Passeggiare prediligo sulla sponda, rapida
a volte con il pensiero che s’accorda, hai detto
per le sue motili forme al passo, e incrociare
il cammino dei viandanti per immedesimarmi
nel caos delle mie stanze, perché amo incespicare
nei suoi riverberi come della fronda il fitto intreccio
s’avviluppa su se stesso per ritrovarsi
ancora smarrito: è tutt’un avanzare cauto ora e spedito
tra approdi e riviere, imprevedute e rigogliose anse,
un repentino virare nel canale e di nuovo uno spiegare
le vele e uno stivare insieme nelle viscere
Bagliori di fanali, la rigida ossatura
di un palazzo, la sua allusione nuda e l’occhio
che s’adegua alla penombra di lampade
oscillanti sulle strade, le volute di vapore
dalle grate, i pennacchi dai camini, un’idea di fumo
da osteria. Farei di tutto a meno se non fosse giusto
ch’io sia per questo carico che porto: talvolta si tratta
di navigare a vista, di stare da una parte, una moneta
da pagare il procedere governando tra gli argini
la piena, l’affollarsi delle immagini o il dirupo
delle impressioni, l’animo che declino con la vita
*
I sensi, i sensi… ti dico, che tessono
i sensi? Del tempo che ordiscono
che già noi non percepiamo? Del mondo che appare
son taciti e della materia a ogni richiamo?… Vediamo:
cosa vediamo che c’è?… Si compia in un cerchio
il tragitto dei sensi oppure di noi
spogliati del corpo permanga l’idea? Vieni tu
qui e ora, salutami al mondo, e dove sia
il dire a me interdetto un «percorro le balze
del falso altopiano, corrugamenti di acrocoro,
le pieghe di un volto silvano» che manca il tempo
e al tempo che siamo… ancora lo vedi,
mi dici, che c’è di più strano? Immagina
Ch’esista ai sensi un piano: perché non si arresti
l’essere ch’è in te ma non si replichi
nel suo simulacro… Mai un giorno, ricordo
fu tanto profonda notte, Saturno era evaso, lo vidi,
dal settimo cielo, un rimpianto scordato il canto
del tordo stemperato nel vento, e il fuoco nella grata
crepitante, noi guardammo senza vedere
un temporeggiare in noi fatto silente e della cosa
osservata inconoscente: provasti così, e fu l’epifania
del ritmo della musica la vicinanza, persino
ti fu destriero il suo intradotto evento, e dall’anima di lei
imbizzarrita e franca venne infine meno la distanza
*
Siccome in guisa di canzone qui ovunque scorre
un fiume, quand’anche ora una visione
io avessi d’assecondare a Travnik, l’impeto
suo mi parla tra i grandi salici di te, e di una sosta
alla sorgente d’Acqua Blu, il limpido torrente
della Plava Voda che fin nel cuore si rivoltola del borgo
antico, gorgogliante annuncio il cui riverbero rintona
del fiume Lašva fin nel porticato
della colorata moschea di Solimano: nel mentre
pratichi di alberi frondosi e delle purpuree viti
la notizia conquistata sui sacri muri della Šarena
Dipinti dal profano, un voto dalla Bosanska immota
pare l’invito a penetrare la memoria che non si oblia
e di Andrić la dimora: pervasa dal profumo della valle
la ragione è questa per la quale credo, hai detto, il cuore
avessi aperto ai sensi, protetto dal Vilenica e dal Vlašić
i monti delle dominazioni degli slavi, di austroungarici
e ottomani, e dal colle sul quale la granitica Fortezza
s’innalza sulla Stari Grad… ma è cosa poi davvero
saggia, mi dico, che mai tramonti la bellezza come di lei
la voce che l’ambizione smonta… Non è lavata ancora
lo sappiamo l’onta che macchia l’altura di un massacro…
e mi porta dove prima ero mai stato, s’aggrada
laddove l’arma ha fronteggiato l’amico con l’amico, e la città
vecchia ha operato l’inganno della rivalità di fedi antitetiche
e distanti. Come volesse dirmi che non scalda
se non curi la sua fiamma il fuoco, è disarmante
