7. Ma basta col grattare la tela; proviamo a darle una ripitturatina. Pur dopo ogni considerazione detrattiva resta difficilmente contestabile che la parola poetica nella sua classica significazione appare, se scritta ai nostri giorni, insopportabilmente pretenziosa. Dai tempi di Omero, di Dante, di Shakespeare, la parola ha subito un irrecuperabile processo di designificazione. Ai levigati blocchi di parole di un Goethe e di un Thomas Mann preferiamo il periodare proteiforme di certa prosa e la versificazione tentacolare di certa poesia dei nostri giorni. E’ difficile, improbabile il ritorno a un’epoca antecedente la separazione tra le parole e le cose(58); tanti, troppi anni di schematismo mentale, di sterili esercitazioni a vuoto, di Cabala, di uso ed abuso corrente della parola, hanno artefatto, devitalizzato i nostri sensori. E chi, a cena, ricorda più la consacrazione, anche se il pane e il vino sono sulla tavola e se tra i convitati c’è un sacerdote che faccia furtivamente il segno della croce? La fiducia nella parola rivelatrice è scossa irreparabilmente. Così per le idee, per la verità trascendente come per l’intuizione estetica. Oggi l’insicurezza, il senso di precarietà, lo scadimento della religiosità (nel senso di relazione con la divinità: religio est relatio), il sospetto dell’insignificanza di ogni cosa, dell’impossibilità di cogliere l’essenziale di una realtà cosmica che ci nullifica e di una vicenda umana dissociata e dispersiva, ci fanno sentire in balia della casualità. Ed è contro l’esperienza del nostro vissuto come di quella della religione, della filosofia e della scienza dei nostri tempi sia la presunzione teologica della diretta spiegazione del divino sia l’ambizione laica di un’intellezione esplicabile in cui l’ideale e il reale, l’intuizione e la percezione, l’assoluto e la storia giungano a identificarsi. Platone considerava la natura un’imitazione delle idee. Noi dovremo considerare il mondo esterno una proiezione di quello informatizzato? Dobbiamo accostumarci alla marmellata verbale, alla comunicazione banale, insignificante? Non ci resta che rassegnarci alla dequalificazione della parola, a un’epifania da «chi l’ha visto?» televisivo, o altrimenti al silenzio rinunciatario, all’afasia? Anche la religione vive nel suo tempo e comunica con i mezzi d’espressione contemporanei. E’ entrata così parimenti in crisi la parola quale via privilegiata dell’autocomunicazione divina, secondo la tradizione ebraico-cristiana: «In principio era la Parola». Da qui la (ri)scoperta del silenzio(59), spazio aperto all’invocazione e all’incontro con l’Altro: In principio era il Silenzio?. Esprimere l’indicibile è al tempo stesso impossibile(60) e irrinunciabile; indispensabile, per qualche ragione che ci sfugge. La poesia, il bisogno dell’illimite, sono un po’ come la massa mancante all’universo visibile: incombono sul nostro senso dell’esistere, ancorché percepibili solo intuitivamente. Malgrado tutto e tutti avvertiamo un bisogno irreprimibile di rivelazione della bellezza. La scoperta di qualcosa che ci portavamo dentro, allo stato larvale, preconscio, cui solo il tocco di grazia dell’arte può dare una forma di vita. Ma la bellezza, come la verità, può solo essere evocata, non espressa direttamente. Ed ecco che la teofilosofia ha riscoperto una nuova, polisemica valenza nella rivelazione, secondo l’originaria accezione ambivalente della parola re-velatio, nella quale il re può avere tanto il significato di reiterazione quanto di ritrazione, dell’infittirsi o della caduta del velo(61) , dello svelarsi di ciò che è nascosto o dello sfocarsi di ciò che è noto(62). E sia: che altro è questa duplicità di copri-scopri, quest’anfibologia di sensoultrasenso se non il gioco dell’analogia, dell’allusione, della metafora, cui da sempre è affidata la funzione evocativa della parola poetica? «I veri pensieri nei veri poeti avanzano tutti velati, come le egiziane»(63). L’analogia, la metafora, reprimono, rendono recessivo il significato usuale, corrente, convenzionale dell’espressione per farne intravedere un ulteriore. Io non so se la metafora abbia davvero origine in uno strato arcaico del nostro cervello, antecedente il più evoluto livello cerebrale nel quale si formano i concetti (Blumenberg). Probabilmente la metaforizzazione ha qualcosa a che vedere con l’istinto, nel senso di implicazione di un sapere insito, almeno potenziale. Forse tra presente e passato intercorre un rapporto archetipico e subliminale, che potremmo chiamare presente anteriore (64) (ma lo stesso avviene forse per il rapporto tra presente e futuro). Comunque sia, la metafora è ancor oggi – a distanza di millenni da Sofocle, da Eschilo, dai lirici grechi, a distanza di secoli da quando in poesia tutto sembra essere stato detto – uno strumento linguistico-psichico insostituibile per far sì che l’espressione verbale sia ancora ad-verba(65), tenda ancora al non detto e magari all’indicibile. Al tempo stesso, e indissociabilmente, la metafora è una maniera per dare un ultrasenso alla realtà, per rivelarcene la valenza riposta. La pseudoverità poetica (possiamo dire, parafrasando Nietzsche) è un mobile esercito di metafore; si sposta sempre un po’ più in là (μεταφερω) del punto di contatto che stavamo per raggiungere.
