Il volume raccoglie il testo di una conferenza che Romano Guardini tenne nel lontano 1948 al Leibiniz-College dell’Università di Tubinga. La scrittura risente quindi dell’andamento del linguaggio “parlato” e l’autore non indulge in tecnicismi filosofici o teologici, ma assume il tono di una conversazione pacata pur se rigorosa. Nella Premessa del 1951 Guardini chiarisce che il compito dell’elogio del libro gli è parso necessario di fronte all’avanzare delle forze disgregatrici dell’antispirito che ne vorrebbero la scomparsa o comunque il controllo. Ma il libro ha accompagnato la storia dell’umanità e costituisce in quanto tale un oggetto complesso e significativo che spiega la relazione uomo-mondo. Sullo sfondo del libro che maneggiamo e leggiamo c’è infatti sempre l’uomo che dà testimonianza di sé nella forma archetipica della scrittura e nella costruzione di un manufatto del tutto originale che reca il profumo della sua presenza.
Nelle condizioni storiche date al tempo in cui Guardini compie la sua meditazione, proprie dell’immediato secondo dopoguerra e al formarsi in Europa di due blocchi politici contrapposti di Stati come risultato della guerra stessa, Guardini osserva che “ci basta anzi dare un’occhiata all’Est più vicino, per renderci conto di come sia addirittura un segno di dignità umana salvaguardata il poter liberamente disporre di libri”.
Questi “oggetti piccoli, eppure pieni di mondo” sono cellule viventi, seppur silenti, di uno sguardo profondo che ci appella e senza rumore ci invita ad interrogarli con riverenza e rispetto, e che richiedono un dialogo, una sintesi tra noi e loro. La sintesi si attua nella modalità dell’amore che non è solo, scrive Guardini, per quella “camera del tesoro” che esso è, non solo scrigno di un contenuto spirituale, ma anche come creatura, oggetto che è stato fatto dal nulla e che pretende cura, rispetto, dedizione anche nella veste corporea e fisica che assume.
E’ questo un punto importante e ricorrente che Guardini sottolinea più volte nel corso della sua conferenza:
chi ama il libro, prende in mano, col sentimento di una tranquilla familiarità, quell’oggetto che così si chiama, stampato su carta e rilegato in tela o cuoio o pergamena. Lo sente una creatura, che si tiene in onore e si cura, e della cui concretezza materiale si è lieti. Non è per lui solo il mezzo a uno scopo, sia pure il più spirituale, bensi qualcosa di pienamente compiuto in se stesso, saturo di significati molteplici e capace di dare con ricchezza.
Il libro e’ quindi un oggetto estetico nel senso che ha un volto che appare, che si può toccare, accarezzare, voltare ed ammirare, ancor prima di aver accesso al suo interno, al contenuto che esso cela. Ha quindi un abito che veste le nude spoglie delle parole e delle pagine. E’ questo un aspetto su cui Romano Guardini tornerà più volte nella sua conferenza. E se poi lo apriamo, siamo colpiti da quel meraviglioso processo della scrittura; troviamo impresse sulla carta figure che si aggregano e che chiamiamo segni e che, disaggregate, danno luogo a tratti ancor più piccoli che tendono ad unirsi e a ritrovarsi, come in un cammino infinito. Il segno grafico nel quale generalmente ci imbattiamo nella lettura, ha qualcosa di misterioso perché è preceduto da operazioni che semplificano un oggetto, che danno forma nuova ad una realtà. L’oggetto che abbiamo in mente e che viene evocato dalla parola si è calato nella rete della grafica e della scrittura da esso prendendo vita al nostro sguardo. Avviene nella scrittura un sottile e forte processo di integrazione che Guardini descrive:
Al tempo stesso però ognuna di queste piccole figure, compiute in se stesse, tende ad un sottile rapporto di integrazione con le altre; secondo un’inclinazione ad associarsi con esse. Sono per così dire atomi della figuratività, pronti ad unirsi in insiemi più ampi, e da questo collegamento nasce la parola.
