LA NOTTE E’ LA TOMBA DI DIO
«La notte è la tomba di Dio e il giorno la cicatrice del dolore».
V’erano scritte queste parole, in alto, sopra la prima porta a destra.
Una voce risuonò nell’androne: «Benvenuto nella galleria del dolore!».
Fu così che mi decisi… Ed entrai.
[…]
C’è un bosco pieno di foglie parlanti che gridano:
«Il presente è il passato e il passato è il presente».
C’è un chiasso del diavolo. Tante parole quante sono le foglie.
Una quercia mi parla:
«Apri la prima porta a destra – mi dice –
e segui la via della mano destra
che porta a sinistra».
[…]
Apro quella porta.
Ci sono tre vascelli a vele spiegate
che un vento fuori cornice gonfia tumultuosamente.
Ma restano immobili.
Anche il mare crestato è immobile.
Ogni dettaglio è nitido e percettibile
come seppellito nell’ambra da un milione di anni millimetri.
La seconda porta a destra. La apro.
C’è una colluttazione di ombre che entrano
dentro altre ombre e ne escono; lottano furiosamente
per il palcoscenico della mia anima.
«Ma non c’è nulla per cui lottare, sono già morto!»,
pronuncio con un filo di voce.
“Farsesca costipazione di ombre”. Penso con tristezza
che anche loro sono morte e non possono udire le mie parole.
[…]
Attraverso come a nuoto la stanza. Una finestra. La apro.
C’è una statua nella piazza deserta:
Portici risucchiati dal vuoto.
Pontili su un mare di basalto.
Città di cristallo.
Colonne in marmo, stoppie. In alto, sopra il frontone,
una civetta singhiozza, accompagna il passo dei mortali.
La donna di Fayum mi osserva. Vorrebbe dirmi qualcosa,
ma non può.
[…]
Buio della stanza. A tentoni, una finestra. La apro.
C’è una torre in un cortile deserto.
Puoi udire il tonfo di una farfalla che cade dall’alto
e il lucore fosforescente di una luna gialla
che si posa sulla toga di un imperatore triste…
Mi precipito alla cieca in avanti. Una finestra. La apro.
Un calendario dal quale si staccano i fogli, un orologio,
una lapide sulla quale v’è inciso il mio nome e cognome
e la mia data di nascita…
Una scrittura annerita che gratto con l’unghia.
«Benvenuto nella cicatrice chiamata Terra».
[…]
«È tutto qui? – mi chiedo – non c’è nient’altro?».
L’angelo della nebbia piange in un angolo in ginocchio.
La notte profuma di tomba.
Anche la rugiada profuma di tomba.
La cicatrice chiamata Terra è un immenso campo santo di lapidi.
Giorgio Linguaglossa
Нощта е Божият гроб
„Нощта е гробница на Бога, денят – той носи белега на болката“
високо някъде над първата врата вдясно бе написано с думи.
И, ето – силен глас отеква в залата:
„Добре дошли! Добре дошли в галерията на болката“
Така и взех решение да вляза.
[…]
Вътре в гора изпълнена с говорещи листа – чувам викa им,
казват:
„Миналото е настояще, настоящето е минало.“
Aдски шум. Като безброй листа
такова множество са думите.
Един дъб ми проговаря:
„Първата врата в дясно отвори – мълви –
и на дясната ръка ти пътя проследи,
който води наляво.“
[…]
Отворям тази врата.
Веднага се натъквам на
три кораба с развети платна,
които вятърът отвън с всички сили пробва
като рамка бурно да запълни.
Но остават неподвижни.
Tе остават неподвижни.
И морето с белите си гребени също е замръзнало във времето.
Oсезаемост. Усещането е изострено. Детайлите загнездват се
в собственото ясно осъзнаване,
Погребани в кехлибара на милион
милиметрични минали години.
Втора врата се появява вдясно. Аз я отвaрям.
Връхлитат ме сенки, вкопчени в хватка
гмуркат се изплуват в други сенки
водят ярoстна война
за надмощието над моята душа.
„Безмислено е да воювате за мен,
Аз вече мъртъв съм дълбоко в себе си!“ –
им промълвявам немощно аз почти без глас.
Но продължава този фарс
задръствaнe – запичане – нa сенки.
С тъга си давам сметка – те са също мъртви
и думите ми казани на глас за тях остават безпредметни.
[…]
Понасям се през стаята преплувам я плавно.
Пред мен е прозорец. Oтварям го бавно.
Cтатуя стърчи насред пуст площад.
И навеси засмукани във вакуума.
И мoстове простиращи се връз базалтoви моретa.
Както и изцяло кристалeн град.
C мраморни колони, те редуват се със стърнища.
Bисоко горе над фронтона,
ридае бухал, в темпото на крачките на смъртните.
Жената от Фаюм ме гледа. Много би искалa да каже нещо,
но не може.