8. Stiamo parlando, sotto altra denominazione, dell’intuizione?
E’ talmente ricco il concetto d’intuizione che negarlo sarebbe insincero; anche se ammetterlo può metterci in cattiva luce. Da Kant in poi, infatti, si fa a gara a negare l’intuizione alla mente umana, così come la critica letteraria rifiuta sdegnosamente quale malsana ed equivoca- l’ispirazione all’artista. Ma il diniego kantiano si buttava apoditticamente dietro le spalle una tradizione filosofica che l’intuizione aveva invece ammesso, una tradizione che da Platone e Aristotele giunge ad Agostino e Tommaso e che è poi riaffiorata –malgrado Kant ed Hegel– con Fichte, Schelling, Schopenhauer, Schleiermacher, Novalis, Bergson, Husserl. Chiude gli occhi, soprattutto, di fronte al modo di progredire della scienza. Ho già altra volta(66) riportato gli espedienti cui ricorre la scienza, nella sua più avanzata frontiera, per rilevare e per rivelarci, intuitivamente, le sue ultime scoperte. L’ultima epifania della scienza (sia pure col supporto di sofisticate tecnologie -circuiti acceleratori potentemente magnetizzati e appositi rivelatori) avviene mediante metafore intellettuali (non troppo dissimili da quelle di Platone: ricordate la caverna?) e in esse si risolve. Il loro valore non sta in quello che ci mostrano graficamente (le tracce di alcune scie luminose) bensì in quello che ci fanno intuire (con la loro angolazione e con la loro curvatura): l’esistenza di particelle ricercate, rivelate da altre effimere particelle messaggere. Analogo è il valore medianico della parola poetica. E’ questa la nostra più visionaria veggenza, ch’è altra cosa della visione del mondo prosaico. E’ il nostro terzo occhio. L’intuizione opera in duplice modo: nel trasmittente e nel ricevente. Scriveva Montaigne: La parole est moitié à celui qui parle et moitié à celui qui écoute. Avanza sul vuoto il poeta – avanza su se stesso mentre esplora il filo teso con il piede prensile – cauto avanza un passo alla volta, come l’acrobata, sul filo della propria solitudine. Ma quel filo è un filo trasmittente che ha all’altro capo un recettore. Per questo però occorre che il ricevente, il soggetto che sta all’altro capo del filo, si metta in giusta posizione. E’ questo il significato della parola greca επισιημη – mettersi in buona posizione(67)-, così come in posizione epistemica si deve situare il trasmittente. Il che significa –anche – obbedire a certe regole di trasmissione nella modulazione del verso(68).
