“Il telefonino”, racconto inedito di Corrado Calabrò

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IL TELEFONINO

Con gli occhi ancora quasi chiusi tastò accanto a sé il letto matrimoniale. Nel dormiveglia aveva avuto l’impressione che ci fosse qualcuno nel letto, o almeno la sua impronta. Aprì gli occhi, accese la luce, fermò la sveglia: non c’era nessuno, naturalmente.

Già alzarsi alle sei e mezza era una violenza; da qualche tempo, poi, si aggiungeva quel senso di contrarietà, l’impressione di dover sempre remare contro.

Andò nel bagno, si lavò la faccia e fece per darsi una ravviata ai capelli. Ma dov’era la spazzola? E i pettini?

“Maledetta Lourdes!” stava per esclamare ma si trattenne, accorgendosi che suonava come una bestemmia. Solo lei poteva tenere una donna come Lourdes. Era fidata, certo, ed era una comodità lasciarle le chiavi di casa. Veniva a fare i servizi ad ore quando poteva, o meglio quando voleva. Puliva più a fondo di quanto non facciano di solito le cameriere lasciate sole in casa. Ma dove passava Lourdes era come se fosse passato un tornado. Spostava ogni cosa ; e non si ritrovava un solo oggetto al suo posto. Qualche volta che Fiamma l’aveva incrociata e gliel’aveva detto, Lourdes se l’era presa a male, quasi come se l’avesse accusata di rubare.

In cucina la finestra era aperta ma l’aria ristagnava già a quell’ora del mattino. Il cortile del condominio era poco più che un pozzo. L’attendeva un’altra giornata pesante. Il profumo del caffè la rinfrancò. Ne bevve una tazzina nero e versò il resto in mezza tazza di latte. Alzò gli occhi, sentendosi guardata. Dalla finestra di fronte, un piano più su, una donna anziana l’osservava con i gomiti sul davanzale. Fiamma si ricordò di essere senza slip. A Giulio piaceva che facesse colazione così – in camiciola e senza mutandine -, anche se lui, la mattina, andava via di corsa più di lei. Ma qualche volta…

“Che ci avrà da guardare quella stronza?”. Quando c’era Giulio non passava giorno senza che se ne stesse appollaiata alla finestra. Poi l’aveva vista sbirciare stando un po’ discosta. Perché la gente ama tanto spiare nella vita degli altri? Che c’è nel quotidiano altrui che ci possa attrarre, incuriosire? Non è tutto così usuale, così risaputo? Che gusto c’è a vedere una coppia prendere il caffellatte, questionare?.

Discutevano spesso, lei e Giulio, ma senza acredine. Finché non era insorta la questione. Era stata intempestiva, impaziente? Dopo sei anni di convivenza… Certo avrebbero anche potuto continuare così. Avrebbero potuto? E per quanto tempo? E se un giorno, all’improvviso? Ma che DICO? Perché, se fossero stati sposati non sarebbe stato lo stesso? Un bel dì, all’improvviso , un fil di fumo…

Il fatto è che ci sono momenti in cui abbiamo bisogno di certezze, di qualche punto fermo di riferimento nella nostra vita. Erano quattro mesi che il posto era vacante. E Fiamma ne aveva tenuto la reggenza. Poi, all’improvviso, avevano nominato un altro. Forse non era stato il momento migliore per porre la questione a Giulio. Soprattutto non era stato il modo migliore. Era troppo tesa. In amore non si pongono ultimatum. E in ufficio? Nemmeno, se non si hanno alternative.

A Giulio quella vecchia dava fastidio. Ma per Fiamma era stata una presenza non sgradita, per qualche tempo. A Roma non aveva parenti. Quella donna negli anni, interessata al loro rapporto di coppia, era un po’ come una vecchia zia. E le era sembrato un segno di discrezione che si fosse scostata dalla finestra quando Giulio se n’era andato. Quella mattina però si era rimessa al davanzale. C’era qualcosa di arrogante, di maligno, di soddisfatto nel modo in cui teneva poggiati i gomiti sul davanzale. Che fosse stata lasciata anche lei dal marito o dal compagno?

