“Repertorio dei cieli” di Francesca Farina, Domograf – 2017, letto da Domenico Alvino

Francesca-FarinaRepertorio dei cieli di Francesca Farina è la rappresentazione di una rincorsa bloccata: e lei è là ferma a guardare la meta che si allontana e la distanza incolmabile, vuota di lei. E quel vuoto le vien dentro, le si allarga intorno a consumare le strade, lo spazio che era suo e che adesso si consuma, il cielo… sta per afferrarla il nulla e consumarla dentro e fuori, e lei non sa a quale sostegno afferrarsi. Il solo che le resta e che ha sempre costituito il suo essere è l’arte, che la agisce tramite la poesia. Prova a rifarsi il cielo dentro, così ricorre ai pittori. Contempla i cieli che avevano dentro loro e che poi sono esondati fuori a spalancarsi nelle loro opere. Di là comincia il tentativo di una sua ricostruzione con il mezzo della poesia, che ha motivato e sostanziato tutta la sua vita. Principia un’opera che risulterà complessa e ricca, sia di bellezza propria, sia di sguardi carichi di forza estrusiva su ogni oggetto e problema dello spirito e della vita. In Alvei ed alveoli, ad esempio, la poesia attiva un movimento di indentramento, sì a cercare il quid delle cose, ma anche dentro sé a cercare il sé proprio, che s’è perduto. E magari si scopre che in quel sé c’è dolore, che è nato in una con noi, o dolore in quanto è male e vizio del male, inestirpabile, che avvelena la vita. P. 26:

Non sento caldo, anche se sono al caldo,
Il sole non mi brucia, però abbaglia,
Un cane grida tutta la sua rabbia
Nella luce potente, senza scampo.

Dentro, come una grotta, le mie stanze,
La camera da letto, la cucina,
Lo studio abbandonato, la latrina
Come di una caserma, e, più distante,

Un altro interno, l’alveolo di un molare,
staccato in altri tempi, che ora duole,
Vuoto della sostanza che lo empiva;

E assai più dentro il cuore, un lupanare,
Dove un ossesso sesso sempre smuove
Assurde ricordanze, vacua riva.