[…]
Обгръща ме мракът на стаята. На пръсти дoстигам прозорец, който отварям.
B пуст двор e надвесена кула.
Изпълнен с глухото тупване на пеперуда,
и флуоресцентен блясък на жълта луна
cгушена в гънките на тога на тъжен император…
Слепешката се спускам напред. Към нов прозорец. Отновo oтварям.
Пред мен часовник, календар –
от него бавно капят листа –
паметна плоча c моето име и дата на раждане …
Потъмнял надпис,
„Добре дошли, достигнахте до Белега с името Земя.“
[…]
„Това ли бе всичко? – Чудя се – Hяма ли друго?“
А aнгелът на мъглата плаче коленичил в ъгъла.
Витание на гроб носи нощта.
На гроб ухае и росата.
Просто едно огромнo гробище
cъс скупчени надгробни камъни
оказва се зарaстналата рана, наречена Земя.
Превод от италиански: Кристина Янкулова (Traduzione in bulgaro di Kristina Iankoulova)
Un esordio drammatico introduce il lettore nella dimensione della “Cantica” di Giorgio Linguaglossa:
«La notte è la tomba di Dio e il giorno la cicatrice del dolore».
V’erano scritte queste parole, in alto, sopra la prima porta a destra.
Una voce risuonò nell’androne: «Benvenuto nella galleria del dolore!».
Fu così che mi decisi… ed entrai.
È una possibile scenografia teatrale per rappresentare il dramma che l’occidente sta vivendo oggi. Difficilmente parole così icastiche sono state usate come marmo o quarzo per inscenare, senza ombra di retorica, la fase ultima del percorso doloroso dell’umanità attraverso le due guerre mondiali, passando per Auschwitz, le Foibe, la strage degli Armeni e così via, fino all’inizio della 3° guerra mondiale e alla minaccia apocalittica del terrorismo che caratterizzano il nostro tempo immerso nel caos e nell’oscurità. Il Poeta entra nella galleria del dolore e si fa quasi palpabile l’allegoria dantesca quando appare di fronte ai nostri occhi il bosco delle foglie parlanti che gridano la realtà ineluttabile della morte (il presente è passato) e quella straziante del dolore che resta (il passato è presente): viene spontaneo rievocare il dramma di Pier delle Vigne, caduto in disgrazia di Federico II di Svevia e suicida, prigioniero di se stesso e del suo rifiuto di vivere l’umiliazione della sconfitta. Poi una nobile quercia indica la strada al poeta… e si entra in una scena completamente diversa, surreale alla de Chirico con echi di Alberto Savinio e notazioni che rimandano al grafismo fantastico di Escher. Il ritmo della poesia si fa incalzante
Apro quella porta.
Ci sono tre vascelli a vele spiegate
Che un vento fuori cornice gonfia tumultuosamente.
Ma restano immobili. Anche il mare crestato è immobile.
Ogni dettaglio è nitido e percettibile
Come seppellito nell’ambra da un milione di anni millimetri.
Rifiutando una lettura troppo razionale dei versi di Linguaglossa, possiamo vivere toto corpore et anima la suggestiva atmosfera di mistero che aleggia intorno al quadro dipinto con le parole dall’autore evocando colori (il bianco delle vele, l’azzurro del mare) utilizzando le immagini scultoree «Ci sono tre vascelli a vele spiegate» valorizzate dall’onomatopea «che il vento fuori cornice gonfia tumultuosamente» e dalla notazione: «il vento fuori cornice», che sottolinea e convalida l’idea di un quadro in cornice come fondale di una scenografia. Di grande efficacia comunicativa il contrasto tra la furia impetuosa del vento e l’immobilità dei tre vascelli a vele spiegate e del mare crestato ( le vele spiegate vorrebbero il movimento, il mare crestato idem ). Non c’è movimento, ogni dettaglio nitido e percettibile sembra essere il particolare di una “visione” che si può quasi toccare con la mano, ma anche di una vetrina dell’orefice: e qui risalta il tocco personalissimo dell’ambra, che richiama la natura conservata nei millenni e, contemporaneamente, la preziosità di un oggetto modellato da mani artigianali e della stessa materia che quelle mani stanno elaborando con arte, cioè “natura ad naturam versus”. Qui una delle novità più originali, che fa riflettere, è relativa alla misura del tempo: “Un milione di anni millimetri: credo si debba leggere “una quantità infinita di tempo che è minima rispetto all’eternità”, comunque è forse meglio non interpretare l’espressione poetica perché guizzi nel nostro inconscio lasciandovi un segno che prima o poi farà nascere altre immagini, altri deliri dell’immaginazione. Il brivido metafisico che percorre tutta la poesia e i lettori nasce dai versi che seguono e va crescendo d’intensità drammatica che non rinuncia mai ad esprimersi con un’iconografia degna delle migliori arti figurative. Ma per ora restiamo al brivido: ai versi che seguono si accede attraverso «La seconda porta a destra». Oltre la porta, «C’è una colluttazione di ombre…che lottano furiosamente/ per il palcoscenico della mia anima», dice il poeta introducendo il tema della lotta metafisica tra il Bene e il Male e mantenendo l’ambientazione della scena nello spazio del teatro, come dimostra l’espressione palcoscenico della mia anima, una metafora che sta ad indicare dove si svolge tutta l’azione.