E’ incredibile quanta soddisfazione prova la gente quando due si lasciano. Non c’è niente che li gratifichi di più, nemmeno il fatto che lui le faccia le corna. Le sue amiche non parlavano d’altro. Che una coppia abbia un rapporto intenso, anche conflittuale magari, ma con interscambio, con interazione di personalità, non gliene importa niente a nessuno. Veramente c’è un’altra cosa che dà un’enorme soddisfazione alle amiche: che un uomo ti freghi in carriera.

Andò a mettere la tazza sotto l’acqua corrente. Ecco cos’era che svegliandosi aveva cercato, tastando, accanto a sé nel letto: il feticcio del matrimonio!

Era ottobre, ma faceva caldo come in agosto. Ma almeno poteva andare in ufficio in bicicletta. Di solito metteva i pantaloni ma quella mattina indossò una gonna; anche un po’ corta, non cortissima, si capisce. Prese dal cassetto un paio di collant, ma poi li ripose; faceva un tale caldo! Del resto aveva le gambe ancora abbronzate. Le gambe, lunghe, scattanti, perfettamente modellate, erano la cosa più bella di lei, insieme con i lunghi capelli rossi.

Le piaceva pedalare, con la chioma rossa svolazzante. Quella mattina, però, aveva raccolto i capelli; no, non era giornata. Il traffico – come sempre, più di sempre – era impegnativo. Le macchine subiscono i motorini ma si rifanno con le biciclette. I motorini, poi, si fanno la legge a loro uso ed abuso: una prevaricazione continua. Fece un paio di frenate a rotta di collo. Mettendo bruscamente piede a terra, la gonna salì. Dalle macchine guardavano, un motorino fece una giravolta. Pedalando cercava di tenere le ginocchia accostate; ma non era così semplice. Doveva fare un po’ l’equilibrista. No, non era il modo migliore di affrontare una giornata di lavoro.

Tirò dritta passando avanti alla stanza del capo, quella che aveva occupato lei fino a qualche settimana prima. Ma la porta era aperta e il dottor Finocchiaro si alzò a metà sulla sedia e salutò con esagerata cortesia: “Dottoressa!”. “Fanculo” rispose Fiamma mentalmente, facendo tuttavia un cenno col capo. Anche se – ammise – lui non aveva colpa. Solo che era un mediocre, un conformista, un meticoloso; un opportunista – figuriamoci! –, ma più che altro un melenso. Da lui non veniva mai un’espressione fuori posto. Ma neanche un’opinione che non fosse scontata.

Forse Fiamma si era lasciata sfuggire con le amiche qualche parola di troppo nei confronti del direttore generale, che non era neanche lui un fulmine di guerra. E – puoi stare sicura – gliel’avevano riferita, altroché se gliel’avevano riferita! Forse, anche, aveva inciso quella vacanza. Erano ferie dell’anno prima, era suo diritto prenderle, e però quando si ha un posto di responsabilità i diritti, nella prassi, diventano condizionati, anzi subordinati. Ma Giulio aveva solo in quel periodo le due settimane che occorrevano per il Tibet. E il Tibet era diventato per Giulio una fissazione. Era partita senza aver ricevuto risposta scritta alla sua domanda di ferie. Così aveva perduto l’incarico dirigenziale e Giulio. Come non ci si rende conto dei passaggi chiave della nostra vita! In Tibet la vita era così rallentata, l’aria ti riempiva i polmoni, la vista spaziava così lontano, così dall’alto….

