“Il poeta alla griglia” saggio di Corrado Calabrò (ultima parte)

cultura-poesia

11. Quale espressione è più propizia alla comunicazione, rectius alla rivelazione poetica? La comunicazione pura, da pensiero a pensiero, non esiste. Così come, per converso, non esiste una comunicazione esclusivamente attraverso il linguaggio. Sulla scia del filosofo esistenzialista francese Maurice Merleau-Ponty, i semiologi distinguono tra parole parlate e parole parlanti. Le prime sono quelle inflazionate, abusate, avvizzite dalla chiacchiera quotidiana e dal fregolismo dei media, i necrologi del pensiero (Stanislaw Lec). Le parole parlanti sono le parole che si sanno far ascoltare. Farsi ascoltare, comprendere, stimolare la riflessione – sottraendoci allo stordimento e all’indigestione provocati dal diluvio indiscriminato di messaggi che ci sommerge – è il fine dell’eloquenza. Quando quel risultato è raggiunto il semiologo registra il suo successo. Per la poesia questo non basta. La poesia non può adagiarsi, appiattirsi su parole smorte, sciupate, abusate, inerti non meno (e anzi molto di meno) dell’eloquenza, data l’importanza che nella poesia hanno le singole parole (connesse in accordi). Ma per la poesia non vanno bene neanche le parole troppo eloquenti, perché le parole pretesamene troppo espressive cortocircuitano la loro significanza col loro significato(83). La poesia opera in maniera più complessa e più sfuggente. Per un verso (mi si passi l’anfibologia) il suo stampo è ad impronta più diretta (specie nella poesia uditiva), per altro verso il suo influsso, nel medio-lungo periodo, s’innesta in forma più transgenica in chi la recepisce nel profondo (o anche solo nel riecheggiare di una rima, di un’assonanza…). La poesia non tende a provocare una sintonizzazione di pensieri ma piuttosto di stati d’animo. Quando –medianicamente – la reazione s’innesca, da una tensione oscura, che sottende una contrattura del nostro tempo, sprizza una scintilla che, come il fiammifero di Prévert, sembra per un attimo farci intravedere un significato ulteriore, sembra volerci rivelare il lato segreto delle cose. Quel lato condannato a restarci in sé sconosciuto, ma che in certi momenti, in certe condizioni, dà dei segni criptici della propria presenza. Il poeta non conosce l’appagamento del retore. La poesia è destinata ad essere perennemente inappagata di quello che ha espresso, che ha comunicato, rispetto a quello che l’artista ha intravisto nell’attimo della sua folgorazione misterica, della sua esperienza medianica, in quell’attimo indimenticabile in cui ha creduto di percepire un qualcos’altro, forse grazie a un senso ulteriore che non sapeva (o non sapeva più) di possedere. Ma il poeta deve pur stabilire un qualche livello di comunicazione per entrare in contatto con gli altri, traducendo per loro in uno spartito le note percepite nel suo orecchio interiore; egli scende per questo a un compromesso dato che deve adoperare la parola, vale a dire un mezzo significante per convenzione. Solo che a questo livello non troviamo ancora il poeta, ma piuttosto l’interprete, il quale mira solo a coinvolgere, a intrigare, ad abbindolare il lettore per condurlo con sé – come un sonnambulo cui una dea elusiva abbia posto in mano un filo d’Arianna che ha un solo capo – nel labirinto senza uscita nel quale il mistero della poesia si ritrae. Si ritrae sempre più in là quanto più ci si addentra. Se l’affabulazione riesce, l’interprete gode del suo successo(84). Ma il poeta segreto non può non restare interiormente deluso. Egli sa di non essere riuscito a rappresentare quello che ha intravisto, ma solo a suscitare artificialmente un’eco deformata di qualcosa, che non è il verbo rivelatore ma semplicemente una sua traduzione infedele, un suo messaggio gestito, un suo simbolo tutto sommato convenzionale. E’ come l’ostia rispetto all’eucarestia: in cui l’entità nascosta, il Verbo, è presente sotto le specie del pane e del vino (generi alimentari usuali quanto le parole…). Esiste tuttavia –o almeno si può provare a vedere se esiste ancora- una forma di trasmissione, una sorta di lingua angelorum(85), ch’è fatta di accordi e di silenzi, come la musica, e che nasce dalle parole ma le trascende. A volte, in un momento assistito dal favore fuggevole del dio, l’espressione poetica genera una sorta d’onda lunga, una curva emotiva del pensiero, dando l’impressione di fornire una risposta a una nostra attesa seminconscia e tuttavia avvicinandosi solo asintoticamente alla congiunzione tra significante e significato; e quando pure la congiunzione suppostamene avvenga, rimane una sorta di indecidibilità sull’effetto dell’impatto, analoga al principio di indeterminazione di Heisenberg: quel lungo suono del corno nella Pavane pour une infante défunte…. «Di solito noi intendiamo per vicinanza la più piccola misura possibile della distanza fra due luoghi. Ora, invece, l’essenza della vicinanza appare nel fatto ch’essa avvicina