Si rispecchiano miracolosamente tra loro, nascosti fra i monti e le vallate dolomitiche, i segni e i sogni di Alfonso Lentini: incantato codice di un’immaginazione lirica al sommo dell’oracolo. Intramontabile è l’attualità carnale del suo scrivere, fortissima – allo stesso tempo – l’ascesi. La forza è quella propria della poesia, del pensiero poetico nella sfida all’Inesprimibile. L’estro e la sapienza che animano queste brevi prose rimangono quelli di una visione prevalentemente eidetica della realtà, assunta e trasfigurata per coglierne le essenze prime o le ultime parvenze; per riscoprire di continuo, oltre al velo del contingente, l’indecifrabile connessione tra naturale e sovrannaturale: “Aiuta Achille a raggiungere la tartaruga. – si legge in “Compiti difficili” – Mangia pane e capodoglio. Nasci tre volte. Muori quattro volte. Scrivi all’infinito. Abbracciami”. Al di là dell’implicita contraddizione, oltre al contenuto ermetico di questi micro-racconti – attraverso un gioco di metamorfosi semantiche, di traslati sorprendenti e di scarti logici vertiginosi, di analogie e paradossi formali – persiste intatta la grazia suprema dell’estro espressivo, nella sua evidenza lirica. Trasparenza, leggerezza, profondità: queste sono le fondamenta di “Tre lune in attesa” che s’impongono fin dal primo approccio e generano stupori, addentrandosi in luoghi inesplorati. È il movimento originario della forma fantasmatica, del suo esercitarsi in memoria; è interspazio energetico che abbatte ogni consequenzialità e si affaccia sul bilico, all’infinito: “Come disse quel tale ebreo di Avignone: È il sole delle lepri e dei lupi, la Luna. Ma nulla sapeva dei cervi, che prima dell’alba galoppano lenti avvolti nella nebbia degli altopiani dolomitici e la luce lattescente di quel Sole notturno fa emergere in trionfo le loro corna protese…” La prosa poetica, nel suo fascinoso movimento ellittico, deraglia al di là del conosciuto, prendendo cadenze epiche. È solo un attimo, poi rientra nella griglia del giorno: “…che sembrano biscottini pronti a sgretolarsi nella tazza fumante della colazione”. (“Quel tale”). Una lettura che reclama tempo, oltre il tempo: “Queste sono le istruzioni per far sorgere e tramontare il sole” – scrive Lentini in “La macchina” – e guardare l’erba dalla parte delle radici. Le macchine non sono celibi e fioriscono la notte di storie. Quello di Alfonso, tuttavia, non è un soliloquio: prima di essere un’unica voce, quella dell’autore è condizione di un io carico di miracolo, capace di costruzione polifonica. Invenzione di lingue? Piuttosto, forse, figure dell’assoluto inchiodate finalmente all’immaginario; alfabeto iconografico in cui dispiegare l’energia del silenzio, in cieli così veri da apparire astratti, perché la verosimiglianza è un inganno, sembra dire Lentini (“Le cose non sono mai come sembrano” commenta in “Sotto il tavolo”). Gli interessa, piuttosto, il corpo della narrazione: un corpo che è anche struttura (sghemba nella prospettiva, ma struttura). “Una pianta capace di immagazzinare luce nelle sue radici”. – e l’enumerazione, in “Piccolo inventario”, assume la magia di una Wunderkammer – “Un vecchio armadio che sorride. Un fiore che sa nuotare. Un cavallo che non ha pudore a mostrarsi nudo. Un occhio parlante”. Una pulsazione primordiale anima i testi, un motivo iterato che ritorna ad affermarsi al di là della dispersione del consueto: è una vera e propria rottura epistemologica, che traduce ogni dimensione spazio-temporale in campo energetico, in assenza di luoghi. Lentini arriva ad una qualificazione organica sia del percepito che dell’immaginato, e la nascita assume i connotati di una germinazione perpetua, tra sapienza e visione. L’origine sta nella coscienza che tutto ritorna, che la ciclicità non è ripetizione quantificata, ma icona. La scrittura chiama a sé, e al nostro umano sentire, la scrittura.
Francesca Brandes
PIETROSA E PIETOSA
Il larice, quando ci vide, si voltò dall’altra parte. Ci videro i cervi e ci scagliarono occhiate scontrose. Il muschio si ritraeva appena lo sfioravamo con i nostri scarponi. Il cielo si ripiegava su se stesso per non vederci. Ma la montagna. Ma il Dolada, così inclinato, così rosato. Ma la montagna Dolada ci accolse, sì che ci accolse, pietrosa e pietosa. Ed ebbe di noi cognizione così vaga che ci scambiò per sonnolenti tardigradi. Ci annusò ma non ci riconobbe, smemorata com’è, e per questo ci accolse con gioia e ci permise di raggiungere la vetta.
COMPITI DIFFICILI
Fingi di esistere. Immergiti due volte nello stesso fiume. Dai fuoco al mare. Scavalca la cattedrale di Canterbury. Trova il punto di incontro di due rette parallele. Partorisci schegge di vetro. Leggi sedicimila volte la Bibbia. Passa da un universo all’altro. Aiuta Achille a raggiungere la tartaruga. Mangia pane e capodoglio. Nasci tre volte. Muori quattro volte. Scrivi all’infinito. Abbracciami.
ERBE BLU
Sono venuto a trovarti a un millennio e mezzo da qui, fino alla tua montagna cruda e nuda che non conosce pietà. Ma subito ripartirò. A tremila anni da qui il mio amore mi aspetta in vestaglia e già si accinge. Già finge di dormire quel sonno senza sogni dove crescono erbe blu. Mi aspetta in una gabbia di ferro dove dormiamo insieme. Subito ripartirò. Ma ecco. Ecco la tua montagna detta Sorapis che si alza in piedi e col dito puntato verso il mio occhio di vetro mi dice: l’essere è ingenerato e imperituro, è un intero nel suo insieme, immobile e senza fine. Detto questo, immobile e senza fine, la montagna ritorna a sedere e si ricompone vereconda. Cruda e nuda.
Alfonso Lentini
Un intricato intreccio di vite che si intersecano e si comprendono senza parlare. Gli ossimori uno dietro l’altro allineati, senza sforzo né pudore, dunque rimane solo l’incanto netto del fortunato lettore. Nubi fresche ridenti ed annuvolate per essere come sono, e così anche gli alberi, le erbe verdi nascenti, e le montagne pure semoventi in panico idillio coi viventi. Qualche riferimento classico – la tartaruga con Achille in gara – giusto per essere ancora con i piedi per terra- interrompere codesta sfrenata, irrefrenabile fantasia. Certo che l’irradiamento circolare non cessa di seguire i propri sentieri, senza nulla lesinare in uno spettacolare movimento anseatico a portar tutti dall’orbe fino, forse, all’infinito. Ed il Nostro ci riesce. Forse.