Ma il processo continua e si arricchisce, le parole, cercano altre parole, si sospingono e si attraggono, facendo nascere la frase. Ed ancora la spinta all’associazione lavora creando periodi ed infine un’unità più ampia e variegata che è la pagina.
L’osservazione estetica della pagina ci rivela poi altri fenomeni che la rendono complessa, articolata, frastagliata; per es. la presenza dei segni di interpunzione, le lineette, il punto interrogativo, le note a piè di pagina e altri che configurano lentamente il farsi del pensiero dello scrittore. La semplice analisi della pagina ci dice quindi tante cose, essendo la struttura della frase “nient’altro che la struttura del pensiero e della sua enunciazione”.
Il procedere della conferenza di Guardini è tutto un alternarsi di considerazioni estetiche e spirituali sulla dimensione del libro. Per “estetiche” ci riferiamo alla forma greca del verbo aisthanomai, che nel ventaglio dei suoi significati significa anche percepire ed estensivamente vedere. Guardini si sofferma pensando ad opere del sedicesimo e diciassettesimo secolo, al frontespizio del libro a volte così bello da far ricordare la facciata di case costruite con nobile eleganza. E alle varietà delle scritture, alle forme elaborate ed artistiche di esse, come il gotico. Scritture così curate che destano ancora meraviglia, sintomo questo di vitalità della vita spirituale; in chi resta inerte, passivo davanti a tali meravigliosi processi significa che “a costui manca la parte migliore della vita spirituale: la capacità di essere toccati da un’entità, da un processo, da una forma e di mantenere in vita tale rapporto”.
La pagina offre una fantasmagoria di segni che non sono casuali ma governati da un ordine e da una intenzione e da una serie di possibilità. Nell’Idiota di Dostoevskij, il principe Myskin nell’attesa di essere ricevuto, discetta dei diversi tipi di calligrafia individuando per ciascuna la peculiare bellezza.
Ed anche la legatura del libro è oggetto di culto per Guardini; essa è un’arte ed è uno spettacolo; entrando nell’officina di un tipografo non si può non osservare il processo per cui le pagine fluttuanti si saldino in una unità, creino un corpo che chiamiamo volume. Questa unità generata dalla legatura rende possibile il movimento dell’andirivieni, per cui possiamo sfogliare un libro avanti e indietro, aprendolo a metà o in qualsiasi altro parte della sua compagine.
Così congegnato e pensato, fin dal suo sorgere, il libro è stata, si chiede Guardini, certo non solo l’unica, “una delle grandi forme che hanno permesso all’umanità di governare il caos e che una volta scoperte, rimangono costantemente valide? Nella battaglia contro il nemico oscuro, ci sono infatti simili vittorie”. Il nemico oscuro è l’ignoranza del mondo che viene progressivamente rischiarata e vinta dalla conoscenza e dagli strumenti che essa dà all’uomo per accedervi.
Dante stesso erige al libro un monumento in uno dei punti più alti della sua poesia, nell’ultimo canto della Divina Commedia, ove il poeta come stordito dall’infinita varietas delle cose, dalle loro combinazioni, dai modelli che le hanno generate, dai rapporti complessi e sottili che legano e distinguono le entità dell’universo in un ordito misterioso, ricorra, per descriverci questa visione, alla similitudine del libro:
Nel suo profondo vidi che s’interna
legato con amor in un volume,
ciò che per l’universo si squaderna;
sustanze e accidenti e lor costume,
quasi conflati insieme, per tal modo
che ciò ch’i’ dico è un semplice lume.