il vicino tenendolo lontano. La vicinanza all’origine è un mistero […]. Ma senza la vicinanza che è determinata da quella mancanza, e che perciò è una vicinanza che tiene in serbo, il bene ritrovato non potrebbe essere vicino com’è. Perciò la cura del poeta deve avere di mira solo questo: senza paura di fronte alla parvenza di ateismo, restar vicino alla mancanza di Dio e tenersi in attesa nella preparata vicinanza alla mancanza finché dalla vicinanza al dio che manca non venga concessa la parola iniziale che nomini l’alto»(86). La poesia è «la presenza rimandata di un’assenza»(87). Il valore medianico della parola poetica non sta in quello che dice, sta in quello che suscita. La parola poetica è quello che in termini neurobiologici, di funzionamento del cervello, si chiama un precursore (ad esempio, l’elledopa rispetto alla dopamina): non c’impronta di sé ma di quello che induce. La poesia, la musica, la pittura non possono e non devono dire tutto; devono suggerirci qualcosa che noi integriamo nel nostro udito interiore.(88) «L’incompiuto è spesso più efficace della compiutezza. L’incompiuto come mezzo di seduzione artistica…»(89). L’αληθεια resta sempre a metà. Le frasi col punto finale – osservava Musil – non riescono nel loro tentativo di espressione. Poeta è colui per il quale ogni parola non è la fine ma l’inizio di un pensiero. Ecco che la condizione espressiva potenzialmente più evocativa, più creativa, è quella aurorale, precorritrice, di preludio. Nel momento in cui si schiude, anche il fiore del cardo è bello e suscita l’attesa della metamorfosi che ci disvelerà una volta sbocciato. Se sono aurorali, sorgive, precorritrici – e se sono veraci – al limite si possono accettare persino espressioni un po’ bastarde, ibridate cioè da tecnicismi. Un verso può nascere perfetto o può raggiungere la sua forma definita dopo anni di tormento, di limature, di ripensamenti. Ma se non dà l’impressione di essere stato stampato in quell’attimo, di recare l’impronta ancora calda delle Pieridi, tanto vale cestinarlo. Beethoven provò più di quaranta accordi prima di trovare l’attacco della Quinta sinfonia. E tuttavia quell’attacco ha l’inesorabilità del destino. La poderosa suspense che produce s’immedesima con la nostra attesa di quell’accordo decisivo e di quello soltanto. Da sempre la poesia è controversamente accostata alla musica. A mio modo di sentire, pur dopo tanta furia iconoclasta, è bene di massima che i versi – due millenni dopo così come per duemila anni prima di Cristo – abbiano una loro musicale suasività; e questo perché devono piacere in modo da intrattenere a una seconda, a una terza lettura finchè scatti quel commutatore di banda che riveli sullo schermo interiore l’immagine di bellezza che guardavamo senza vederla(90). Prima di trasmetterci il suo messaggio, infatti, la poesia – come una ragazza bella e intrigante che ci sfiora e va non sappiamo dove – ci deve attrarre con le sue forme, con le sue movenze, col suo mistero. Se è sghemba, non avvenente (se non viene a noi), il suo messaggio abortisce, come tanta pseudopoesia di iperletterarie, supponenti e disanimate avanguardie. Nell’attrattiva del verso è già implicita una sua espressività, che capiremo meglio un’altra volta; il suo ritmo ci affida il suo respiro. Il che non significa – naturalmente – che debba essere orecchiabile e nemmeno canonicamente eufonica. «Odio» – diceva Chopin – «la musica che non nasconde un pensiero latente». L’attacco della Quinta (quelle quattro insostituibili note in cinque battute – anziché quattro come le regole avrebbero voluto-) sono un accordo di tonica incompleto, nel quale Beethoven stabilisce una tonalità senza darcene i punti chiave, senza cioè le basi Do e Sol. E’ da lì che nasce quel tremendo senso di sospensione(91). L’incompiutezza, ancora una volta. Il non detto che scaturisce dal detto, da quello specifico detto, l’evocazione nell’udito interiore generata da un ascolto insostituibile e indeterminato ad un tempo. La poesia è come un sogno che dica e non dica, ma che (come certi sogni in prossimità del risveglio) ci lasci l’impressione di una rivelazione imminente(92). Rivelazione di che cosa? Di qualcosa che avevamo perduto o dimenticato; che forse, inconfessatamente, avevamo rinnegato. Conoscere vuol dire ritrovare. Si perviene a intendere quello che eravamo predisposti a fare nostro(93). La poesia è una missiva invisibile scritta con inchiostro simpatico tra le righe di una lettera pervenutaci: diventa leggibile solo se il destinatario l’espone, da solo a solo, alla fiamma della sua attesa, determinando una reazione per simpatia (σνμπαθεια). E’ questo il suo modo di comunicare. Per essere percepite, la poesia, l’arte, devono suscitare empatia, cioè il piacere di condividere come proprio il messaggio dell’autore, di riconoscere in esso il messaggio che inconsapevolmente attendevamo. Il sapere è il godimento dell’altro(94). La primigenia gioia di capire[…](95).

