“Noi tutti siamo ombre fuggevoli…” è l’apoftegma linguaglossiano che sostiene il suo polittico ove l’idea di “ombra” è già nel titolo. Conoscendo, da lunga frequentazione, la formazione culturale di Giorgio Linguaglossa posata su chiari e irrinunciabili punti di riferimento anche di filosofia estetica, un commento organico a questa “Preghiera per un’ombra” non può sottrarsi al mito platonico degli uomini incatenati in una caverna, con le spalle nude rivolte verso l’ingresso e verso la luce del fuoco della conoscenza. Altri uomini si muovono liberi su un muricciolo trasportando oggetti; sicché, questi oggetti e questi uomini, colpiti dalla luce del fuoco, proiettano le proprie ombre sulle pareti della caverna. Gli uomini incatenati, volgendo le spalle verso il fuoco, possono scorgere soltanto queste ombre stampate alle pareti della caverna. Nel mito platonico, la luce del fuoco è la “conoscenza”; gli uomini e gli oggetti sul muricciolo rappresentano le cose come realmente sono, cioè la “verità“ delle cose (aletheia), mentre le loro ombre simboleggiano l’”opinione”, vale a dire l’interpretazione sensibile di quelle stesse cose (doxa). E gli uomini in catene con lo sguardo verso le pareti e le spalle denudate verso il fuoco e l’ingresso della caverna? Sono la metafora della condizione naturale dell’individuo condannato a percepire soltanto l’ombra sensibile (doxa) dei concetti universali (aletheia), fino a quando non giungono alla “conoscenza”. Senza questa meditazione filosofica a inverare l’antefatto estetico, culturale, cognitivo che sottende l’attuale, febbrile ricerca poetica di Giorgio Linguaglossa non si comprenderebbe appieno l’approdo-punto di ripartenza di questa poesia e delle sue implicazioni, nominabili in poche ma singolari parole-chiave: forma di poesia senza forma; linguaggio di molti linguaggi; astigmatismo scenografico; stratificazione del tempo e dello spazio; metodo mitico per versi frammentati; intertemporalità e distopia. Il tutto compreso in quella invenzione linguaglossiana dello “spazio espressivo integrale”, l’unico spazio nel quale i personaggi inventati da Giorgio Linguaglossa (Marco Flaminio Rufo, il Signor K., Avenarius, Omero, il Signor Posterius, Ettore che esorta i Troiani contro gli Achei, Elena e Paride nella casa della Bellezza e dell’Amore, il padre, la madre, Ulisse, i legionari, Asterione, etc.) simili agli eteronimi di Pessoa, possono ricevere la piena cittadinanza attiva che richiedono al loro “creatore” quando, altra novità di vasta rilevanza estetica in questa poesia di Giorgio Linguaglossa, “parlano” nelle inserzioni colloquiali, o nel “parlato”, dentro ai componimenti linguaglossiani recenti.
Gino Rago
Preghiera per un’ombra
Questa è la preghiera per un’ombra. (1)
Gioca a fare l’Omero, mi racconta la sua Iliade,
la sua personale Odissea.
Ci sono cavalieri ariosteschi al posto degli eroi omerici
e il Teatro dei pupi.
L’illusorietà delle illusioni.
[…]
«Le cifre pari e le dispari tendono all’equilibrio
– mi dice l’ombra –
così, stoltezza e saggezza si equivalgono,
eroismo e viltà condividono lo stesso equanime destino.
Noi tutti siamo ombre fuggevoli, inconsapevoli
della nostra condizione di fantasmi.
Gli uomini non sanno di essere mortali, dimenticano
e vivono come se fossero immortali;
il pensiero più fugace obbedisce ad un geroglifico
imperscrutabile,
un fragile gioco di specchi inventato dagli dèi.
Tutto è preziosamente precario, tranne la morte,
sconosciuta ai mortali, perché quando viene noi non ci siamo;
tranne l’amore, una pena vietata agli Immortali».
[…]
«Queste cose Omero le ha narrate», mi dice l’ombra,
«come un re vecchio che parla ai bambini
che giocano con gli eroi omerici
credendoli loro pari, perché degli dèi irrazionali
che governano le cose del mondo nulla sappiamo
se non che anch’essi sono bambini che giocano
con i mortali come se fossero immortali;
perché Omero dopo aver poetato gli immortali
cantò la guerra delle rane e dei topi,
degli uccelli e dei vermi,
come un dio che avesse creato il cosmo
e subito dopo il caos.