“Fanculo” ripeté. Provò a immergersi nel lavoro ma si sentiva alterata. Non riusciva a mandarla giù. Certo pagare un avvocato… “Posso fare ricorso straordinario” pensò. Si mise a scriverlo. Ebbe l’impressione che non venisse male. Ma doveva farlo vedere a qualcuno del mestiere. Un avvocato, no. Altrimenti tanto sarebbe valso fare ricorso giurisdizionale. A qualcuno che se n’intendesse. “Squinzio!” le venne in mente. Era stato collega di suo zio, il famoso presidente Perassi. Era stato in Sezione con lui. Lo incontrava di tanto in tanto, anche dal giornalaio, perché abitava vicino casa. Si mostrava pieno di riguardi. Gli telefonò ed ebbe la fortuna di trovarlo. Gentilmente le fissò un appuntamento per quello stesso pomeriggio, sul tardi.

L’appartamento di S.E. Squinzio era al primo piano ed era piuttosto buio. Lo studio. benché grande, era sommerso di fascicoli, fascicoli e libri, nelle scaffalature, sulla scrivania, su un tavolino basso, sulla consolle, sul divano, sulle sedie, persino per terra. Fiamma si sedette su un angolino di sedia, ingombra di fascicoli, con un quarto del sedere. “Oh, scusi, scusi” fece tutto manierato S.E. Squinzio. “Le carte ci fanno la guerra. E spesso la vincono.” Mentre l’ascoltava Squinzio diede una scorsa rapidissima alla bozza di ricorso straordinario. “Certo può farlo. Ogni cittadino…Le probabilità? Difficile dirlo. C’è la discrezionalità… L’importante in questo momento è dare sfogo a questo suo stato emotivo. Spesso si fa ricorso anche per liberarsi di un risentimento – per carità sacrosanto – ma che può diventare un’ossessione. Poi, parecchi interessati il loro ricorso nemmeno lo coltivano. Il suo ricorso? Può andare; nel ricorso straordinario si tira un po’ via, non si pretende più che tanto. Lo chiamano il ricorso dei poveri… Una volta anch’io feci ricorso; sì proprio ricorso straordinario. Non per un interesse pratico, per carità. Per una questione di principio. Tanto che lo feci sotto falso nome; per cui lo vinsi ma non potei giovarmene. Metterci le mani? No, questo no. Sa, la sacralità della funzione… No, non occorre pagare la tassa: si tratta di pubblico impiego.”

Fiamma scese le scale più perplessa di quanto non le avesse salite. Inforcò la bicicletta. Che tartufo! Ce l’aveva con Squinzio non tanto perché aveva declinato di darle una mano, quanto per gli argomenti del cavolo che aveva tirato fuori; e per l’affettazione con cui glieli aveva conditi. Il ricorso dei poveri… E quella storia del suo ricorso straordinario! Come poteva essere? Fare ricorso sotto falso nome?! A quale scopo? E poi non era fare un falso, non era commettere un reato? L’aveva presa per i fondelli. Ma che, credeva che fosse proprio una cretina?

Che stronzo, pensava. “Stronzi!” urlò: due ragazzi in motorino l’avevano stretta e quasi la facevano cadere. “Ah, ah” sghignazzarono, vedendo che s’era scomposta. Che figli di puttana! Non erano nemmeno tanto ragazzi. Continuarono a farle serpentine davanti e di lato, stringendola all’improvviso. Per fortuna casa sua era proprio vicina; l’ultimo tratto lo fece pedalando sul marciapiedi.

Aprì, rimise le chiavi in borsa, introdusse la bicicletta e fece per richiudere il portone. Ma una spallata lo spalancò. Si ritrovò nell’androne con i due giovinastri. Interpose la bicicletta; uno dei due l’afferrò dal telaio e cominciò a tirare; Fiamma la teneva dal manubrio. Intervenne l’altro tirando e storcendo la bici e con essa i polsi di Fiamma; dovette mollarla.