12. Quando non c’è più bisogno di parole per percepire quel messaggio recondito, quando la parola poetica, pur così parca, risulta inadeguata per eccesso, allora essa ha conseguito la sua revelatio. Il paradosso s’invera: il poeta – per assurdo e ridicolo che sembri – crea il mondo con le sue parole, con quelle parole. No, non è (o non è solo) un’illusione, come non è illusione che il bambino cresca, scopra il mondo. Per ciascuno di noi il mondo esiste solo in quanto entra nell’orizzonte della propria mente. La poesia realizza un superamento di significato. Ecco perché sembra che magicamente crei per noi un nuovo spicchio di realtà; perché ce la fa scoprire. «La vera arte, non va dimenticata, estende la nostra conoscenza del mondo non meno che la scienza»(96). Nel momento in cui questo avviene, la poesia, l’arte, consentono uno scambio profondo, un’interazione di personalità simile a quella che si realizza tra due innamorati i quali si compenetrano. Il contatto è giunto a segno; decodificato, è stato ricodificato e ricomposto, altrui e nostro nell’atto in cui ne godiamo: lo schermo interiore s’illumina e noi vediamo. Mittente e destinatario, sconosciuti l’uno all’altro, sono qui, adesso, compresenti – magari a distanza di secoli – in un’interazione che estrinseca l’uno e interiorizza l’altro. Ho costeggiato per anni a nuoto, da ragazzo, estate dopo estate, le spiagge di Riace, senza sospettare minimamente che sotto pochi metri d’acqua – quell’acqua che portavo a me una bracciata via l’altra – ci fosse un’altra presenza, sdraiata su un letto di sabbia. Dopo averli cullati per millenni nel suo liquido oblio, il mare ci ha offerto – ha offerto a noi – i guerrieri di bronzo, alzatisi in piedi ai nostri giorni come se soltanto adesso, soltanto per noi, prendessero forma dall’inconscio dell’artista. Di chi sono i guerrieri di Riace? Di Fidia, di Lisippo, di un Pitagora reggino, d’ignoto scultore? Come il mare, così l’arte, la poesia non sono nostre o di un altro. Una poesia, una composizione musicale, una statua, un quadro non appartengono all’autore più di quanto non appartengano al lettore, all’ascoltatore, al contemplatore che, entrando in sintonia (in σνμπαθεια, dicevano i greci), li faccia rivivere dentro di sé. Quando questo avviene, allora si realizza un piccolo miracolo: poeta e lettore, musicista e ascoltatore, pittore e contemplatore sono un tutt’uno per il tratto di tempo in cui sentono allo stesso modo. Lo scultore che, millenni or sono, scolpiva i suoi guerrieri di Riace e noi che per un dono del mare li sfioriamo oggi con gli occhi e con le dita, siamo contemporanei. Beethoven che, quasi due secoli fa, scriveva l’ultima nota su uno spartito e noi che siamo oggi pervasi dalla sua musica, siamo contemporanei. La poesia, l’arte (sto parlando ovviamente della grande arte; in arte, come nell’incontro con una ragazza, l’insignificante si dimentica subito) ci dislocano – con un salto in un’altra forma di esistenza – fuori della camera premortuaria della nostra quotidianità. L’arte dunque realizza – quando lo realizza – questo prodigio : si sottrae (e in certo senso ci sottrae) alla spietata irreversibilità della legge dello spazio-tempo. Ecco, è tutto qui. E’ questo, questo «nonnulla» che «fa» la poesia.