Non mancano interventi nel sociale, e uno dei temi toccati sono i rapporti tra uomo e donna. In Parla Euridice, per esempio, la poesia rileva che l’uomo crede d’essere il primo ad uscire dall’oscurità del male, che invece è eterno e tutti vi son rinchiusi ineludibilmente dall’origine. Sicché promette alla donna, che lo segue, di andar dritto e di trarla per la via della luce, e invece poi… eccolo di nuovo retrocedere nelle tenebre. P. 21. E c’è, in Avverbi, la donna a sua volta che si sente sommersa dagli avverbi, se ne vorrebbe liberare. La assillano specie gli avverbi di modo. Ma la poesia ne trae la stanchezza di lei del fatto che il mondo da lei pretenda solo e sempre la perfezione dell’agire, fino al modo di “morire… adeguatamente”. P. 52.
Un altro tema è quello dei valori. In L’agnello, la poeta si domanda perché proprio l’agnello fu scelto come vittima sacrificale, lui innocente tra tutti gli innocenti? Lei non si dà risposte, ma la poesia raccoglie nell’agnello tutte le vittime innocenti della storia dell’essere. Anzi, tutti gli esseri esondati dal nulla, perché è forse l’esistenza stessa che si riduce ad essere una colpa. P. 25.
Vi son toccati anche problemi filosofici, come quello del destino e della bellezza, la quale si tira dietro anche la poesia, che è il suo luogo più alto e privilegiato da lei, dalla poeta. Destino è una sorta di ritratto che la poeta fa di sé rappresentandosi “oscura, benché fatta di luce, schivata dalla vita, dimenticata…” La poesia ne trae invece un ritratto della vita come di cosa disseccata e inutile, una cosa vana sfuggita di mano al caso, che se ne ritrae freddamente, lasciando vuoto il soggetto. Ed è la poesia che, in questo orroroso quadro, offre un consuolo, come accade anche in Beatitudini e Creature. P. 30.
In questa lirica si dice che la bellezza, passata indenne per i disastri planetari, adesso è lì davanti a lei, la poeta, ad insultare la sua oscurità. Ma lei si esorta tuttavia a serbare “la memoria dello sguardo” e “il precetto della sua nascita”, perché alimentino la sua poesia. Di lei – la poesia traduce – che, pur non sentendosi bella, è poeta e, come tale, ha accesso alla bellezza, essendone la creatrice. P. 44.
Altro tema filosofico affrontato è il quid sit, sia della poesia stessa, che nella meraviglia di tutti, riceve una sua definizione, sia di altre cose, come appunto nelle Beatitudini, or ora nominate. Qui la poesia cancella tutto intero il concetto della vita come dono. E pigliando aire dal Discorso della Montagna, lavora a dimostrare che non c’è alcun regno di Dio per i poveri di spirito, ma tutto si riduce ad essere cosa di quaggiù, lungo trame che incessantemente ordisce la morte, in vista del sepolcro. Là si cancella stesso la poesia, senso dei sensi, come un lamento inutile dinanzi alle promesse della religio. Storia questa onde nasce il tempo, che è solo dato in pena gratuita agli umani che hanno intelletto, mentre vuota di tempo è la vita delle bestie che intelletto non hanno, e resta dunque libera dai tormenti. Solo la poesia, ancora lei, pur caduca anch’essa, offre qualche sollievo. P. 36.
E ancora, a mostrare la bellezza della poesia, (Isole o fiumi): Splendida composizione sul nostro essere mondo e natura, piacere ed orrore, luogo – dice la poesia – di concepimento e nascenza, nati da “istinto e desiderio” e conclusi in “fango e argomento”, possibile argomento di chi, dopo noi, di noi parli o ne abbia intento e occasione P. 38.
Neve: altra bella idea di composizione: già dal titolo la poesia trae il glaciale dei rapporti, pure in una sorta di laudatio amorosa. Esplicitamente essa è indirizzata a un uomo, ma improvvisamente poi si volge alla poesia, fatta persona di natali ignobili e di “ossa pestate in un mortaio eterno” a dire le vicende tragiche onde essa nasce, insinua la Poesia, dicendo poi che la poeta si ritiene ridotta a innamorarsi solo di essa poesia, che pure essendo una gran cosa, al mondo non val nessuna pena. P. 46.
Altro pregio della poesia di Francesca è l’efficacia tecnematica, la quale si misura dalla potenza delle operazioni di poesia che ne conseguono. Qui è possibile solo qualche esempio, anche perché il mezzo migliore per apprezzare questa dote è la lettura diretta, da farsi preferibilmente nel raccoglimento di se stessi. C’è una novità nel campo tecnematico, ed è che fra i tecnemi compaiono, insieme alle rime, digrammi, trigrammi, repetitio, neologismi e varie forme allitterative con la stessa collocazione che hanno le rime e la stessa loro funzione, sempre con esiti operazionali molto efficaci. Quanto alle rime, un esempio può essere la lirica I vecchi, dove la rima interna tra storia e memoria muove la poesia a trascinare la devastazione dall’una all’altra cosa, sicché la storia risulta devastata come la memoria. Inoltre, la rima tra affanno, vanno e danno induce la poesia a fare dell’andare dei vecchi un affanno grave, e di qui il diventare dei vecchi a poco a poco macchine rugginose in cui già trema lo sconquasso della fine, e la vita diviene un interrarsi graduale e irreversibile, senza più memoria del mondo e fuori della memoria mondana. P. 32.
In Gioielli, abbiamo l’esempio dei trigrammi, semplici e raddoppiati, come “crocchi” e “incroci”, da cui viene un senso di arido e bruciore, onde la poesia ricava un’accadenza generalmente aspra, in cui anche le gioie che dànno i gioielli, le sospirate “gioie”, sembrano colpi di malasorte, che rimandano ai “martiri”, vale a dire “i minatori / che s’immolarono per loro/ per l’oro”. P. 34.
Ne L’ombra del male, valore tecnematico ha la repetitio, che si fa ossessiva, come di malauguroso fantasma dal quale non ti puoi liberare. Ombra. Del male. Che ti segue. Si tiene ai tuoi panni. Ti s’impersona. Che sai essere tuo male e tuo danno e non riesci a tenerlo dentro. In te. E ti sfugge. Ed avvelena prima te. E poi il mondo in te. Senza volere. Senza il tuo volere. P. 40.
Sciarada è un’auto-allocuzione, che sembra un severo esame che la poeta fa di sé e della sua fase di discesa, osservata solo nella sua negatività, sicché la chiusa è stesso chiusura definitiva del sé, assolutizzata tramite neologismi, rime e varie forme allitterative. In convento, dice a sé la poeta, ma la poesia corregge in erasione del sé. P. 42.
Ne Il male, i tecnemi più efficaci sono le rime e le assonanze, molteplici e variate, con varie operazioni di poesia. Ma la macro-operazione consiste nella presentazione della malia sessuale come sommo Male, che s’insinua dovunque a stornare l’agire, a inquinare le vite, esso che pure è delizia e piacere sommo, vita che serve a generare altra vita. P. 48.
Dicevamo che per apprezzare le operazioni di poesia occorreva la lettura diretta e appartata. Ne diamo tuttavia qualche saggio, appunto per invogliare alla lettura.
Notti e notti: Storia di solitudine, che muove la poesia alla cancellazione del mondo dietro l’ineludibile assenza della persona che lo suscitava col suo solo apparire. Fino a chiudere anche il sé restato deserto. P. 56.
Nella lirica Al fratello perduto la poeta narra la costante, inconsapevole attesa che il fratello morto ritorni a vivere. Ma vivo è comunque il ricordo della di lui morte che appare come un misto d’ossa e sangue. Forse prima lui usava dire di non avere da aspettarsi altro nella vita che la morte. Ora più neanche quella. E ci son certi gesti suoi, incancellabili, a mantenerlo ancor vivo nella memoria. A renderli credibili, la poesia trasforma la di lei mente in un palcoscenico, ove tutto ciò si avvera come spettacolo, che è cosa che si vede (specto) pur non essendo vera. P. 62:

