Che Paolo Di Paolo non sia “narratore puro” ma acutissimo poeta della prosa, dotato di respiro saggistico e filosofico, lo si era capito fin dalle prime prove. La sua scrittura nitida, visiva, di precisione “chirurgica”, eredita – su basi classiche – i cristalli di Italo Calvino e soprattutto di Enzo Siciliano, ma li inzuppa nel magma vitalistico di altre letterature – con particolare inclinazione per gli americani, su tutti Fitzgerald, Carver, Salinger, Bellow e Philip Roth. Ha una tale intensità di concentrazione, nel trafiggere i dettagli rivelatori e nel costringere il lettore a specchiarsi dentro le parole, che i suoi libri potrebbero scavare una via alternativa e innovatrice, di equilibrio “alto”, all’interno del mainstream editoriale italiano, anche da importazione, stabilizzato ormai sui canoni consunti dell’intrattenimento. Ecco: a Di Paolo non preme “intrattenere” ma, anzitutto, pensare e far pensare. Con tutte quelle che ci sono in giro (fiction televisiva compresa), non gli interessa raccontare “storie” ma cercare ciò che le storie non dicono, o dicono di contraggenio: il tracciato nascosto della Storia che, frammento accostato a frammento, pazientemente portano alla luce. Rendere «visibile l’invisibile»: come in genere, peraltro, fa il poeta.
La sua ribellione ai dettami omologanti della narrativa contemporanea trova modo di incunearsi fin nel titolo del suo ultimo romanzo: Una storia quasi solo d’amore (Feltrinelli, 2016, 170 pp., Euro 15). Come raccontare l’ennesima storia d’amore se non attraverso lo scorcio obliquo di quel “quasi solo”? È proprio lì che lo scrittore attinge al proprio meglio, in quanto più libero di essere sé stesso, ed è lì che – implicitamente – chiede al lettore di andare a investigare. La stramba e sfilacciata storia d’amore tra il ventitreenne Nino, un tipo apparentemente simpatico ma «coglione» (superficiale, egocentrico, insicuro, nevrotico, presuntuoso), e la trentenne Teresa, radicata nelle sue certezze (tra cui la fede religiosa) e anche per questo dura di carattere, spigolosa, difficile e sempre un poco “risentita”, trova modo di nascere e svilupparsi sullo sfondo di un corso di teatro, attraverso la voce narrante, non immediatamente individuabile, dell’anziana maestra Grazia. Attenzione ai nomi dei personaggi, che non mi paiono affatto casuali: Teresa, nome ascetico da santa; Nino, ovvero incertezza (“ni”) e infine negazione (“no”); Grazia, come a dire che senza “grazia” (adesione e appartenenza all’essere) è impossibile il racconto autentico del mondo. È proprio questo, a mio giudizio, il plesso nodale del libro: il problema del rapporto con il mondo e la ricerca dell’autenticità, intravisti nella filigrana del tempo e alla luce del confronto che oppone le generazioni – da sempre, ma oggi più che mai – coi loro punti di vista e i loro discorsi, reciprocamente chiusi e inconciliabili. I romanzi di Di Paolo (si legga anche Dove eravate tutti, Feltrinelli, 2011) nascono da una sorta di sconcerto generazionale: sembrano scritti come dopo una catastrofe. Dal 1960 a oggi c’è stato uno sciame sismico di crisi e cesure che hanno ulteriormente accelerato la Storia già veloce del “secolo breve”: fra i due estremi di questo periodo, in realtà, sembrano trascorsi secoli. Da allora il mondo è cambiato più volte completamente, e ogni volta in modo irreversibile, per sempre. I giovani di oggi, i tanti “Nino” dalla faccia «distratta, assente, arresa», «camminano a passi svelti su qualunque pista, su qualunque strada, non hanno lacci né capestri, genitori sbiaditi e senza grandi convinzioni li lasciano fare, li lasciano andare». E ancora: «non aspettano niente: liberi a monte». La società liquida ha finito appunto per “liquidare” riserve di valori, segnaletiche, significati. Il politeismo etico e il pensiero debole hanno imposto, con i processi di globalizzazione, l’assolutismo terroristico del “relativo”. Le cose, appiattite e intercambiabili, si incrostano di cinismo e disumanità. Scrive e si chiede Di Paolo: «Quand’è che siamo diventati stronzi? Come abbiamo fatto a non rendercene conto? Qualcosa sopravvive – il talento, che diventa mestiere: più raffinato, più disinvolto. Ma lo stupore? E l’attenzione autentica, profonda, che ci teneva incollati alle cose per ore, alle scoperte della vita intellettuale, alle parole degli sconosciuti, un po’ a tutto». Oggi chi prende le cose sul serio e si impegna sinceramente è colto in fallo di ingenuità. Chi ha voluto e consentito che succedesse questo? E dove sono le tracce del mondo di prima? Che ne è di ciò che eravamo, se tutto diventa subito obsolescente e una stampante ad aghi – qualche anno fa l’unica che c’era – può sembrarci addirittura «preistorica»? E quando e perché i panini con la marmellata o la verdura cotta che Zannoni (un vecchio compagno di scuola di Teresa) scartava dall’involto a ricreazione, fra le patatine e le merende confezionate degli altri, cominciarono a suscitare «ilarità cretina e senza motivo»? E «quando, dove e perché finiscono i tempi di qualcuno? quanto durano? I miei, quali sono?»
