“[…] Di fronte a smarrimento delle radici ed erranza un poeta come Brodskij eleva l’esilio a condizione metafisica di «resistenza attiva». E se l’«abitare» è la parola chiave mancante per chi è costretto ad abbandonare la casa, il proprio paese o l’idea stessa di patria, a questo sorta di sradicamento lo scrittore da esule privilegiato, grazie al suo mondo interiore, può opporre lo spazio del linguaggio. «La tua capsula è il tuo linguaggio» ribadisce Brodskij, «per uno che fa il mio mestiere la condizione che chiamiamo esilio è, prima di tutto, un evento linguistico: uno scrittore esule è scagliato, o si ritira, dentro la sua madrelingua. Quella che era per così dire la sua spada, diventa il suo scudo, la sua capsula[…]”.
Letizia Leone
L’esilio è un fatto linguistico
Era d’inverno. Il villaggio dormiva più del solito,
ombre corte dai monti e dalla neve.
Una donna sognava di diventare un’altra persona.
Bisognava lasciare il villaggio, abbandonare la casa.
Sfidare il lago, attraversarlo dimenticando le sponde,
concentrandosi unicamente sull’altra sponda,
la più vicina. Agota diventò un’altra persona
ma non abbandonò il villaggio né sua madre.
Aveva intrapreso il viaggio in un’altra lingua.
La nuova lingua accolse la donna
come la nonna che ti attende e che ritrovi al di là dell’oceano.
La condizione che chiamiamo esilio è solo un fatto di lingua
[si può essere in esilio anche nel proprio villaggio,
nella lingua della madre, fra le ossa dei padri ]?
Agota ora scrive nuovi versi. L’esilio è in ogni lingua
che ti nega la parola esatta.
Gino Rago
I senza nomi
In giacche d’ombra
e visiere di fango
arrancano
letali
i senza nomi
Sul ciglio del sentiero
su scogli e strapiombi
senza meta
a blocchi aggrovigliati
Le loro armature sono di pelle nuda.
Hanno perso la voce
la lingua
forse la voglia
Dai rovi
sornione s’alza
la brigata dei corvi iene sciacalli
L’orizzonte è fuggito
È andato lontano
dietro
più dietro ancora
Una mantella cupa
lo ricopre.
Edith Dzieduszycka
I sottili lineamenti
I sottili lineamenti tribali, le mille piste
che si biforcano nel deserto:
la fine trama di logore sete,
il rosso e l’oro di vesti principesche:
tutto abbiamo visto vanificarsi, svanire
come un raggio di luce nei terreni incolti;
il volto del mondo perdere i suoi connotati,
gli stivali chiodati del Male assoluto
i pesanti cingoli nel fango
portare in offerta distanze ravvicinate.
E dalle fessure dei nostri muri disumani
spiamo quelle catapecchie a perdita d’occhio,
i mille fuochi sporchi per le v\ie:
gli arruffati capelli irti di polvere e ira
riavviati dalle mani materne,
i capelli sottili come seta
riavviati dalle ruvide mani materne.
Steven Grieco-Rathgeb
Dove vanno questi uomini insanguinati
Dove vanno questi uomini insanguinati
giunti all’alba? Hanno occhi sbarrati dal terrore.
Dicono che provengono dal Delta del Niger
e non vogliono tornare indietro.
Che ne sarà dei loro destini?
Fuggono lungo il confine
insieme alle bestie impazzite
in balia delle dimore ignote
e delle voci dei defunti.
Gëzim Hajdari
In nomine lucis
Di notte viaggiano i vagoni merci carichi di morti.
Di giorno grandi specchi ustori semoventi montati su camion
danno la caccia agli uomini che hanno ingoiato la luce.
Fuggono la luce, si giustificano, si sbracciano.
Dicono di aver bevuto luce a sazietà.
Si riparano sotto le tegole,
sotto le mensole, nelle bettole del dormiveglia,
si infilano sotto le saracinesche abbassate,
si nascondono tra le masserizie
e i rifiuti, lungo gli argini del fiume del dolore,
sotto gli alberi spogli.
[…]
Scavano fosse nella terra e ci mettono la testa.
Dicono di aver bevuto a sazietà.
Gridano: «Eloì, Eloì lema sabactani!».
E bestemmiano. Bestemmiano il nome di Dio…
– Tigri fosforescenti con passo elegante
ci ringhiano contro, divaricando orribilmente le fauci…
– Dicono di aver bevuto tanta luce.
[…]
La notte, durante il coprifuoco, gendarmi
con berretti a visiera di feltro verde
in tuta bianca portano a spasso frotte di lupi al guinzaglio.
Rifiutano la luce.
[…]
La notte, gemella dell’oscurità, partorisce il buio.
Il buio partorisce un uovo
dal quale escono i pipistrelli ciechi
che sbattono contro i fili dell’alta tensione
e copulano con gli angeli gobbi
caduti dal cielo azzurro…
Giorgio Linguaglossa
I versi di “L’esilio è un fatto linguistico” nati come confronto immaginario con Letizia Leone, una sorta di botta e risposta con la curatrice dell’ antologia dalla stessa Letizia Leone curata per l’editore Perrone, partono dalla considerazione che la questione linguistica è centrale in tutti i poeti che per certe storture o per certi soprusi della Storia sono costretti a lasciare la propria terra e a seppellire la lingua delle madri, da un lato, ma soprattutto anche, dall’altro, dal postulato che Iosif Brodskij ha stabilito proprio in ‘Dall’esilio’.
Ne ‘ Dallesilio’ Iosif Brodskij, fuggito nel 72 negli U.S.A. si esprime, a proposito di ciò, in questo modo:
“Per uno che fa il mio mestiere la condizione che chiamiamo esilio è, prima di tutto, un evento linguistico: uno scrittore esule è scagliato, o si ritira, dentro la sua madrelingua. Quella che era, per così dire, la sua spada, diventa il suo scudo, la sua capsula. Quella che allinizio era una liason privata, intima, col linguaggio, in esilio diventa destino, prima ancora di diventare unossessione o un dovere.”
Dunque, il poeta è in esilio, può essere in una condizione di esilio, anche nella propria
terra, se la lingua non gli è patria, patria linguistisca, e gli nega per questo la parola esatta.
Gino Rago