9. Cosa ci spinge alla scommessa così spesso perdente, al tentativo assoluto e fallimentare della poesia? Cosa ci spinge ad innamorarci? Il bisogno della parte mancante (forse solo implicitamente) al senso-non senso della nostra vita. Siamo trasportati su una scala mobile della quale ci illudiamo di salire i gradini mentre i giorni e gli avvenimenti ci scorrono accanto, senza che ci possiamo fermare, senza che possiamo arrestarli. A una certa età – ma anche a diciott’anni con l’ipersensibilità che si ha nel momento in cui ci si affaccia alla soglia della vita operativa e non se ne vede lo scopo ultimo – a una certa età, comunque, ci si sente ingabbiati nel proprio scheletro, se non si è completamente ottusi. Più o meno consapevolmente, più o meno saltuariamente, sentiamo l’esigenza di stabilire un contatto con qualcosa che vada al di là del ripetitivo e del convenzionale, avvertiamo sotto sotto che il fluire del quotidiano, il profluvio d’immagini che scorrono sullo schermo, ingoiano in una distesa amorfa la rotta che vorremmo seguire, il nostro presente-passato insieme con la nostra attesa. Ma come viene a visitarci la poesia? «Ognuno di noi» notava Max Jacob «ha in mente un grande testo, tranne nel momento in cui decide di scriverlo». «Il primo verso è sempre un dono degli dèi» testimonia Paul Valéry, che pure era un raziocinante, non certo un romantico. «Allora dico che la mia lingua parlò quasi come per se stessa mossa e disse : Donne ch’avete intelletto d’amore».(69) Accade come in amore. Quanti ragazzi hanno guardato quella ragazza senza vedere in lei nulla di più delle altre? Poi un ragazzo s’innamora e vede in lei una bellezza che nessun altro ha visto. La poesia, l’arte fanno lo stesso. Ci rivelano una bellezza che era sotto pelle e che avevamo guardato senza vedere: per trasparire abbisognava dell’asportazione della cataratta dell’abitudinarietà: un intervento oculistico di chirurgia estetica che ci apre gli occhi. E’ come il fiammifero di Prévert. Ricordate quella poesia di Prévert, Tre fiammiferi accesi nella notte? Un innamorato, al buio su un ponte sulla Senna, accende tre fiammiferi: uno per vedere gli occhi, uno per vedere la bocca, un terzo per vedere il volto tutto intero della sua ragazza. Omero e molti altri poeti antichi anteponevano ai loro poemi l’invocazione delle Muse. «Ma gli déi possono venire alla parola solo se essi stessi ci chiamano e ci reclamano. La parola che nomina gli déi è sempre una risposta a questo richiamo […]. Solo in quanto gli déi portano al linguaggio il nostro esserci, noi accediamo al domino della decisione di de-dicarci (zusagen) oppure di negarci (versagen) loro»(70). Osserva Louise Glück che l’esperienza fondamentale dello scrittore «è l’impotenza […] la maggior parte degli scrittori passa molto tempo in vari tipi di tormento: voglia di scrivere, incapacità di scrivere, desiderio di scrivere diversamente, incapacità di scrivere diversamente. E’ una vita resa degna […] dall’anelito non resa serena dalla certezza dei risultati ottenuti». La nostra psiche è usualmente attestata a un livello prepoetico, piallato dall’abitudinarietà; un livello nel quale la visione poetica latita come mera virtualità. Ma quando, in condizioni appropriate, un impulso giunge ad eccitarla, la virtualità si trasforma in un’intuizione poetica effettiva. Nelle nature più dotate l’impulso può provenire dallo stimolo più casuale; nelle altre (e in tutte) è indotto da una determinata combinazione di segni espressivi che risulti felicemente appropriata alla capacità recettiva del potenziale destinatario, un po’ come una lente adattata dall’ottico all’occhio del cliente dalla vista difettosa. In quel caso, in quel momento, si produce una fluttuazione che porta a un salto di livello, a uno sbalzo di percezione che ci fa vedere qualcosa che gravitava oscuramente sul nostro preconscio: un’onda emozionale – intellettiva si rapprende in un’immagine. Il poeta si esercita, così come un calciatore si allena, fa preparazione fisica, palleggia, sta in panchina, in attesa di giocare la sua partita. Ma il lungo lavoro di sperimentazione, di esercizio, serve semplicemente per essere pronti in quell’attimo, in quella fase che è stata definita d’avantesto, cioè la fase di gestazione del testo, in cui ci troviamo in uno stato d’attesa, d’incubazione di qualcosa che preme oscuramente a livello subliminale; preme per prendere forma. «La parola poetica è davvero capace di nominare solo quando gli déi stessi ci conducono linguaggio».