Un libro emozionante queste “ Beatitudini della malattia” proposte da Roberta Dapunt, poetessa che vive in val Badia, lavora nel maso di Ciaminades, scrive in ladino e che pubblica per Einaudi, la quale “ cerca di far emergere il malato da quel mondo di scura assenza nel quale si trova sprofondato e che fa avvertire a chi lo deve assistere tutte le difficoltà delle cure.” I versi di Roberta Dapunt si snodano pur con grazia tra angoscia e armonia. “Da un lato c’è un percorso tormentato attorno a inquietudini religiose, preghiere che non placano, immagini di morte; dall’altro il senso di sacrale purezza che risiede nella terra, nei ritmi della natura, nella vita di montagna e nei suoi riti che legano insieme le persone, i loro gesti senza tempo, gli animali, il silenzio. Il che permette di attraversare una realtà multiforme senza schematizzarla in moduli precostituiti e automatici.
A chi pensa che io non sia di oggi,
io dico che il mio stare ad ascoltarlo è oggi.
Non è ieri, non sarà domani la mia attenzione,
bensì oggi. Oggi sono e sto qui davanti al foglio di carta,
sente forte il graffio di ogni mia parola.
Che da esse parte l’intimità quotidiana del mio corpo,
il suo nudo guardarmi è aderenza indubitabile alla realtà.
Da lui soltanto la mia vista, da lui il mio udito,
nelle sue mani l’umido nero degli orti in questo luogo
e sotto i piedi il fruscio verde e nel dicembre
il freddo a mostrare chiare le stelle.
Dunque, so di non errare. Non mi perdo,
finché posso tenermi forte a questo.
Una foglia. Un’altra
di diverso colore
nella mani dalla carne sfiorita
le tieni inespresse,
costrette solamente alla loro bellezza.
Mi sorridi e d’intorno sei sospensione del tempo,
un filo d’erba che ignora il suo prato.
La mia Confessione fedele
Curo i prati come il pavimento della mia casa,
guardo l’erba come il tappeto sul quale
allignano i figli e un tempo contento.
Non vi è obbligo di appartenenza.
Ogni filo d’erba è una speranza,
il diritto per l’umiltà di un altro
che l’ha preceduto e che io ho falciato,
raccolto e scelto per necessità e dottrina.
Pulire i prati è levare loro i sassi e contarli,
come un atto di compassione
ad ogni riverenza che gli concedi.
È raccogliere terra sputata dal fondo e seminarla,
di nuovo, in segno di generosità verso essa.
È forse un lavoro ingrato e fermo al punto di partenza
Ma è anche la mia confessione fedele,
la coscienza che mi riconosco addosso,
di essere qui anche per questo.
Orazione per la mente
Proteggimi dal dimenticare, proteggimi dal non sapere,
dal non aver visto, ascoltato, visto, guardato.
Favorisci in me il pensiero, non sia mai ferito.
Possa lo spazio che ho dentro la testa essere scontento,
perché troppo vuoto anche nell’ultimo giorno.
Proteggimi dalle camere buie, dall’ordine perfetto della mente,
niente passi oltre queste mie pareti, tutto m’irrompa.
Siano gli occhi e le orecchie il varco tra me e l’esterno,
rimangano le infelici domande e le risposte.
La volontà mi sta stendendo.
Riparami dal nulla, difendimi dal non essere,
meglio la morte. Meglio la morte.

