Giovenale (VI Satira), Anticum et vetus est alienum, Postume, lectum concutere, trad. di Corrado Calabrò

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Le 16 satire di Decimo Giunio Giovenale furono pubblicate con molta probabilità dopo l’ascesa al trono di Traiano (98 d.C.). Furono divise in cinque libri diffusi l’uno indipendentemente dall’altro in periodi successivi. Il I libro contiene cinque satire, il II il lungo componimento contro le donne; il III e il IV tre carmi, il V quattro carmi; l’ultima satira è mutila probabilmente interrotta a causa della morte del poeta. Le donne sono uno dei bersagli favoriti di Giovenale. Nella lunga satira VI il poeta ne elenca tutto un campionario: da quelle che a tavola riescono moleste per il loro sfoggio saccente di dottrina, a quelle che amano gli esercizi ginnici e scendono armate come uomini nell’arena, alle fanatiche per attori e musici. Tipici esempi del malcostume sono le stesse imperatrici, come l’abietta Messalina che, non appena il marito s’addormenta, esce fuori dal palazzo per prostituirsi nei lupanari più fetidi di Roma.

Messalina

Postumo, è sfizio antico sbattere il letto altrui,
alla faccia del Genio che custodisce il talamo…
E tu, di questi tempi, prepari gli sponsali,
ti fai acconciare i capelli dal miglior parrucchiere
e fors’anche ti sei fidanzato con l’anello?

Una volta ci stavi con la testa. Postumo,
ma davvero vuoi prendere moglie? Quale Erinni, dimmi,
ti s’attorciglia, insana, alle meningi?
Con tante finestre spalancate, tante corde
che hai per impiccarti, col ponte Emilio a due passi,
come reggi di metterti in groppa una padrona?…
Spasso degli amici! Prostérnati in Campidoglio,
sacrifica a Giunone una giovenca dorata
se incontrerai una donna dalle labbra pudiche…
Pensi che Iberina si appaghi d’un uomo soltanto?
Più facile che s’accontenti d’un occhio solo…
Prendi, prendi moglie e ben presto lei renderà padri
Echione il citarista o Glafiro e Ambrosio flautisti.
Innalziamo, se vuoi, palchi festosi lungo i vicoli,
orna stipiti e porte con corone d’alloro:
nella culla venata di tartaruga, o Lentulo,
vedrai nel visino del tuo nobile rampollo
la faccia di un mirmillone o dell’attore Eurialo.
Sposa di un senatore, Eppia seguì una squadra
di gladiatori fino a Faro, al Nilo, alle mura
malfamate di Lago…
Ah, le donne! Se debbono affrontare
pericoli per una causa giusta e onesta
tremano di paura, il cuore gli si gela in petto,
le gambe non le sorreggono; solo se si lanciano
in qualche turpe avventura, allora quale coraggio!
Se è il marito a chiederlo, ahi che impresa imbarcarsi!
Che fetore dalla stiva, come ondeggia il cielo…
Ma per chi segue l’amante lo stomaco è ben saldo.
Quella che vomitava, ora pranza coi marinai,
passeggia per la poppa e va tastando le sartie….
Ti fai specie d’Eppia, d’una famiglia privata?
Guarda alle rivali dei numi, guarda cosa Claudio
non sopportò dalla moglie. Appena lui prende sonno
l’augusta sposa indossa un mantello col cappuccio
e sguscia al buio con solo l’ancella di scorta,
preferendo una stuoia al talamo del Palatino.
Coi capelli corvini nascosti da una parrucca
bionda, s’infila svelta in un caldo lupanare,
dietro una tenda, in una cameretta riservata;
qui s’offre nuda coi capezzoli dorati,
col nome di Lycisca, e mostra a chiunque il grembo
da dove sei uscito tu, generoso Britannico.
Accoglie invitante i clienti e chiede il suo prezzo.
Poi, quando il tenutario manda via le ragazze,
quanto più può per ultima rimane nella stanza;
finalmente la Diva rincasa controvoglia
e ha ancora turgida la vulva da tanti assaltata;
rientra stanca, ma non saziata, con le guance sporche
del fumo della lucerna, e porta al letto imperiale
l’afrore dei suoi corpo a corpo nel lupanare.

trad. di Corrado Calabrò

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