Fu così che abbandonò Ulisse alle ire di Poseidone
nel mare vasto e oleoso.
E gli dèi abbandonarono l’ultimo degli immortali,
Asterione, alle pareti bianche del Labirinto
perché si desse finalmente la morte per mano di Teseo.
In fin dei conti, tutti gli uomini sono immortali,
solo che essi non lo sanno.
Non c’è strumento più prezioso dello specchio
nel quale ciò che è precario diventa immagine.
A questa condizione soltanto gli uomini accettano di essere uomini».
[…]
«Giunto all’isola dei Feaci abbandonai Ulisse al suo dramma.
Perché il suo destino non era il mio.
Il suo specchio non era il mio».
[…]
«Il tempo è il regno di un fanciullo che si trastulla
con gli uomini e le Parche.
Non c’è un principio da cui tutto si corrompe.
Il firmamento è già in sé corrotto, corruzione di una corruzione.
Un fanciullo cieco gioca con il tavoliere.
Come ha fatto Omero con i suoi eroi omerici.
Come farai tu».
[…]
«Quell’uomo – mi disse l’ombra – era un ciarlatano,
ma della marca migliore
La più alta.
Egli era elegante,
e per giunta poeta…» (2)
Giorgio Linguaglossa
1) Riferimento a mio padre calzolaio che mi raccontava da bambino storie di cavalieri ariosteschi
2) versi di Sergej Esenin “l’uomo nero” (1925)
Le ombre delle ombre delle ombre, una caverna con personaggi incatenati e riflessi, dunque una fuga ininterrotta di volte cavernicole senza fine, senza fine ed ancora senza fine. Dunque un rincorrere l’infinito. Senza mai raggiungerlo ” in secula seculorum”. Codesto reticolo, infinitesimale, dovrebbe significare, anche, l’imo umano profondo e misterioso ramificatosi, dal primo ominide in poi, nella nostra teca-archivio ove perfino l’ipotalamo si ostina a dare segno di sé in un delirio di intrusioni neuronali capaci di sogni, incubi e follia. Il fatto è che districarsi in codesto brulichio di meta-pensiero sfuggente , anche se mi riporterebbe subito a quanto vergò a suo tempo il buon Tobino contiguo alle razionali-irrazionali espressività dei suoi pazienti in Maggiano (Lu ), mi parrebbe al limite delle possibilità razionalmente intese. Ma, si sa, la platonica idea è lì ad additarci quanto siano complesse e complicate discernere le umane cose, indi occorre affidarci a realtà altre, ” alterità” terse tal quali i cristallini, antichi cieli. Una ricerca degna di essere seguita anche se con paziente, cocciuta determinazione.
Grazie a tutti gli intervenuti.
Io penso davvero che la poesia debba tentare di andare di un passo oltre le proprie possibilità, penso che il concetto di «gesto» estetico non equivalga affatto al gesto della vita quotidiana, il gesto estetico è una «rottura» della continuità, apre il tempo, lo divide e ne crea uno nuovo… senza questa apertura del tempo in altri tempi noi continueremmo a fare la poesia giornalistica dei magrellisti e quella topologica e geografica dei milanesi e dei loro numerosissimi epigoni e imitatori. Il gesto quindi è rottura della temporalità. Soltanto se oltrepassiamo con la massima decisione la soglia della temporalità quotidiana dell’esserci, soltanto a questo punto troveremo le parole vere, quelle che escono dal profondo. Io so benissimo che la mia poesia fa rabbrividire tutti i magrellisti del conformismo e del cloroformio, non è mio intendimento piacere al loro piccolo ortus conclusus, e del resto la poesia non deve piacere, deve sorprendere, scuotere, mettere in crisi, soltanto la poesia conformistica, quella sì, piace a tutti i conformisti. Questo concetto bisogna ripeterlo cento mille volte. Instancabilmente.