Oggi si chiude in cielo il tuo venire,
L’ira della mia attesa si fa vampa
E non rimane adesso che gioire,
Perché ritorni pellegrino a santa.

Santa di pezza di fronte al tuo patire,
Che si fa ossa e sangue, che non canta
Il tuo perenne, immobile dormire,
Senza più che la morte che ti avanza.

Smetti il tuo broncio, scosta dei capelli
La frangia accesa in sole con le dita,
Fa che ritorni in volto quel sorriso,

Come un lampo di fiamma tra gli orpelli
Di nubi d’oro, e fammi che il tuo inviso
Destino si rivolti, alla schiarita.

Il giorno: Con la fine del giorno, l’ansia si precipita su di lei come uno sparviero, mentre il sole precipita nel buio e le acceca le pupille piene di passione: le resta solo da sperare qualche illusione che la inganni fino a morte. La poesia, passando, si specchia in quel tutto, sorride e va via. P. 67.
Amore e dolore: Qui la poesia ci affigura amore come furia di difficile continenza che, se inappagato, si strabuzza a dolore. Anche per il fatto di non essere compresi. Ché vorremmo esser rapiti nella sua tempesta, e invece siamo lì, magari tra “dileggi e risa” del mondo. O così ci pare. Sicché il mondo è fatto barbaro dalla forza stessa, possente, che lo trae in essere. P. 41.
Ultima preghiera: È la poeta che per l’ennesima ed ultima volta prega la Vergine, colei che fu senza peccato, e concepì per prodigio di Dio, e dunque fu senza quel male lì che è il piacere sommo. Che entri nella città profondamente malata di quel male, ne la liberi, liberandone anche lei, la poeta, “venuta al mondo invano/ senza un membro sano”. P. 50.

Bellezza della poesia

Il pastore: È la rappresentazione di un coito. A dirne la bellezza, la poeta lo colloca tra eventi vari di luce splendida, in cui han parte metalli di pregio, momenti luminosi ed eventi astrali. Tutto in un silenzio stellare, appena mosso da voci di agnelle e voci di natura, tra cui “l’ansito inestinguibile/ del fiato”. P. 54.

Inverno in maremma: La descrizione della Maremma come luogo infero e dunque senza luce né speranza di luce, luogo che la poesia rimuove e rimpiazza con la vita di lei, che si riduce a “silenzio eterno”. P. 71

La pagina bianca: Tutta l’ansia del mondo scroscia sulla sua pagina come pianto del suo sangue. La poesia ne contempla lo spettacolo, slargandolo infinitamente a misura cosmica nel cuore di chi legge. P. 72.

La casa: La sua casa ora abbandonata anche dai fedeli animali, rimpicciolita dal vuoto che vi si è fatto e che la poesia comunica anche alla luna, che resta a illuminare ciò che dianzi era un guado per elefanti, vale a dire le persone fatte grandi dal suo cuore. P. 73.

Per un poeta curdo e per tutti i senza patria, p.18: È un sonetto di tale bellezza – al di là del significato e del senso – che l’acume critico si disarma e lascia che l’anima si delizi da sé. Non sai perché il cielo divori le ossa della pioggia, ma v’è una bellezza certa, naturale, nei fili di pioggia che si cangiano in ossa diluentisi nella luce del cielo, e nell’angelo di piume che si spoglia, con le piume che piovono giù anch’esse, con le lacrime e tutto.

La poeta: la poeta devastata ma con il cuore così in alto “che presto fece tutti quanti mesti”! Anche qui, la poesia fa bellezza? Sì, con in più una luce dantesca, ed anche una magia dello stare P. 19:

Sedemmo a una tavola una sera
lei dirimpetto a me, scontrosa e chiusa,
con l’ingombro del corpo che affannava,
poi levò voce calma e un poco opaca
a difendersi da un laido che attaccava,
contro di lei irato si scagliava
sì follemente che irato si traeva,
mentre un poeta a capotavola taceva,
stretta come una bimba al suo cappotto
nella sera invernale, devastata,
il volto enfiato e gli occhi come pesti,
le spalle curve e il cuore tanto in alto,
che presto fece tutti quanti mesti,
nell’urlare stizzoso di quel bieco,
nella lotta ideologica affannata,
nella morsa dei sensi arroventata.

Domenico Alvino

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