Di Paolo elabora e traguarda una idea di scrittura come “sestante” spazio-temporale, con cui cerca di orientare le rotte di attraversamento del mondo contemporaneo. Le persone non si parlano solo da spazio a spazio, ma anche «da epoca a epoca». Tutte le epoche sono in realtà simultanee, così come le età attraversate nell’esistenza sono «visibili in noi, tutte insieme allo stesso momento». Accade a Nino, la sera di Natale – precipitando in un «piccolo buco spazio-temporale dove tornavano a lampeggiare, come le luci del presepe di là, le giostre, i luna park, gli zaini, (…) gli scatoloni di giocattoli chiusi in cantina da dieci anni» − di scoprire che l’infanzia «ci riconvoca sempre». La nostra vita riflette la vita del mondo, delle epoche, delle società. È facile «scivolare in un altro secolo: anche per questo, forse, il romanzo è ambientato a Roma, dove «un’epoca è questione di metri». L’odore globalizzato dei McDonald’s non copre del tutto quello delle sagre paesane, per cui il paesaggio antropico dell’Italia, che Di Paolo misura e conquista dubitosamente alla parola, configura una «macchina del tempo scassata – entri e ritrovi sempre qualcosa di ieri, il 1950, la nonna col golfini, le paste della domenica, il campo di bocce etc. La modernità non è mai arrivata, mai fino in fondo». Qualcosa dunque sopravvive alla consunzione velocissima dei tempi, magari rintanato in sacche residue, in cellule accerchiate dal “cancro” e perciò ostinate, disperate, dure a morire. Anche dentro di noi c’è spazio di riserva e resistenza: «Resta come un piccolo guscio di noce, al centro di noi, dove il meglio di cui siamo capaci è al sicuro. È la parte più viva e più umana. Mentre il resto precipita nell’incuria e nel degrado – i principi, l’onestà, il nostro stesso corpo – qualcosa laggiù emana ancora calore». Di Paolo ficca lo sguardo nel punto in cui, oggi, si incrociano le prospettive globali/relative dello spazio e del tempo interrelati. Non a caso Teresa lavora in un’agenzia di viaggi: con la cartina del mondo alle spalle è in grado di percepire sino in fondo l’angoscia compulsiva della modernità, che impone aggiornamento continuo, velocità simultanea, progresso illimitato: «(…) vorrei essere dappertutto, vorrei non perdermi niente (…). Chissà cosa succede laggiù, in questo istante. Tu non ci pensi mai? (…) Io di continuo. Perché sono qui e non altrove? Che cosa perdo a essere qui e non altrove?». Da questa impasse si esce anzitutto paragonando l’io – ridicolo microbo cosmico – alle distanze sconfinate fra i secoli e i pianeti; e poi prendendo finalmente coscienza che «il mondo è il mondo, c’è Sydney ma c’è anche Settebagni, e non è detto che Sydney vinca il confronto. Siamo tutti in provincia di qualcosa». È il provincialismo storico da sudditi periferici – rispetto al cuore pulsante degli imperi finanziari globalizzati – a farci sentire inadeguati, insoddisfatti, sempre in ansia. Il romanzo, allora, è come un sismografo sensibilissimo che registra il peso di «ogni nostro movimento sulla crosta del mondo». Anche una storia d’amore è un piccolo terremoto di forze che convergono: «Un minuscolo incidente della geografia e della storia, vorrei chiamarlo così: fra milioni di chilometri quadrati e di anni, lo stesso marciapiede, da questa parte dell’universo, un lunedì di fine ottobre, dodici minuti dopo le sette di sera». È o non è un “miracolo”, in chiave cosmica, incontrarsi «due fra miliardi di esseri umani» per intrecciare spazi e tempi della propria vita? Quante coincidenze fortuite devono accadere? Quanto poco basterebbe per far andare tutto diversamente?
Occorre «cercare il trucco dietro il gioco di prestigio», ovvero far coincidere lo sguardo con quella prospettiva abissale di stupore da cui salgono le domande fondamentali, e dinanzi a cui non è possibile fuggire o rimandare il confronto. È lo sguardo stesso della morte («come dalla bolla di una lacrima», scrive Di Paolo) entro cui sgorga, attraverso la voce di Grazia, tutta la narrazione del libro – e lo capiamo con la sorprendente rivelazione che lo conclude, illuminando di nuova consapevolezza le pagine fino a quel momento attraversate. La storia d’amore c’è, ed è anche godibile – a tratti – nel suo sviluppo inquieto e irrisolto; ma a Di Paolo interessa, più che raccontarla, farne una cartina di tornasole per la verifica della condizione umana, la stessa di sempre, nel tempo di una Storia che non è mai stata come ora. È attiva nei suoi libri una cocciuta e per certi versi “eroica”, disperata volontà di tracciare una mappa della nostra epoca, pur ben consapevole che il mondo, ormai, è qualcosa di inafferrabile poiché infinitamente più vasto, vario e complesso di quanto ne possiamo immaginare. Il doppiofondo della sua valigia di narratore è la “cartografia del tempo”, tentata con anima da sociologo che “saggia”, da storiografo non convenzionale che relaziona i fatti e da poeta dissimulato che prova pietas anche nel sarcasmo. Paolo Di Paolo, insomma, dà forma e nomi alla “malattia della Storia” che ci sta riducendo in stato astenico, se non comatoso. Le “storie”, questa come le altre, gli servono “quasi solo” per svolgere e verificare l’anamnesi dello strano sopore da cui inutilmente sogniamo di risvegliarci.
Marco Onofrio