(Paradiso, 33, 85-90)
Ma ancora ad altre immagini Romano Guardini ricorre per farci cogliere l’unità del mondo e al contempo la sua molteplicità, servendosi del potere magico e simbolico della scrittura e dei suoi segni:
Quando si consacra una chiesa nello spazio principale vengono tracciate, a partire dai quattro angoli, due strisce di cenere, che si incrociano trasversalmente, e col suo pastorale il vescovo disegna disegna le lettere dell’alfabeto latino lungo una striscia, quelle dell’alfabeto greco lungo l’altra, affinchè l’edificio, che significa appunto la creazione riportata in quel sacro da cui nacque, contenga in sé la quintessenza di tutti gli elementi presenti sulla terra…
Immagine questa, rileva Guardini, ricorrendo al linguaggio del sacro, che ancora fa riaffiorare l’icona del libro come insieme ordinato di segni connessi allusivi al simbolo del Tutto.
La duplicità del libro come racconto dello spirito ed ad un tempo oggetto manufatto, impone per Guardini la cura del libro come destinatario di attenzione anche per il suo volto apparente, cartaceo, editoriale . Un libro trascurato è uno sfregio estetico, ma anche un vulnus al contenuto e alla vita spirituale dell’autore.
La cura si rivolge quindi a far si che il libro si mantenga, perduri nel tempo, non si deteriori e corrompa come corpus fisico sottoposto all’azione degli agenti esterni disgregatori. Al lettore spetta il compito di accorgersi delle necessità del libro, di provvedere al suo mantenimento, all’integrità delle sue pagine, evitando di deturparlo, sciuparlo, trascurarlo o danneggiarlo, poiché esso non sa difendersi e dipende radicalmente dalle nostre attenzioni. Spesso è infatti proprio il lettore a violare l’integrità del libro con segni inappropriati, manipolazioni maldestre, o, nel caso di volumi lasciati in prestito, talora con vere e proprie mutilazioni, abrasioni, lesioni.
Un altro aspetto trattato da Guardini nel suo discorso riguarda il rapporto tra libro e mistero della parola. E’ questa la parte più strettamente filosofica della conferenza poiché l’autore, seppur brevemente, indaga il nesso tra vita spirituale e vita materiale che nel libro si riconnettono. Analizzando la parola, Guardini osserva acutamente come non sia del tutto appropriato definirla meramente “spirituale”, immateriale, eterea: “… in questo modo la si volatizza, in quanto essa è umana, intima unità di spirito e di corpo. E’ un insieme di toni e di suoni, articolato attraverso la loro diversità, il grado della loro forza e il ritmo del loro movimento. In questo insieme l’uomo introduce quello che vive nascosto nel suo spirito e nel suo cuore”.
La parola svela così ciò che è silente nel nostro spirito e che prende corpo, forma, consistenza, concretezza nell’espressione. In questa uscita dal buio dello spirito verso la forma della luce (simile ad un parto) essa veicola il mio pensiero e lo rende comunicabile, accessibile, comprensibile. Finché la parola risuona, il mio pensiero è aperto, allorché quel suono si spegne e tace, si riaffaccia il silenzio. Ma una volta pronunciato o scritto il suono si è propagato, la parola si è incardinata nella realtà poiché anche l’altro l’ha udita e l’ha fatta propria nello spirito.
Questo movimento di uscita ed entrata dell’espressione Guardini la chiama la contro-parola (ant-wortet) che potremmo ritradurre come risposta o controcomunicazione, cioè un procedimento dialettico per cui avviene la recezione e lo scambio del pensiero mediante il dialogo ( in accordo o in contraddizione), il riconoscimento di una stoffa comune linguistica.
Avviene così l’esodo dell’uomo dal regno del caos e delle “dimenticanza” ma nel caso della forma scritta attivando un “secondo corpo” che non è più quello acustico e sonoro ma ottico:
Già nella forma sonora della parola lo spirito aveva trovato il proprio corpo. Tuttavia il suono era solo temporaneo, e così era temporaneo anche questo corpo. Ora l’uomo gli trova per così dire un secondo corpo che non appartiene più al mondo dell’orecchio, bensì a quello dell’occhio. Ogni suono si trasforma in una figura visibile, in segno grafico; la parola parlata si trasforma in parola stampata, e il discorso ha luogo ora sulle pagine del libro.
