dorica, che puntava al primato in Beozia ma che aveva osato sfidare Atene proponendosi come altra grande potenza tesa a predominare. Tebe è centro nodale di dinastie, di dèi e di vicende storiche di assoluto rilievo, e insieme costituisce il luogo onfalico della narrazione poetica, anche come condensato di quella congiunzione di opposti che caratterizza il mondo greco, è luogo di raduno degli dèi e luogo dove si consumano drammi consegnati e custoditi dalla tragedia greca.

Un suo personaggio assolutamente emblematico per la sua doppia natura, femminile e maschile è proprio Tiresia, che Bisutti porta in scena in modo fantasmatico e teatrale, mettendo poeticamente in luce la sua atemporalità archetipica, la sua disappartenenza ad un unico genere, con la conseguente condanna (trasferita in lampi nel presente) di escluso in quanto elemento perturbante gli schemi biologici e sociali. La capacità di comporre simboli si incarna poi anche in emblemi densissimi come la collana di Erifile, il collier di Armonia, il più splendido dei monili, il nefasto totem portatore di malefici per generazioni intere. Mai simbolo ha rivelato in modo così sfavillante la sua natura doppia e ambivalente – esattamente alla stregua del mito greco – come questo gioiello, assunto a incarnazione del doppio tragico: qui Bisutti scioglie i nodi soffocanti delle polarità oppostive in canto epico e drammatico, toccando vette di solennità. Si ha la sensazione che la sua voce venga veramente da quel mondo, testimone sacra e in diretta del funesto destino degli eroi. In un mondo annerito e incendiato dalle sciagure, il corto circuito tra il dramma dei migranti e quello delle vittime mitiche o di un passato remoto, si dispiega con una gravità tragica che, disvelando la nostalgia della antica pietas, eleva il dettato poetico e trasfigura anche le immagini più cruente. Come leit motiv storico-geografico, ma più ancora come potente centro simbolico e paradigmatico dell’idea di distruzione (elemento che ritorna ricorrente e rimbalza con forza nelle devastazioni belliche del presente), Tebe sembra prestare la sua identità in un transfert imaginale con gli scempi che colpiscono l’umanità anche in epoca odierna.

Bisutti rimane costantemente fedele, nel suo poema, alla sovrapposizione tra le epoche, tra il mito e il presente, nella dimensione nietschiana dell’eterno ritorno dell’uguale.  La saga mitica bisuttiana investe altresì anche il mito edenico del Giardino delle Esperidi, nell’Atto XXXIX, in cui la lingua poetica indossa lo stile favolistico e soave, in perfetta sintonia con quella celebrazione della Bellezza che tale leggenda rappresenta. Questa capacità metamorfica dello stile di Donatella Bisutti la rende del tutto aderente alla trattazione mitica, materia cangiante e trascolorante per eccellenza. Tebe simbolo di gloria e di decadenza, nel poema è anche il luogo dove la schiavitù rivela il suo volto più feroce e archetipico, mentre sullo sfondo rimane la ferocia di Alessandro nei confronti dei Tebani, da punire in modo emblematico, ma è anche modello delle diverse forme di schiavitù che si esercitano sui lavoratori immigrati, più o meno clandestini, costretti a un servigio umiliante come è sempre il lavoro coatto svolto in condizioni mortificanti e subumane. E Bisutti ne fa un nodo uroborico in quegli “Schiavi” (Atto XL) che perpetuano una tragica nemesi, rivelando la sconcertante attualità del mondo antico.Tebe modello di polis mitica, matrice di grandi figure politiche come Epaminonda, fulcro di doviziosa ricchezza acquea come i numerosi miti inanellati dalla poeta attestano, ma al contempo luogo del principio di distruzione ecologica e sociale che investirà tutto il paese. Luogo di ogni ricchezza, anche viscerale e pericolosa come il petrolio, temibile oro nero del mondo antico e ancora oggi risorsa che condiziona il destino della nostra epoca.Tutti i fili della vita sono riportati da Bisutti a Tebe, super centro simbolico  in cui tutto si intreccia, prende origine e si trasforma nel suo opposto.

