Spartiamo con zelo
il grano dalla pula, l’ambra autentica
dalle patacche, abbiamo un certo occhio
per chi millanta un pane ultraterreno,
perfino l‟insetto va in cerca della luce,
l‟amore è solo questione
di manutenzione della rete idrica,
puliamo a fine giornata il setaccio
dai residui sottili,
ci domandiamo cosa protegga
le vetrate dai colpi d‟aria forti,
c‟è un pianoforte sulla luna
che non sa nulla
delle nostre dita unte.
La fenice
La tv accesa fino a immergerci nel lago,
tanto per compagnia, invecchiamo
come posate chiuse nei cassetti
che non hanno imparato mai a volare,
la pelle perde tono e si frastaglia
in frattali, friabili, di ghiaccio,
la nebbia fa illeggibili i tatuaggi,
le vecchie asciugamani buone solo
per farne stracci. Eppure
il sole sfida cecità di secoli
trapassando le serrande abbassate,
lo scarabeo sopravvive agli imperi,
battezza l’alba dalla cenere di ieri,
dopo ogni gradino appena fatto
ne spunta in cima alla scala già un altro.
Fine dell’infanzia
Le foreste hanno tradito;
al loro posto
le spalle curve dei supermercati
e una bottega che ripara orologi da generazioni,
abbiamo i bronchi impregnati
dell‟odore di cartongesso,
dobbiamo fermarci a riprendere fiato
dopo i tratti in pendenza,
del glorioso animale non resta
che un alone di grasso sulle piastrelle,
l‟idolo dei predoni di Numidia
annega nel singhiozzo degli autobus;
ma fa anche oggi giorno:
nella tautologia dei viali continuano
la ronda insensata di alberi e braccia,
il bestemmiante scroscio di una saracinesca.
Soglia del lupo
È il terrore di morire
che intreccia
nastri colorati e fiori di vetro
sulle dita delle strade.
I fiumi interrompono a metà la loro omelia,
gli uccelli si spezzano
contro gli infissi chiusi,
le impronte nel fango troncate di netto.
Sarà guarito
questo popolo in lotta con la propria lunga ombra
appena varcata
la soglia del lupo,
è soltanto morendo
che muore la morte,
l‟occhio diventa uno con l‟orizzonte.
Procedura di emergenza
Ci vorrebbe un sedile eiettabile
che mi schizzi fuori
dalla testa in preda alle fiamme ,
quando l‟aereo è condannato
dal farneticare delle lancette
e i valori di anidride carbonica
nel negozio del pane
superano i valori tollerabili,
l‟odore di capelli bruciati
rende irrespirabili le giornate;
l‟alternativa allo schianto è
la fuga, consegnarsi senza orgoglio
alla misericordia di qualche troposfera
e disperdersi, imitare l‟insetto
che all‟ultimo si divincola
dalla morsa della pianta carnivora.
Guglielmo Aprile
Codesti intrecci pervicaci tra oggetti inerti in apparenza, vegetali frammentati – flora intersecante parallelo con l’essenza zoologica del mondo animale- ed il tutto a tangere il diurno agire, soggettivo ( oggettivo?) di una umanità sconcertata, al di fuori di se stessa. Un impietoso sguardo l’eiezione umana in un contesto inesplicabile e, forse, teso sulla finale mulattiera d’una lucida follia. Incertezze, e poche certezze, a non dare scampo pressoché a nessun pensante, stante il perenne, e tuttavia vitale, obbiettivo alla ricerca di un equilibrio che non ci sarà nonostante i formidabili tentativi impietosamente frustrati. Una rete fittissima e stretta a mo’ di nodo scorsoio che tutto addolora, costringe al limite il respiro sino, finalmente, al rantolo ( pregato?) dell’addio
conclusivo. Constatazione amara d’un mondo non amato ( desiderato ?) in cui il continuo movimento polmonare non fa altro che confondere le idee fino alla consunzione generale e totale. Un’immagine ben messa a fuoco con energiche parole di fusione ed infusione, di certo contratte e contrariate, ma – nel contempo- di rara, focale efficacia.