Rispetto alla volatilità della parola sonora e alla sua costitutiva precarietà (nessuna parola sonora dura per sempre), la parola scritta assume lo statuto della durata e il lettore può far sì che mediante la ripetizione resa possibile dalla lettura, la parola sopravviva come lascito eterno. Il lettore antico talora accompagnava con la voce ciò che leggeva con gli occhi, mentre noi lettori moderni “leggiamo tacendo” privilegiando l’azione dell’occhio che scorre da un segno all’altro e attivando l’intelletto nell’attribuzione del significato della parola o della frase.
Certo ci sono libri, sottolinea Guardini, ove la sonorità riprende in pieno il suo posto, come le opere di poesia e di teatro o anche di prosa, incontrando pagine che lette con la voce risuonerebbero di tutto il loro fascino. O libri “parlati”, come testi di conferenze e comunicazioni ove la pagine sono solo il mero supporto di un pensiero che l’autore trasmette ad un uditorio.
Altri libri sono “scritti” in senso particolare, come quelli in cui la scrittura non è utensile da usare, ma materiale da contemplare ed ammirare, in uno spazio simile a quello ove si trova un’opera d’arte in attesa di essere vista.
In questo spazio si fa più intimo il rapporto tra l’opera e il lettore (che poi è sempre anche un ascoltatore in quanto si dispone alla recezione di un messaggio, di un senso) . Scrive Guardini: “Anche questo tipo di libro è buono. In questo modo sono forse sorti addirittura gli scritti maggiori; quelli che sono autenticamente ‘opere’ “, ove lo scrittore sembra parlare non per un pubblico precostituito o prefigurato, ma essenzialmente a se stesso, per cui “chi parla qui, parla a se stesso; all’esistenza; o in un senso estremo, a Dio”, ma anche in questo caso l’autentica lettura significa renderlo sonoro, ove tale aggettivo non va assunto in senso strettamente letterale. Sonoro in quanto si diffonde, si rifrange, si dilata nell’animo e parla paradossalmente senza il supporto della voce umana.
Guardini sviscera poi un altro nodo essenziale del libro, il suo legame con la memoria, “quella misteriosa capacità propria dell’uomo, di risollevare dal passato al presente quanto è successo precedentemente, e pur tuttavia- e questo è essenziale, poiché altrimenti il ricordo perderebbe la propria dimensione spazio-temporale e si trasformerebbe in follia – senza dimenticare che è passato”. Cosi va letta infatti la netta affermazione di Guardini che “l’assolutamente caduco non esiste”, che pare voler confermare esistenza e permanenza di tutte le cose, anche di quelle scivolate e defluite nel passato. Nulla muore per sempre e definitivamente, ma lascia tracce, indizi di sé, segni che confluiscono nella “grande memoria, nella quale tutto ciò che è stato esiste ancora. Ma si tratta di una memoria che non conosce se stessa; è la forza conservativa dell’essere”. Si tratta quindi di una permanenza ontologica, non più apparente ma operante segretamente nel ventre profondo dell’umanità.
Questa energia conservativa del mondo è come un immane deposito, ove nulla va perduto, ma persiste nel tempo e prosegue negli effetti che ha provocato, come in una invisibile catena di eventi non perduti e annientati.
Ma solo all’uomo questo reticolo si rivela e per chi è in ascolto e non distratto, le immagini e gli eventi prendono posto in me non caoticamente, si ordinano e si organizzano dentro la mia vita interiore, “sempre conchiusi e mai assolutamente chiusi; non in movimento e pure afferrabili in ogni istante”. In questa apparente contraddizione per cui ciò che è concluso vive ancora in altre forme e in altri dinamismi, sta il segreto del libro e della sua familiarità con la memoria. L’inquietudine della dispersione e della perdita è placata dalla forza conservatrice della memoria e della vigilanza che essa opera nella storia.
