In queste poesie di Steven Grieco Rathgeb tratte da Entrò in una perla (Mimesis Hebenon, 2016), protagonista è il Tempo «disfanico» (parola creata da Steven Grieco), l’Aion di Scelsi, (la lontananza nostalgica che è una creatura del tempo), il Tempo eterno, da cui Cronos che, per Aristotele, è l’«immagine mobile dell’eternità», il tempo ciclico che appare in quello che noi conosciamo come presente. Degno di nota è come gli strumenti musicali a percussione di Grieco Rathgeb traccino i movimenti ondulatori del testo, che appare come un sistema di micro movimenti non immediatamente appariscenti, ma questa mobilità non-apparente è composta da una miriade di micro movimenti di traslazione, ondulatori, sussultori quasi che l’autore li avesse scritti sotto l’influsso della musica di Giacinto Scelsi. I luoghi sembrano inquadrati da una macchina da presa che ruota inttorno all’oggetto profondo da tutte le posizioni, lentamente, con un movimento ondulatorio, avvolgente, con progressivi scivolamenti microtonali, con i glissandi sospesi, in un crescendo…
Steven Grieco Rathgeb pensa la poesia come una «disfania», anzi, una serie pressoché continua di «disfanie», al pari di una «composizione musicale», una «polifonia», un «polittico», un «sistema polifonico» con voci di contralto, di tenore, di basso che si alternano e si contrappongono provenienti da vari spazi e vari tempi; si susseguono, «voci» interne ed esterne, dell’io, del non-io e di altri personaggi; il poeta pensa la poesia come rimodulazione di «toni» a secondo della posizione delle «parole» all’interno di un sistema dinamico qual è il verso. Il verso diventa, propriamente, un sistema dinamico-instabile di attanti, un «sistema in movimento», un sistema con numerosissime faglie, strappi, lacerazioni sintattiche.
Steven Grieco Rathgeb ha abbandonato il concetto della composizione come un susseguirsi di parole entro un campo sintattico unidirezionale logico progressivo, il Nostro immagina la poesia non più come un sistema statico-lineare ma come un poliedro sfaccettato e complesso, non più logico-lineare ma multi spaziale e multi temporale. Se pensiamo alla cosa chiamata poesia in termini di polifonia e di disfania entro un sistema spaziale, ed anche di organizzazione formale ma all’interno di un sistema spaziale… ecco che il tempo verrà da sé, questo pensa Steven Grieco Rathgeb. In fin dei conti, lo spazio e il tempo (lo sappiamo da Einstein) sono correlati, anzi, formano un unico tessuto, il tessuto dello spazio-tempo.
Steven Grieco Rathgeb pensa il poeta come un compositore di musica in uno spazio vuoto, in uno spazio in espansione. Pensa alla parola in termini di «massa sonora» in costante stato di inflazione, inserisce la «massa nominale» in un circuito orbitale che vaga nell’etere… Credo che abbiamo molto da imparare dalla poesia di Steven Grieco Rathgeb, un poeta insolito qui in Italia, che fa una poesia come una macro metafora che all’interno contiene una miriade di masse nominali che contengono al loro interno micro metafore, deviazioni del discorso, luoghi, personaggi, rammemorazioni dove ciascun elemento ha il proprio posto, o meglio, ha perduto il proprio luogo e si trova a vagare in un ordito non più logico-sintattico. In questo tipo di poesia i luoghi, i personaggi, le epifanie, le disfanie sono interscambiabili, tutto è in movimento, in tutte le direzioni. La poesia è come un polittico, una polifonia: una immagine contiene all’interno altre immagini, un cosmo disparato in traslazione in tutte le direzioni. Un Aleph.
Giorgio Linguaglossa
Sulla veranda: Meena e Beena Mathur
Due sorelle sulla veranda, in vestiti giallo-sera.
(Fuori, un giardino.)
Dopo il tramonto la loro quiete
si ritira dal cielo rosa pieno di aquiloni
mentre scende la notte –
e nell’incrocio-intreccio, intessersi di traiettorie
su vanno i triangoli e rombi di carta
mentre da ogni terrazzo gesticolano i festanti
Pensiero furtivo, sorvola la Jothwara Road, verso Gangori Bazaar
radioso di nude lampadine, stoffe, folle che si muovono, pigiano mescolano
perfino un albero morto in un terreno deserto si agghinda di colori
Il grido umano di questa terra troppo complessa, sale
nel cielo frenetico, strisciato di rosa
agli stormi di piccioni in volo
agli aquiloni che danzano più su
alle rondini nel più alto
Meena: «ho fatto un sogno della
nostra madre morta.
Da 25 anni, ormai.
la incontro in altri luoghi.»
*
La veranda incupita piange questa perdita di visibilità,
i prodigi che la nostra psiche non illumina.
«Ti sento cantare quando fai il bagno la mattina.»
Ma io dico che siamo già venuti qui
smemorati, disarmati – benché dicano, È, non È –
soltanto per affermare la vita (e vivere).
Nudo, il cuore percorre un gelido corridoio.
E così, a poco a poco, l’imbrunire ruba
i lineamenti dei loro visi – ma ancora invia
(un riflesso incantevole)
Leafing through the pages
I was leafing through the pages, looking
for the word φαινόμενον.
“Our world is fully discovered,” you said.
“We’ve mapped the continents and seas,
classified plants and creatures.”
Your words spread out like a full-blown flower.
“Its mysteries,” you said, ”largely explained,
the future foreseeable and ours by pre-emption.”
This didn’t seem quite right:
but still your argument held its own
and climbed before our eyes,
turning on a sky-blue axis,
so round and well-fashioned we forgot
its nothingness, how it echoes down the aeons
growing stronger, clearer, till it’s One
with the dreamlike deep vibration of existence.