“forma di poesia senza forma; linguaggio di molti linguaggi; astigmatismo scenografico; stratificazione del tempo e dello spazio; metodo mitico per versi frammentati; intertemporalità e distopia. Il tutto compreso in quella invenzione linguaglossiana dello “spazio espressivo integrale”, ”
Che altro aggiungere caro Gino Rago se non ascesa e rovina. Totale demolizione di un ontologia poetica definitivamente messa in soffitta, bandita.
Brechtiana. Uno straniamento biblico nell’accezione scenografica di un idillio portato a termine, rappresentato, affabulato.
Anche tu hai una debolezza, caro Giorgio Linguaglossa, tu ami! Questo è un inno alla poesia, essa si, immortale.
Ospiti graditi. Grazie Erato.
Ringrazio i commentatori, troppo generosi e gentili. Il mio tentativo che perseguo ormai, con alterne vicende e fortune, da più di trenta anni, è rivolto verso «lo spazio espressivo integrale», verso una poesia che ha messo definitivamente in soffitta l’ontologia poetica del novecento italiano. Sì, so di essermi attirato la malvolenza dei piccoli letterati di provincia, ma ciascuno segue la propria strada. Fortunatamente, ho degli amici, degli estimatori: Gino Rago, Mauro Pierno e anche Broccolini, sono grato a questi poeti, perché la lotta verso lo svecchiamento della poesia italiana è e sarà lunghissima e durissima, il conformismo al polistirolo e al cloroformio dei letterati italiani tenterà di sbarrare il passo ad ogni istanza di rinnovamento della poesia, questo mi sembra ovvio, ma noi non possiamo certo arrestare la nostra ricerca…
Caro Giorgio,
la tua poesia mi è piaciuta tantissimo, giusto perché cogli il profondo della poesia, il suo vivere nell’oscurità pozzo ed essere appena un barlume… non credo che mai invecchia anche perchè mai è stata nuova. la sua forza-debole se c’è la dobbiamo scoprire, indovinare. alcuni, sopratutto i ” letterati” non la vedranno mai. per loro è sempre vecchia, espressione di cultura, quindi morta. Francesca Lo Bue
Cosa aggiungere all’ottimo commento critico di Gino Rago?
Ogni testo di Giorgio Linguaglossa è un raffinatissimo dispositivo estetico-filosofico. Gioco di specchi riflettenti, montaggio sapiente dei cliché letterari e delle immagini. Non c’è nessuna progressione lineare che faciliti la lettura o il racconto (se c’è altro ancora da raccontare… e in quale modo…) La cancellazione del soggettivismo lirico apre la scena ad ombre e simulacri come illimitata riserva di senso virtuale.
Una poesia che vuole essere ripensamento radicale. Sembra che ogni allusione o correlativo voglia risolversi in una dimensione astratta… In fondo questa è una poesia alla Pollock, un grande gesto di liberazione…!
Come ho tentato di interpretare i versi di Giorgio Linguaglossa?
Rispondo in maniera semplice: guardando ancora una volta in direzione del metodo di Max Kommerell.
Secondo questo metodo la critica ha tre livelli, esemplificabili in tre sfere concentriche:
– quello filologico-ermeneutico, che si incarica di interpretare l’opera;
– quello fisiognomico, il cui scopo è la sistemazione della stessa opera avvalendosi della legge della ‘somiglianza’;
– quello gestuale.
Kommarell da grande critico li ha attraversati tutti e tre.
Ma nella prospettiva indicata da Kommerell cosa è il gesto?
Il gesto è qualcosa che sta con il linguaggio in un rapporto intimo come una forza operante nella lingua : il gesto linguistico secondo Kommerell è
lo strato del linguaggio che non si esaurisce nella comunicazione ma lo coglie nei suoi momenti solitari. Scrive il critico tedesco che il senso del gesto non si compie nella comunicazione e somiglia a un volto :
« Spesso un volto sembra narrarci la storia dei suoi momenti solitari».
Ed è Letizia Leone che usa la parola-chiave del gesto nel suo intervento: anche perciò la ringrazio in modo particolare per essere intervenuta nel dibattito.
Come ringrazio sentitamente Luciano Nota, la Redazione di Erato, Francesca Lo Bue, Mauro Pierno, Bruno Di Giuseppe Broccolini per i loro pertinenti commenti.
gino rago