“Il treno” di Marina Cvetaeva, commento di Maria Grazia Ferraris

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IL TRENO

Se non baionetta – allora zanna, mucchio di neve, raffica di vento –
verso l’immortalità ogni ora c’è un treno!
Arrivo e so una cosa soltanto: stazione,
non vale la pena di disfare i bagagli.

Verso tutti, verso tutto – con l’indifferenza degli occhi
per i quali la fine è l’immemorabilità.
Oh, come è naturale salire in terza classe
via dall’asfissia delle stanze delle signore!

Via dalle costolette riscaldate, dalle guance
raffreddate…non si può ancora più in là,
anima? Magari nello scolatoio di un lampione –
via da questa fatale falsità:

—————dei bigodini, dei pannolini,
—————dei ferri roventi per i ricci,
—————dei capelli bruciacchiati,
—————delle cuffie, delle incerate,
—————delle ac-que-di-co-lo-nia,
delle familiari felicità
da cucito (Kleimwenig!…),
“E’ stata presa la caffettiera?…”
di roba ad asciugare, cuscini, matrone, bambinaie,
asfissia delle bonnes, dei bagni.

Non voglio in questo scatolone di corpi femminili
aspettare l’ora della morte!
Voglio che il treno beva e canti:
la morte è pure lei al di fuori della classe!

Via allo sbaraglio, verso lo stordimento, la fisarmonica, la fatica, l’inutilità!
“Come s’appiccicano questi anticristi?”
così che qualche randagio: “All’altro mondo…”
senza aspettare, dico: “Meglio!”

Piattaforma. – e traversine. – e l’ultimo arbusto
in mano. – lo lascio – è tardi
Per tenersi su. – traversine. – di quante labbra
sono stanca. – guardo le stelle.

Così, attraverso l’arcobaleno di tutti i pianeti
scomparsi – qualcuno li ha contati? –
guardo e vedo una cosa sola: la fine.
Non vale la pena di pentirsi.