“And for all our achievements, look at us,” you said:
“unknown to our own selves,
outraging what’s left of this world.”
This world, I thought, or just a reflection?
I myself couldn’t tell.
Overwhelmed, we watched it turn silently,
its rugged contours etched
with ever finer, more rending strokes;
offering us the same answers we seek;
feeding with our gaze
its dream.
Sfogliavo le pagine
Sfogliavo le pagine, cercando
la parola φαινόμενον.
Tu dicesti: «il mondo è stato tutto scoperto.
Conosciuti i mari e i continenti,
le piante e gli animali classificati.»
Le tue parole si schiusero come un grande fiore.
«I suoi misteri – dicesti– ormai quasi spiegati,
il nostro futuro prevedibile e già oggi ipotecato.»
Su questo avrei avuto da ridire:
ma il tuo pensiero resse,
e noi lo vedemmo librarsi nell’aria,
tondeggiando azzurro,
così ben foggiato da farci dimenticare
il suo nulla, come un’eco nei millenni,
sempre più forte, più chiaro, fino a diventare
suono, sonorità inconscia dell’Essere.
«E noi – dicesti – con tutte le nostre conquiste,
sconosciuti a noi stessi;
violando quel che resta di questo mondo.»
Questo mondo, riflettevo, o soltanto
un’immagine? Ero incerto anch’io.
Vinti dalla sua presenza, lo vedemmo ruotare
in silenzio, i suoi rilievi manifestarsi
con crescente, lacerata precisione:
inviarci i segnali da noi stessi desiderati;
alimentando con il nostro sguardo
il suo sognare.
Koronisia, 1990
Lights out, the house
– dark
Down the passage to the room,
and in the encircling unfathomable foreignness
a shimmering vegetation—
trill of crickets from the dark-enshrouded olives
—noiseless spider, mantis, gecko
(vermin slithering through the underbrush)
“Don’t touch!“ – a whisper speaks
that same darkness: “now events
shed no light:
but the ever-itself, in thousands,
shapes around the stone-hard
still core, leaping like fish
from wave to wave— ”
Till presence is this dark body, woven
in thoughts: the eyes dark, the heart
woven in its own embrace
inside the wider encircling Gulf
now audible,
washing ashore
where thought, dark swimmer,
swims out
breathing unutterable darkness
Koronisia, 1990
Spente le luci, la casa
– oscura
giù per il corridoio verso la stanza,
e in questo cerchio insondabile, straniato
una rilucente vegetazione–
stridio di grilli dagli olivi avvolti nel buio
– silenziosi ragno, mantide, geco
(strisciano immondi sotto i cespugli)
“Non toccare!” – sussurra la
stessa oscurità: “adesso gli eventi
non illuminano:
ma il sempre-se-stesso, a migliaia,
si forma intorno all’impietrito
fisso centro, balza come un pesce
di onda in onda” –
finché la presenza è questo corpo oscuro
che il pensiero intesse: gli occhi scuri, il cuore
intessuto nel proprio abbraccio
nel grande cerchio del Golfo
ecco, si percepisce
lo sciacquio a riva
dove il pensiero, oscuro nuotatore,
nuota al largo
respirando indicibile oscurità
Amnesia
Now that you’re up, ashlit moon,
invisibly clear in the early night—
in this silence, like the mind’s quiet,
I wonder how your bright crescent
speaks the dark fullness: the darkness coming
of your round brilliance.
Your speed up there so high
I instantly reach you.
For the deepest transparency,
without glass, across distances,
is only thin air
and the horizon of this world, away.
You speak, ancient poet,
not as a voice within a voice,
but as one divided
in your undivided sound.
May I tonight
forgetting the distance
speak the dark round of your fullness
Amnesia
Ora che sei sorta, luna-cenere,
quasi invisibile nella notte appena fatta,
nel tuo silenzio, simile alla quiete del pensiero,
mi chiedo come questo orlo di luce
esprima l’oscura pienezza: l’oscurità vicina
del tuo sferico splendore.
Tu lassù così veloce
che ti raggiungo in un istante.
Perché la trasparenza più profonda,
senza vetri, di là dalle distanze,
è solo quest’aria sottile
e l’orizzonte di questo mondo, avulso.
Tu parli, antico poeta,
non come voce nella voce,
ma come uno diviso
nel tuo suono indiviso.
Possa io stanotte
dimenticando la distanza
dire l’oscura sfera della tua pienezza
Steven J. Grieco Rathgeb
Steven J. Grieco Rathgeb è nato in Svizzera nel 1949, poeta e traduttore. Scrive in inglese e in italiano. In passato ha prodotto vino e olio d’oliva nella campagna toscana, e coltivato piante aromatiche e officinali. Attualmente vive fra Roma e Jaipur (Rajasthan, India). In India pubblica dal 1980 poesie, prose e saggi. È stato uno dei vincitori del 3rd Vladimir Devidé Haiku Competition, Osaka, Japan, 2013. Ha presentato sue traduzioni di Mirza Asadullah Ghalib all’Istituto di Cultura dell’Ambasciata Italiana a New Delhi, in seguito pubblicate. Questo lavoro costituisce il primo tentativo di presentare in Italia la poesia del grande poeta urdu in chiave meno filologica, più accessibile all’amante della cultura e della poesia. Attualmente sta ultimando un decennale progetto di traduzione in lingua inglese e italiana di Heian waka. In termini di estetica e filosofia dell’arte, si riconosce nella corrente di pensiero che fa capo a Mani Kaul (1944-2011), regista della Nouvelle Vague indiana, al quale fu legato anche da una amicizia fraterna durata oltre 30 anni. Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, 2016). Nel 2016 con Mimesis Hebenon è uscito il volume di poesia Entrò in una perla.