In due le vennero addosso; uno cercò di afferrarla per un braccio, l’altro le infilò la mano sotto la gonna. Fiamma gli rifilò un ceffone che quello ricambiò. Spostando il busto riuscì a scansarselo; non del tutto, però: il colpo la prese di striscio tra il collo e la nuca. Si mise a correre verso la scala. La rincorsero, le si aggrapparono addosso cercando di trascinarla a terra. Si mise a gridare. Era convinta che si sarebbero aperte immediatamente le porte su tutti i pianerottoli; a quell’ora la gente era in casa. Ma non una porta si aprì.

“Sta zitta” le sibilò il più grosso e le appioppò un pugno in bocca. Questa volta il colpo giunse a segno; non proprio in bocca perché Fiamma aveva girato la testa, ma sulla guancia. L’altro intanto l’aveva afferrata dal collo, e ficcandosi dietro la sua schiena, l’aveva fatta cadere e ora cercava di trattenerla mentre Fiamma si divincolava. Quello grosso tirò giù la cerniera dei pantaloni, ma poi non procedette oltre. Forse non era in condizioni di esibirsi. La strattonavano in tutte le maniere, cercando di strapparle le mutandine. Ma Fiamma scalciava di brutto. Le serviva aver fatto kick boxing in palestra. Fu quello smilzo a farsi sotto col sesso protruso. Fulmineamente Fiamma gli sferrò un calcio proprio lì. Francamente provò un vero piacere a colpirlo nel sesso; lui per tutti i maschi prevaricatori come lui. Aveva però perduto le scarpe per cui il colpo risultò meno efficace. Bastò comunque perché il teppista si ritrasse torcendosi e bestemmiando.

Fiamma fece per rialzarsi e per correre su per la scala. “Aiuto” gridò con quanto fiato poté cavare. Un pugno pesante come una mazzata le si abbatté sulla bocca. Cadde e cadendo batté la nuca contro lo scalino. Sentì in bocca il sapore del sangue. Aveva quasi pensato di farcela ma ora constatava la differenza tra un combattimento ritualizzato in palestra e una colluttazione selvaggia con due teppisti.

Adesso era quello grosso a tenerla mentre l’altro cercava di divaricarle le gambe. Fiamma, però, era tutt’altro che doma: mentre quello si chinava su di lei, gli piazzò una ginocchiata nel mento. Un altro pugno le si stampò in faccia. Poi due, tre, quattro schiaffoni la stordirono. Il grosso la teneva, ma goffamente, tutto preso com’era dal tifo per la foia bestiale del suo compagno.

Fiamma si sentì sopraffatta. Il ragazzotto le stava addosso e l’incalzava da presso mentre quello grosso le teneva le braccia inchiodate per terra.

In quel momento squillò il cellulare. Fiamma non ci fece caso ma il grosso si mise a frugare freneticamente nella tasca di dietro; non riusciva a tirarlo fuori. Il telefonino continuava a squillare. Usando entrambe le mani il bestione lo trasse dalla tasca appena in tempo prima che cadesse la comunicazione.

Fu un attimo. Fiamma guizzò via e balzò su per le scale. Al primo piano suonò e bussò in tutte e tre le porte. Niente. Continuò di corsa per la rampa successiva. “Giulio, Giulio!” gridava, picchiando e suonando alle porte mentre il suo assaltatore l’inseguiva. Ne sentiva l’ansimare alle calcagna. L’altro, quello più grosso, stava parlando al telefono e veniva su lentamente.

Finalmente una porta si aprì al piano di sotto. Lo smilzo esitò, poi si ricompose e prese a discendere le scale, con indifferenza

Con le ginocchia che le tremavano Fiamma fece ancora una rampa. Sentiva la bocca impastata di sangue e un gran male alla nuca; per fortuna i capelli avevano attutito un po’ il colpo. “Mi hanno sfigurata” si disse.

La finestra sul pianerottolo era aperta: comodamente appoggiata sul davanzale con tutti gli avambracci, la spiona stava a osservare. Il suo sguardo ficcante si soffermò sul volto tumefatto di Fiamma. Di chiamare la polizia non le era passato nemmeno nei paraggi del cervello.

Corrado Calabrò

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