13. Sì, io la sento così; almeno mi pare. O forse sto parlando di un’altra cosa (se non è metafora questa…), sto parlando della divinazione. Cioè, non è questo, forse, che volevo dirvi. La poesia non collima con nessuna dichiarazione poetica. «Siamo, non so come, doppi dentro di noi, per cui quello in cui veramente crediamo, non lo crediamo»(97). Dio mio! Per contrastare teorie altrui ve ne ho inflitta una mia. Avrei dovuto, invece, per tener fede al mio assunto, farvi – semmai – un esempio. Beh, ve lo farò; è dall’inizio di questo scritto (anzi da quarant’anni) che ce l’ho in mente. Non vogliatemene troppo per quello che sto per dirvi né per quello che vi ho esposto finora, o per lo meno concedetemi un’attenuante: «I migliori non hanno convinzioni, mentre i peggiori traboccano di intense passioni» (W. B. Yeats)(98). Ecco, io credo che la storia umana progredisca per saltus. L’uomo ha volato non per i marchingegni di Icaro e di Leonardo ma quando è stato inventato l’aereo (per il quale era essenziale il motore; non bastavano le ali e la voglia di volare). Gli alchimisti, per millenni, hanno sottoposto a ogni sorta di processo chimico gli elementi più diversi senza riuscire a trasformarli in un altro. E’ evidente, oggi, che a quel fine occorreva intervenire sul nucleo atomico, non semplicemente sulla struttura chimica. Occorreva cioè un processo fisico, come scoprì Enrico Fermi utilizzando (i proiettili – i neutroni – che gli forniva) la radioattività e sebbene adoperasse complementariamente come intercapedine, per migliorarne l’efficacia rallentandoli, eccipienti perfino più semplicioni e infantili di quelli usati dagli alchimisti: la paraffina, l’acqua della fontana dei pesci di via Panisperna. Bene: volete un esempio di poesia, ma grande che più grande non si può? Qual è la più grande poesia? Quella che contiene la più grande metafora. Quella che ci trasporta (μειαφερω) al di là del risaputo e anche del predicibile. Quella che ci suggerisce l’idea più sterminata e tuttavia imprigionata in una formula, una formula che risponde, dilatando l’orizzonte degli eventi, ad alcuni fondamentali interrogativi. Quella che ci fornisce una nuova concezione dello spazio e del tempo e che comporta l’abbandono degli stessi postulati di grandezze assolute e di simultaneità degli eventi, implicando relazioni interagenti in cui tout se tient(99) ed enti diversi si rivelano aspetti diversi di uno stesso ente, a manifestazione congiunta (spazio-tempo) o alternativa (onda-corpuscolo). E’ una metafora nella forma dell’equivalenza, ch’è uno dei tipi di metafora. Chi l’ha scritta? Un perito tecnico ventiseienne, cui il padre aveva trovato un impiego in un ufficio brevetti. E’ una poesia cifrata ma non ermetica, sintetica ma non meramente simbolica, sufficientemente espressiva nella sua incompiutezza ancorché richieda un cambiamento di mentalità per essere fatta nostra. Non è strutturata secondo la tradizionale metrica(100) ma s’imprime nella memoria come i versi scanditi dagli aedi. Non è musicale né (che io sappia) musicata ma la sua risonanza riecheggia nell’orecchio interiore come l’attacco della Quinta di Beethoven. E’ formulata così: E=mc al quadrato. In principio fu la formula? E poi? Beh, sono diventato iconoclasta. Scherzo naturalmente: ma vedete dove possono portare, ad essere coerenti, la pretesa d’assoluto, un’ambizione e un disdegno eccessivi? «Tutto ciò ch’ è umano non è, in complesso, degno di essere preso molto sul serio; tuttavia, dal momento che siamo giunti a questo punto, sarà forse per noi conveniente fare questa cosa come si deve»(101).

Corrado Calabrò

Note

(83) «Hölderlin ha consacrato la sua parola poetica a questa dimensione intermedia» Heidegger, ibidem, p. 56.

(84) Nessuno, io credo, è così sicuro di sé da non aspirare al successo. Ma il successo è un participio passato: la valenza di una poesia, di un’opera d’arte si coniuga al futuro.

