La composizione di questo meraviglioso canto va assegnata al triennio 1819-1821. Con tocchi dolci ed estrema delicatezza, Leopardi rappresenta la chiara e tranquilla notte succeduta ad un giorno solenne; probabilmente, alla medesima festa di San Vito protettore di Recanati che il poeta ricorda nel Passero solitario. Certo, si ode riecheggiare una bella similitudine omerica (Iliade, VIII, 555). Ricorda così vivamente nel contemplare una simile notte coi suoi occhi da sentirsene indotto a fermare sulla carta tale ricordo. Ma la diretta visione e la commozione personale ispireranno al poeta versi di così netta evidenza e concentrata sobrietà da distruggere quasi per intero ogni memoria. La donna che il poeta ama dorme, certo, a quell’ora serenamente, e serenamente sogna e si compiace di rivedere le immagini apparsele nella giornata. Il poeta, contrariamente, vigila e soffre: angosciato dal pensiero che la dolce sua donna lo ignora; straziato dalla certezza che la natura, in apparenza così benigna e in realtà così ostile, lo ha condannato all’affanno. E’ il canto di un operaio che lo sottrae alla fremente crisi di disperazione, lo richiama a un più composto dolore, indirizza il suo pensiero per altre vie. Ma ora il poeta medita sulla fugacità di tutte le cose; in modo quasi brusco assurge alla considerazione delle vicende di Roma. Passano le voci umane, passano i giorni come i secoli, passano gli individui come i popoli: tutto perennemente fluisce e tutto fatalmente si disperde nel nulla. La poesia, così come iniziata, si chiude con versi teneri, soavi, in cui vibra l’eco di quella voce solitaria e sottile, che si alza nei silenzi notturni e si perde in lontananza come un soffio leggero.
LA SERA DEL DÌ DI FESTA
Dolce e chiara è la notte e senza vento,
E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
Posa la luna, e di lontan rivela
Serena ogni montagna. O donna mia,
Già tace ogni sentiero, e pei balconi
Rara traluce la notturna lampa:
Tu dormi, che t’accolse agevol sonno
Nelle tue chete stanze; e non ti morde
Cura nessuna; e già non sai nè pensi
Quanta piaga m’apristi in mezzo al petto.
Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno
Appare in vista, a salutar m’affaccio,
E l’antica natura onnipossente,
Che mi fece all’affanno. A te la speme
Nego, mi disse, anche la speme; e d’altro
Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto.
Questo dì fu solenne: or da’ trastulli
Prendi riposo; e forse ti rimembra
In sogno a quanti oggi piacesti, e quanti
Piacquero a te: non io, non già, ch’io speri,
Al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo
Quanto a viver mi resti, e qui per terra
Mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi
In così verde etate! Ahi, per la via
Odo non lunge il solitario canto
Dell’artigian, che riede a tarda notte,
Dopo i sollazzi, al suo povero ostello;
E fieramente mi si stringe il core,
A pensar come tutto al mondo passa,
E quasi orma non lascia. Ecco è fuggito
Il dì festivo, ed al festivo il giorno
Volgar succede, e se ne porta il tempo
Ogni umano accidente. Or dov’è il suono
Di que’ popoli antichi? or dov’è il grido
De’ nostri avi famosi, e il grande impero
Di quella Roma, e l’armi, e il fragorio
Che n’andò per la terra e l’oceano?
Tutto è pace e silenzio, e tutto posa
Il mondo, e più di lor non si ragiona.
Nella mia prima età, quando s’aspetta
Bramosamente il dì festivo, or poscia
Ch’egli era spento, io doloroso, in veglia,
Premea le piume; ed alla tarda notte
Un canto che s’udia per li sentieri
Lontanando morire a poco a poco,
Già similmente mi stringeva il core.
Giacomo Leopardi
L’ha ribloggato su Paolo Ottaviani's Weblog.