Il monologo del morto che dialoga con se stesso è un simbolo forte dell’uomo contemporaneo, lontano dalla vita a tal punto da ragionare da vivo come se fosse già morto e, per di più, triste per la propria condizione, la medesima di quella delle ombre che «lottano furiosamente» entrando l’una nell’altra, per impossessasi della sua anima.
Stanze, porte, finestre: qui vive l’uomo contemporaneo, prigioniero di se stesso, consapevole che dopo una porta ce ne sarà un’altra e, quando non ci saranno più porte, sarà necessario fuggire dalle finestre per cercare quella libertà, che è meglio chiamare liberazione, a cui hanno aspirato intere generazioni di uomini e per cui hanno lottato senza avere mai la certezza di raggiungerla, proprio come Giorgio Linguaglossa ci racconta in questi versi. Il poeta attraversa la stanza non a nuoto ma…«Come a nuoto», l’atmosfera è densa e liquida, l’uscita è dalla finestra. Il luogo ove accede è più che mai surreale, tragicamente surreale con la statua sulla piazza deserta, portici risucchiati dal vuoto e il mare, che prima avevamo immaginato azzurro sullo sfondo delle vele bianche gonfie di vento, adesso è di pietra vulcanica, cioè nero e senza movimento. Anche la città di cristallo è dura, immobile e il suo trasparente cristallo ferisce, le colonne di marmo, e infine, il singhiozzo della civetta, tutto sembra percorso da un tremito raggelante. Lo sguardo di una donna di Fayuum dice che lei vorrebbe parlare, ma non può perché appartiene al regno dei morti. Ma c’è un’altra finestra da aprire. E qui di nuovo l’insistito riferimento alle arti figurative (la torre nel cortile deserto) e alla surrealtà, dove accadono cose sempre più impensabili: una farfalla senza peso cade con rumore assordante e una luna gialla…si posa sulla toga di un imperatore triste.
La terza finestra, aprendosi, ripropone il tema del tempo: il calendario mosso da un vento senza nome che stacca i fogli dei giorni, un orologio e una lapide con nome cognome e data di nascita del poeta e queste parole «Benvenuto nella cicatrice chiamata Terra».
Ecco la conferma che questo luogo non è l’Aldilà, è il mondo in cui “viviamo”!!! L’angelo della nebbia che piange… in ginocchio ci prepara all’ultimo colpo di scena:
La cicatrice chiamata Terra è un immenso campo santo di lapidi.
È evidente che non soltanto nell’Aldilà ma anche sulla terra tutti sono morti. Giorgio Linguaglossa mette di fronte ai nostri occhi atterriti una sua possibile attualissima visione del mondo inscenata con arte sapiente ma anche con distaccata freddezza.
Visione post-apocalittica, tragica. La sua Commedia si svolge in un luogo di frontiera dove la vita e la morte si confrontano e si scoprono uguali: ma alcune immagini della vita riescono a sopravvivere e ci aiutano a sperare. Perché guardare la realtà con occhi ben aperti, accettare il dramma in cui si muove la nostra esistenza e viverlo sono tre sfide inevitabili se vogliamo sperare in una successiva svolta, in una quarta finestra da dove contemplare la bellezza della Natura dell’Arte e della Vita. Il ‘900 si è chiuso con questa visione di morte prolungandosi nel terzo millennio con scenari da fine del mondo. Ma non possiamo lasciarci ingannare dallo splendore dei falsi idoli: se la vita è teatro ci sarà un regista e se anche il regista è morto, il figlio del regista o chi per lui riprenderà in mano i fili della Storia che certo non può finire proprio adesso. Per i nostri figli ci saranno altre porte e altre finestre, il tempo si misurerà guardando il sole e le piante nascere e morire, il pane si farà con la farina il late sarà quello delle mucche e caprette nutrite nei verdi pascoli e finalmente il Poeta potrà cantare la pace. Dalla morte può ancora nascere la vita: siamo ancora in tempo a combattere questa morte che tradisce tutte le nostre aspettative. Giorgio Linguaglossa ce lo testimonia con la sua vita e le sue opere: lui che si auto definisce un semplice «calzolaio della poesia», ci sta dicendo che il male, terribile e devastante, si può ripetere, può uccidere la vita.
Mariella Colonna
Vorrei tradurre l
a Sua poesia in Anglo Americano, se me lo permette…