La poesia “poematica” traccia questo destino, affiancando tuttavia il lettore con una messe preziosa di riferimenti e di fonti, classiche ma anche le voci eterodosse possono e devono essere ascoltate nel mito, perché complesso è il suo cammino. Queste chiose sono il terreno prezioso in cui scopriamo le profondità mitiche al di sotto delle leggende cantate. Bisutti si fa erodotea verso il mondo greco, senza neppure tentare di assumere posizioni ideologiche chirurgiche e parziali, associandosi invece a quella originale apertura antropologica che appunto caratterizzava lo stile e il pensiero dello storico di Alicarnasso. La poeta raccoglie tutte le voci e ne fa un canto polifonico. E poiché, con Terenzio, anche l’autrice incarna la celebre massima “Homo sum, humani nihil a me alienum puto”, il poema (Atto XLIV)tratta anche della Tebe come tempio gastronomico dalle caratteristiche sibaritiche e rabelesiane in cui la disseminazione culinaria si rivela principio di decadenza e di perdita di valori morali che prelude alla rovina successiva. Luogo totale Tebe, centro mitico della storia ma anche del sistema mitologico bisuttiano si palesa anche come posto di stragi leggendarie (Atto XLV) cui, come di consueto nell’opera, si sovrappongono in assoluta simultaneità quelle della storia presente perché qui si vive del tutto in un tempo circolare in cui le epoche non si susseguono ma si accavallano. Ne deriva l’attualità di una amara lezione etica: la follia omicida come insita nell’umano e testimoniata nel mito come nella cronaca contemporanea.

Ma anche la consapevolezza della condizione tragica della terra viene affrontata da un femminile collettivo in forma di un coro di giovani (Atto XVVI) – che rappresenta il nostro desolato presente di un mondo in un supremo pericolo – non di meno che nella prospettiva della negatività ontologica assoluta della condizione umana che aveva già informato di sé vari settori dello spirito filosofico greco. E la voce dialogica della Nutrice che rievoca le nascite mitiche e il mistero divino della natalità. è solo un’ombra dialettica di luce contro una prevalente cupa prospettiva nullificante. Teatro mitico dove sfilano figure tragiche, con una particolare attenzione al dramma femminile, come nella presenza di Elettra, incarnante un eterno dramma che si ripropone fino a diventare archetipico – materia di psicoanalisi – e che la tragedia ha fissato in modo indelebile.Bisutti nulla trascura, in questo dramma mitico corale e totale. Totale perché Tebe è il mondo intero, di un oggi che incarna la distruzione, quella “discarica” in cui la vita intera è destinata a morire, come la Tebe storica annientata a suo tempo. Come nella antica tragedia la devastazione è necessaria come rito di purificazione e Bisutti non a caso chiude uno dei suoi Atti più potenti e drammatici con questi versi: “E la Terra,/ finalmente/ cominciò a essere purificata” (Atto XLVIII, pag. 119) . L’opera si palesa come un’epopea entropica del processo di degradazione dell’uomo e della crisi definitiva del mondo degli “eroi” ridotti ad “ombre” di se stessi. Il dettato, nella parte finale del poema, si fa threnos, tragico lamento su cui non scende alcuna consolazione, perché su questo “groviglio nero” non vigilano più gli dèi, “non ci sono più eroi”, “non c’è più neanche l’uomo”. Nemmeno la poesia e i poeti che “predicano la libertà e l’insurrezione” (Atto LI, pag. 128) possono opporsi al disegno perverso di una eliminazione selettiva del mondo ad opera di un Dio denaro e dei suoi adepti, sempre più efficienti e tecnologici; scenario i cui la scienza stessa non è più al servizio dell’uomo ma sembra spingersi verso  l’aberrazione di sostituire il divino. Nella più tragica delle solitudini, dove si celebra la morte di Dio, degli dèi – ridotti a larvali ombre che fendono l’orizzonte umano degradato – neppure il ridicolo straniante loro congedo in una schiuma marina anti-afroditica, può lenire la ferita estrema di carne viva, della Terra che l’apocalissi poetica messa in scena da Donatella Bisutti ha squadernato in questo Poema. Eversivo, lancinante e provocatorio come ogni proclama estremo, questo libro scuote le coscienze e com-muove perché lei per la prima volta è una Cassandra cui non possiamo non credere e quindi con lei piangere “la caduta degli dèi” e la perdita di consistenza degli eroi: ci addita un mondo, la Tebe greca, in cui tutto era già compiuto, accaduto, dissolto, ancorando alla storia e al mito il dramma del presente. Inchiodato ad assi di croce auto prodotte, l’uomo contemporaneo può solo prestare alle voci in scena il terribile verso montaliano de Il piccolo testamento: “e più nessuno è incolpevole” e unire all’unisono la sua ombra fonica al grande luttuoso Coro che risuona in ogni verso di questa attualissima e inattuale (al contempo) epopea.

Gabriella Cinti

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