Roberta Dapunt
Ho avuto occasione di leggere alcune delle poesie di Roberta Dapunt “Le beatitudini della malattia” ed. Einaudi, in un luogo e in un’occasione inconsueta, all’Alzheimar fest di Gavirate, (sett.2017): un nome che sembra una contraddizione, un ossimoro gigantesco. La parabola di un nome diventato sinonimo di malattia. In fondo il nome Alois Alzheimer ha un suono rotondo, gradevole… è quello di un neurologo psichiatra tedesco che nel 1901, interrogò con cura una sua paziente, la signora Auguste D. di 51 anni inspiegabilmente sofferente. Strani i suoi disturbi cognitivi, vuoti di memoria, improvvise perdite del senso della realtà : la signora Auguste D. fu la prima paziente a cui venne diagnosticata quella che in seguito sarebbe stata conosciuta come malattia di Alzheimer. Negli anni successivi vennero registrati in letteratura scientifica undici altri casi simili; nel 1910 la patologia venne inserita per la prima volta dal grande psichiatra tedesco Emil Kraepelin nel suo classico Manuale di Psichiatria, venendo da lui definita come “Malattia di Alzheimer”, o “Demenza Presenile”, dopo il 1977 ufficialmente esteso a tutte le forme di Alzheimer… Il nome di Alzheimer ha cessato di evocare la sua gradevolezza uditiva e si è caricato di angoscia sia per chi ne è vittima sia per i parenti che condividono l’esperienza. Incertezze e angosce. “Dimmi e dimenticherò,/ mostrami e forse ricorderò,/coinvolgimi e comprenderò.”(Confucio)
Tutta la raccolta poetica “ Le beatitudini della malattia” ha un destinatario-protagonista privilegiato, incarnato nella persona malata di Alzheimer di nome Uma: la madre, forse, o la nonna della poetessa. Un’anziana, molto amata e rispettata, che ha perso i contatti con la realtà esterna, e con il suo stesso corpo (“da un giorno all’altro/ non hai più detto, non hai proferito, non risposto, non/ hai capito”). Ma questa madre antica, la quale osserva il mondo senza vedere, in piedi immobile accanto alla finestra, o seduta in attesa del niente, era stata un’ infaticabile lavoratrice dei campi, una forte donna di montagna, mater familias che radunava intorno a sé la sua gente per il rito quotidiano del pranzo, o per il rosario serale, e per la Messa alla domenica. Persona dalla fede rocciosa e semplice (“fossi io la fede sceglierei te come fortezza”), viveva in assoluta armonia con il suo ambiente: monti innevati, stalle, larici, abeti, e tranquillo silenzio. Un mondo scandito dai riti religiosi – Vespri, Quaresime, Pasque – che ora si ripropone in un’inedita beatitudine, ad aggiungersi a quelle evangeliche: la beatitudine della malattia. I versi testimoniano la dedizione umile di chi ancora sa affaccendarsi come Marta, profumare il corpo come Maddalena, dissetare come la Samaritana : “Chiamami quando avrai finito di lavarti./ Ti vestirò le calze, ho posto le pantofole ad aspettare/ i tuoi piedi dalle dita intrecciate”. Il tempo: tutti sanno ricordare quello che è appena avvenuto… ma dimenticarlo mentre avviene è assolutamente straordinario. Dice la poetessa: – “Sai cosa è sempre Uma?” Non ha risposta lei, che della malattia tiene in mano e sulla bocca il proprio silenzio. E dunque la mia risposta in solitudine a me stessa: “È sempre il mio stare con te, il tuo rimanermi accanto.” Sono questi per me, versi della realtà cruda di una malattia e senza fortezza alcuna, non quella della fede, che non mi appartiene.- Alice nel suo paese delle meraviglie chiedeva a Bianconiglio:-Ma quanto è ? E lui rispondeva: < A volte, solo un secondo>. Ecco, sapienza antica. È una situazione ai limiti, che smonta le normali griglie conoscitive perché è a sua volta smontata, fragile, bisognosa di protezione e per questo forte, vera, più dentro alla realtà di quanto si possa pensare. I versi di Roberta Dapunt si snodano tra angoscia e armonia: niente ali per il paradiso / né una vanga per l’inferno ci è concessa… Ne risulta un passo irregolare, febbrile e pacato insieme: una sapiente zoppia che permette di attraversare una realtà multiforme senza schematizzarla in moduli precostituiti e automatici. Questo slegamento, questa distanza, creano alla fine l’esigenza di una delicatezza nei confronti della persona malata/anziana ma allo stesso tempo crea nella persona malata la capacità (in un certo qual modo serena) di conoscere la delicatezza del reale. È una situazione border line che smonta le normali griglie conoscitive perché è a sua volta fragile, bisognosa di protezione e per questo forte, vera, più dentro alla realtà di quanto si possa pensare. Religiosità? una religiosità molto particolare. Dice, rispondendo a un’intervista:
“Nelle mie scritture non c’è ansito religioso. La sofferenza d’animo che i miei versi raccontano, non è necessariamente religiosa. Fa parte piuttosto della mia natura. La cultura religiosa mi ha invece fornito un vocabolario, una topografia a cui spesso faccio riferimento nelle mie espressioni. L’isolamento, da me scelto, è diventato una condizione oggettiva, aderente alla realtà. La mia realtà sono innanzitutto i luoghi di abitazione, che non sono privi di persone intorno, ma che possono essere molto lontani da ciò che succede fuori e ogni giorno. Più che isolamento è la realtà di una separazione. In essa ci sto bene.”
Il corpo dunque, tremante, senza la mente, bisognoso di protezione, e la coscienza di quanto sia devastante la malattia alla quale lei, inerme, assiste quotidianamente.
Riparami dal nulla, difendimi dal non essere,
meglio la morte. Meglio la morte
…Voglio così come il sorbo tra i larici e gli abeti
coprirmi di infinita neve. Di bianche coltri
l’abbraccio, chiusa irreparabile del freddo, ragionare.
Spalancare le labbra e lasciarmi nevicare
lì in fondo alla bocca, infelice incontrarmi
e sciogliersi fiocco dopo fiocco fino a congelare
ed infine raccogliersi, riempirmi.
Maria Grazia Ferraris