(85) Parole come elfi, le chiama M. Bellini (Prolusione, cit.).

(86) Heidegger, La poesia[…], cit., pp. 29, 33.

(87) Liuzzo, La presenza […] cit.

(88) «Come parlano gli déi ? […] e cenni sono/ fin dai tempi più antichi il linguaggio degli déi. Il dire del poeta consiste nel cogliere questi cenni per accennarli a sua volta […] Questo coglier (Auffangen) i cenni è un ricevere (Empfangen), eppure al tempo stesso un nuovo dare» (Heidegger, La poesia[…], cit., p. 55).

(89) Nietzsche, Umano, par. 199. Il maggior fascino dello stesso Nietzsche sta nella sua incompiutezza. A volte però l’incompiutezza è eccessiva: ad es. per la teoria dell’eterno ritorno Nietzsche non ci dà i riferimenti necessari per intenderla filosoficamente. Essa rimane perciò a livello di suggestione poetica, di propedeutica epistéme, non di intellezione intuitiva. Allo stesso modo la pensava Lou Salomé, l’amica interattiva cui Nietzsche comunicò questa sua dottrina; «era commossa dal tono e dai gesti, ma delusa dal messaggio»: cfr. la testimonianza di Safranski ricordata da Emanuele Severino, nel «Corriere della sera», 2 marzo 2002, p. 37.

(90) Non è con l’occhio che vediamo, vediamo col cervello; il quale riordina, inquadra, ricompone, interpreta, configura gli impulsi visivi, le vibrazioni luminose (cioè onde di una determinata lunghezza e frequenza, onde solo probabilistiche, che si condensano in fotoni, tanto per restare in tema) che gli pervengono, attraverso l’occhio, dall’esterno. La visione si forma nel cervello: è così che funzionano la pittura impressionista e, prima di essa, il mosaico (e un po’ anche lo sfumato leonardesco e il non finito michelangiolesco). Ma quello che vediamo in un dipinto di Monet non lo vediamo in una composizione di Mimmo Rotella. La scrittura ha portato un cambiamento nella percezione della poesia e in genere dell’espressione del pensiero (filosofia, scienza, ecc.). La cultura orale viene percepita esclusivamente attraverso l’orecchio; nella cultura scritta l’occhio conquista un ruolo importante (cfr. Baldini, La storia della comunicazione cit.).

(91) ) Beethoven e il suo tempo, Intervista a Roman Vlad di Corrado Augias, Supplemento a «La Repubblica» n. 124 del 27.5.1987.

(92) «La poesia suscita la parvenza dell’irreale e del sogno di fronte alla realtà tangibile e palese in cui ci crediamo di casa. E invece il reale è, al contrario, ciò che il poeta dice e assume essere». (Heidegger, La poesia[…], cit., p. 54).

(93) Cfr. nota 90. «Ogni lettore, quando legge, è lettore di se stesso» avvertiva Marcel Proust.

(94) Lacan, Il seminario cit., p. 8.

(95) Cfr. nota 25.

(96) Corti, Percorsi[…], cit., p. 14.

(97) Montaigne, Essais.

(98) Si veda peraltro nota 39, ultimo periodo.

(99) Ad essa ben si addice l’affermazione di sant’Agostino «Se la bellezza non è totalità non è niente»; affermazione che, se riferita a ogni espressione estetica, appare invece troppo pretenziosa, troppo totalizzante.

(100) E’ stata invece versificata un’altra formula: S’ode a destra uno squillo di tromba / a sinistra risponde uno squillo / d’ogni lato calpesto rimbomba / quattro terzi pi greco erre tre. Si tratta, com’è noto, del volume della sfera= (4/3) R3.

(101) Platone, Leggi, VII, 803 b.

4 commenti
  1. Ringrazio Corrado Calabrò per il suo romantico e generoso tentativo di definire la poesia, come di una signora che si vesta di parole – una scienziata, una scultrice, una musicista? –
    Sono sicuro che, col tempo, capirà che si tratta di parole; sì, quelle “cose” che non si possano toccare eppure son vive, quindi vere come l’autore che in vita le ha scritte: soddisfatto al punto che non cambierebbe una virgola.

  2. L’ha ribloggato su n a n i t a e ha commentato:
    Per essere percepite, la poesia, l’arte, devono suscitare empatia, cioè il piacere di condividere come proprio il messaggio dell’autore, di riconoscere in esso il messaggio che inconsapevolmente attendevamo.

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