Marina Cvetaeva

(trad. di P. A. Zveteremich) 6 ottobre 1923

Marina_Cvetaeva

Marina Cvetaeva, 8 ottobre 1892 – Elabuga, 31 agosto 1941

La poesia è della grande poetessa russa Marina Cvetaeva: è stata scritta quando l’Autrice compiva il suo trentunesimo anno. Aveva già un’ampia e dolorosa storia alle spalle. Nell’ottobre del 1923 Marina Cvetaeva si trovava in Boemia. Aveva raggiunto il marito Efron, ufficiale Bianco sconfitto che aveva abbandonato la Russia bolscevica, il quale aveva avuto la possibilità di studiare all’università di Praga. Le condizioni di vita sono precarie. Riesce ad ottenere un modesto appannaggio come esule russa, dal governo ceco. La Cecoslovacchia, sorta allora dal rimescolamento della prima guerra Mondiale, era infatti generosa di sussidi con i profughi russi. Praga era diventata un centro intellettuale di grandissimo prestigio. Sarà poi, mutate le condizioni di vita, seguita dal marito, a Parigi, nel 1925, dove vivrà in condizioni disperate, di vera indigenza, venendole meno, per il suo estremo anticonformismo, ogni aiuto di collaborazione alle riviste dell’emigrazione russa. Toccherà con mano il significato della guerra tra i poveri, la lotta per la sopravvivenza, la miseria regina. In Francia pubblicherà, tra altre opere, Dopo la Russia, la più importante e significativa delle raccolte delle sue poesie. Il suo isolamento, la sua solitudine, le sue migrazioni in paesi europei diversi ed in misura diversa ostili, la sua diversità da tutto e da tutti, dagli stereotipi conformistici imperanti è ben avvertita ed espressa nella lirica del ’23: Il Treno. Il treno è simbolo e metafora. La metafora del treno,(una figura del pensiero) gioca un ruolo strutturale nel discorso poetico, diviene quasi il centro generatore di esso, ma la forza simbolica dell’immagine metaforica sulla quale la lirica si misura e respira crea armonia, corrispondenze, analogie.anna-achmatova-marina-cvetaeva-5-638 Una specie di partitura musicale. Dice con la metafora del treno, paragonato alla sua vita, in continua peregrinazione, legata a stazioni sempre provvisorie e ai bagagli, i fagotti che non val la pena di disfare, tutto il senso di precarietà, dei soggiorni provvisori, di solitudine, di difficoltà a scrivere e lavorare, ma dice anche il suo rifiuto ostinato dei modelli di vita borghese. Esprime vigorosamente la sua anima ribelle. Scrive a Boris Pasternak dalla Francia, e sembra ribadire il tema che la ossessiona : “ La vita è una stazione, presto partirò….”; spiegherà poi al poeta allarmato dal significato letterale e anticipatorio della resa finale, che i continui trasferimenti nello spazio sono la forma concreta e tangibile dalla fuga dalla vita, ai cui obblighi obbediva per dovere, con senso di distacco e di estraneità, ma per necessità, dalla quotidianità: “ bigodini, pannolini/ cappelli, cuffiette,/ eau-de-toilette,/ di felicità volgari,/ balie, bagni, bonnes…”: e ancora: “odio gli oggetti e la loro ingombrante presenza. Come un uomo che ha dato alla moglie la parola d’onore che sarà tutto in ordine”… Assistiamo qui all’ingresso a una nuova figura del discorso, quella della allegoria: la metafora muore come tale e si apre all’interpretazione dilatata che unisce il concreto del quotidiano che si spoglia del contingente ed approda al generale della vita, al suo senso vero, benché riposto, esaustivo. Il pensiero ha trovato la sua forma, la sua partitura. Una sfida lanciata alla consuetudine, al perbenismo, alle forme accettate, un’impresa di rivolta e di coraggio, spesso di oltraggio, anche verso se stessa. Doppio il binario su cui si muove. L’Autrice aspira alla verticalità, all’ascesi, sia nella poesia che nei rapporti umani “oltre la luce dei pianeti/ormai scomparsi”. Abiura al corpo, zavorra terrestre, cercando una nuova geografia dell’assoluto. L’ espressione – in un linguaggio originalissimo, spezzato,- pur accettando le varianti basse, popolari, – bigodini, pannolini, la caffettiera?… roba ad asciugare, cuscini, matrone, bambinaie, asfissia delle bonnes, dei bagni…- riesce a raggiungere musicalmente con la sua voce solista l’armonia delle sfere del sublime, manifestandosi indirettamente erede innovativa della grande poesia di tradizione tedesca e russa. Si apre così all’attenzione del lettore la seconda linea di ricerca espressiva: l’ immortalità (la direzione del treno), l’ immemorabilità,(il treno che beve e canta), l’ inseguimento dell’anima, lo sguardo volto alle stelle, all’arcobaleno dei pianeti, alla fine: la morte ha la sua anima aristocratica, e la vuol conservare: è fuori classe. Scriverà la Cvetaeva per definire la sua ricerca : “La parola è Psiche” .
Psiche è l’anima del poeta il cui compito è di “elaborare il visibile per servire l’invisibile ..: conoscendo ciò che non si vede, non conosce ciò che si vede, ma ciò che si vede gli serve continuamente per i simboli“. Là dove “il tempo del segreto” non coincide con “il tempo della storia” : è momento di conoscenza del mondo. Un “ bisogno” intimo che è anche bisogno della musica, di armonie e dissonanze, che Marina esercitò nella concezione fonica della poesia, nella ricerca del ritmo, eredità del Romanticismo, della Germania, patria della madre musicista, ma si chiarisce manifestando l’anima complessa della poetessa che scriveva a Anatolij Steiger : “ Sappiate che la posta di ogni mio gioco sono sempre stata io stessa: fino all’immortalità della mia anima. E ho perso sempre io: con gli altri ho sempre perso me stessa, ma siccome quel me era la mia anima immortale, per l’altro era troppo, e spesso la posta in gioco restava sul tavolo- oppure veniva gettata via –col gomito- sotto il tavolo. Si può soltanto avere pura della serietà del mio gioco.” Marina C. incarna la polifonia delle voci, il proliferare delle maschere poetiche, la consapevolezza del poeta di essere un paria: “Una voce simile non può piacere a nessun coro, e l’isolamento estetico assume dimensioni fisiche. Quando un poeta crea un mondo suo proprio diventa un corpo estraneo che viene preso di mira da tutte le leggi: gravità, compressione, rifiuto, annientamento”.

Maria Grazia Ferraris

 

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