la storia che s’appressa alla cenere rovente
di un’idea come nel cuore a poco a poco il soffio
dell’ardore rigenera la vampa dalla brace: scatena il caos
assoluto, incendia l’aria di cui si alimenta il rogo,
ti eleva per un tuffo a precipizio nell’acqua spumeggiante
e confortevole del fiume, nel ventre da cui tutto ha inizio
*
Qualcosa rimarrà di tuo nell’acqua
che i piedi bagna di Jajce, nel salto
sonoro del Pliva e del Vrbas, qualcosa
dell’amata kasaba rimane alla radice
che si eleva dopo la caduta…
che voglia accedere, ti chiedi,
alla commedia della vita? Scortata
da un impulso di passione qualcosa
si dispone alla sapienza dell’errore
umano che domina in altezza dal lontano
passato e più recente: una locuzione, un detto
dal precipizio torna alla dimora del presente
Sui sedili di pietra della kapija, e dal Borovi
l’altopiano di Huma occulta dell’Ultimo Re
l’anonimo sentiero, e ancora sui bastioni
della Drina battuti dal fragore sontuoso
della spuma, e fino al Memoriale denudato
della Foresta di Petrova, testimone dell’abiura
di Savo Zlatić, dissidente in ceppi
con Vlado Dijak a Goli Otok… un’iscrizione
sulla targa l’incendio non ignora del senso…
in molti sostavano sul ponte medioevale
in molti guadagnavano la sponda
all’altra anelanti di tornare:
niente di più copioso e riluttante del ritmo
delle cose, dici, del battito delle parole
dette ad alta voce che vanno insieme
in una religiosa processione, onde del fiume
in piena i passi del viandante. Pare sia il futuro
invalicabile, un cancello dai battenti schiusi
le palpebre degli occhi tuoi sorpresi
di trovare dove non pensavi vi fosse il fuoco
di un amore. Uno strappo dell’anima oscillante
qualcosa di più dello strapiombo di una cataratta
quest’acqua che sovrasta il tempo e tanto
a te s’accosta da elevarti da ciò che resta
*
Le parole, mi hai detto
si possono ascoltare
non i pensieri, quelli
se ne vanno direi nel silenzio
dissigillato dallo sciabordìo
del mare colmo dei sensi: Idea
Spirito, Materia allora ritornano
a parlare come mai prima
fosse accaduto nella lingua
di un mondo dal moto perpetuo
nell’intimo sommosso, inaudita
L’altra all’umano, impiccato com’è
al suo nodo. Noncurante
hai ricordato degli affreschi
l’anima è tesa al fuoco
del sommerso (sulla riva
caliginosa si coglie il vuoto
involucro di stelle disseccate,
la poltiglia di alghe macerate,
chele contorte da una vertigine
intrisa di salsedine), di ciò che è
tormentosamente fuggevole nel flusso
Paolo Maria Rocco
Paolo Maria Rocco, nato a Napoli, residente a Fano (PU), è laureato in Lettere Moderne all’Università degli Studi di Urbino (110/110-Magnifico Rettore Prof. Carlo Bo); ha conseguito un Master di Perfezionamento all’Università degli Studi di Firenze in Informatica nella Didattica delle Discipline Umanistiche e nell’uso educativo dei Beni Culturali. E’ insegnante di ruolo nelle scuole superiori pubbliche di Secondo grado dal 1996; ha svolto insegnamento per l’Università di Urbino in qualità di professore a contratto (2004); giornalista professionista dal 1995 (“Il Giorno” di Milano, “L’Eco di Bergamo”, Il Resto del Carlino”, “Altrogiornalemarche”, “La Gazzetta di Ancona”, “La Gazzetta di Pesaro”, “Vivere Pesaro”, “Vivere Fano”, e altri). Ha pubblicato:
“Virginia, o: Que puis-je faire?”, romanzo, 2015 (BastogiLibri);
“I Canti”, poesie, 2016 (BastogiLibri);
“Divina e altri racconti (2015/2017)”, in e.book per Amazon, 2017;
“Bosnia, appunti di viaggio e altre poesie”, poesie, Editore Ensemble di Roma, 2019;
“Antologia di Poeti contemporanei dei Balcani”, Ed. LietoColle, Como 2019
Ha pubblicato poesie in Riviste italiane ed estere.