Guardini a tal proposito riporta un passo fondamentale di S. Agostino tratto dal decimo libro delle Confessioni:
Grande è il potere della memoria, un qualcosa che fa rabbrividire, non so di qual genere, o mio Dio, una molteplicità profonda e infinita. E questo è lo spirito, e questo sono io stesso. Che cosa sono allora, mio Dio? Che tipo di essere? Una vita complessa, dalle forme molteplici e così assolutamente incommensurabile. Vedi, nei campi e negli antri e sotto le volte della mia memoria, innumerevoli e pieni in quantità innumerevole di innumerevoli generi di cose; disponibili attraverso immagini, come tutti quanti i corpi, o attraverso presenza immediata, come le entità spirituali, o attraverso non so quali concetti e denominazioni, come gli affetti dello spirito… Attraverso tutto ciò io accorro, e volo qua e là, mi spingo pure, per quanto posso, nel profondo, e una fine non c’è mai. Tanto grande è il potere della memoria, tanto grande è il potere della vita nell’uomo, che è mortale (17,26)”.
Ciò che è scritto nel libro costituisce “memoria oggettiva” trasformando, nel momento in cui vi accedo, ciò che è passato in presente, riportando in vita il vissuto sedimentato e irreversibilmente accaduto. In questa sottile dialettica temporale la scrittura, e più avanti il libro come insieme organizzato di segni e significati, hanno scandito il tortuoso cammino dell’uomo. Dalla labile tradizione orale alla oggettiva pregnanza del libro, la memoria ha operato virtuosamente dandosi uno strumento affidabile e certo da destinare all’uomo. Francesco d’Assisi, che pure si era spogliato di ogni cosa, nutriva riverenza verso la parola scritta e che per scongiurare l’avidità di possesso aveva vietato ai suoi confratelli di tenere con sé alcun libro, “sollevava tuttavia da terra, ovunque trovasse qualcosa di scritto, anche il più piccolo foglietto, e lo onorava”.
L’ultima parte del testo di Guardini è rivolto al grande lascito dei classici. Essi assurgono a modello normativo nella loro intangibilità, nel loro eterno parlarci, “seme e monumento, nutrimento e giudizio al tempo stesso” . Seme perché ancora germinano e restano vitali e feconde nel seno delle generazioni succedutesi nel tempo, alimentando la vita spirituale, e monumento per la loro intangibilità e purezza ( per rapidità espositiva solo alcuni testi sono citati da Guardini: l’Odissea, la Divina Commedia , il Fedone platonico, il Tao-te-Ching, ma ovviamente l’elenco sarebbe molto più ricco). Sappiamo infatti che Guardini si è occupato in libri fondamentali di Socrate e Platone, Dante, Dostojewskij, Holderlin, Rainer Maria Rilke, Pascal, Kierkegaard, San Francesco, S. Bonaventura ed altri.
Ma il libro per eccellenza per Guardini è la Bibbia; essa realizza il paradosso, per cui è sempre contemporanea pur essendo stata composta e scritta in epoca remotissima, poiché la parola di Dio parla all’uomo di tutti i tempi.
Ma tutti i testi sacri, sottolinea Guardini, vivono la duplice natura di essere letti ed anche ammirati, esposti, resi visibili: “quando un libro del genere viene sollevato con gesto solenne, posto sull’altare o sul leggio, si percepisce con grande intensità l’unità di figura tangibile e contenuto spirituale, di intendimento concreto e stimolo onnicomprensivo, di ciò che è divenuto storia e ciò che è permanentemente valido”. Si compie in tal genere di testi icasticamente la sintesi tra materia e spirito, per cui il libro diventa una cosa sola, non più separabile tra veste esteriore e contenuto. Non tutti i libri ovviamente assumono questa status sacrale in senso stretto. Ma Guardini conclude comunque con un atto di speranza e di fede nel libro come baluardo dell’umanità: “Il libro sta davanti a noi come figura originaria. In esso si riassume l’esistenza”.
Roberto Taioli
L’ha ribloggato su Paolo Ottaviani's Weblog.
Una splendida presentazione di quella che è l’essenzialità del libro, non credo avvertita e intesa per l’innanzi. Complimenti.
Domenico Alvino.