(71) Il poeta risente dell’ipertrofia del suo io. Eppure Io è un altro ha detto (e ha detto giustamente) Arthur Rimbaud, nel senso che il poeta assiste al nascere della poesia. Il poeta parla di sé a se stesso ma è poeta solo se, così parlando, dà agli altri la risposta che attendevano senza saperlo. Conosce solo le sue piccole esperienze ha provato solo le sue personali percezioni ma –se è poeta- il suo fare poesia è «allusivo a processi che in qualche modo si riferiscono a tutti i destini umani»(72). Il massimo di individualità, di aderenza al particolare (la poesia non tollera proclami né genericità) e al tempo stesso il massimo di universalità. E’ questa una delle tante contraddizioni che trovano conciliazione nella poesia. La poesia non comporta solo lo spiazzamento del senso dell’ovvio, la poesia contraddice al principio di non contraddizione: ne è dimostrazione la stessa poesia di Dante, che pure sembrava crederci tanto («per la contraddizion che nol consente»). E’ invece congeniale alla poesia l’indeterminatezza. E tuttavia, se è vero che la sensazione poetica non può essere circoscritta nella sua indeterminatezza è altresì vero che nella parola poetica «la misura deve venire preposta allo smisurato»(73). Ecco un’altra contraddizione. Ed ecco perché la metrica si addice alla poesia, come già gli aedi avevano scoperto e come i neurobiologi oggi ci spiegano: la nostra attenzione ha una sorta d’interruttore interiore che attacca e stacca in continuazione: nell’attimo in cui gli aedi facevano un intervallo -e in cui nella scrittura il verso va a capo-, si ha una piccola pausa che consente al cervello di registrare quello che ha appena percepito e di predisporsi al verso che verrà. E’ per questo che la metrica sta al verso come il battito cardiaco sta al respiro: dà alla poesia la misura della nostra attenzione. Insofferente di griglie, la poesia trova connaturale modularsi nella sua scansione. Un soffio sembra attraversare in certi momenti il nostro stato d’animo e preannunciarci che sta per recarci la rivelazione di qualcosa che ci predispone a un’improvvisa sovradeterminazione. Sì, a volte – in un momento felice che ha del magico – un’immagine, una percezione, un’intuizione si stacca dal film travolgente del quotidiano e s’impone all’attenzione con una suggestione imprecisabile, condensando in sé un significato che ci conquista come una rivelazione, tanto da diventare un’immagine, una percezione, un’intuizione sovradeterminata: un orizzonte di significato è stato oltrepassato. Ma se non sovviene in qualche misura a un’attesa, se non genera un preannuncio, se non induce un presentimento prima e una sovradeterminazione poi, il messaggio resta sigillato, inerte, non entra in risonanza, non provoca quel trasalimento interiore ch’è il segno dell’attraversamento di una soglia di percezione. L’io non si è coniugato con l’altro da sé. L’autore è rimasto con il cerino in mano. Non è riuscito a farci intuire quello che lui ha intravisto. Non è un poeta, è un poetante(74). La creatività (cioè la massima espressione di libertà, di liberazione) sembra stranamente (straniatamente) soggiacere a una sua interiore αναγκη. Ma tutto questo deve avere l’aspetto d’un gioco (è un gioco anche il poker, lo è anche la roulette russa)(75). In una lettera a Liszt del 20 novembre 1851, a proposito del Ring der Nibelungen Richard Wagner «confessa che a un certo punto della sua invenzione l’opera gli ha dettato la sua volontà. Questo rivela quanto poco un artista sa, all’inizio, dell’opera che ha preso a trattare. Wagner scrive: questo io non l’ho voluto, ma ora lo debbo. Dio m’assista. Nessuno più didattico di Poe su questa faccenda, là dove in The Philosophy of composition illustra il modus operandi di uno scrittore, il progressivo generarsi di una struttura: man mano che il poeta lavora, le sue scelte hanno sempre minori possibilità alternative sinchè alla fine la struttura risulta ferrea, quella appunto del Corvo. Forse solo nel processo artistico la diminuzione di libertà è atta a costituirsi in elemento positivo»(76). «Hölderlin sente dire : Siano liberi come rondini i poeti[…]. Ma questa libertà non è arbitrio senza vincoli e desiderio capriccioso, bensì suprema necessità»(77). La poesia cresce dentro come un embrione nel poeta ingravidato, matura come un frutto finché il poeta sente che non può più cambiare un verso, una parola, un’interpunzione, a pena di guastarla, di falsarla, di tradirla. Ma non per questo il poeta sarà pienamente soddisfatto della sua opera. La poesia, anche nelle opere più riuscite, resta sempre sospesa, in definitiva, tra l’inveramento della promessa e la negazione definitiva. In un frammento di Hölderlin, riportato da Heidegger(78) è detto «Tu parlasti alla divinità, ma questo avete dimenticato tutti quanti: le primizie non appartengono mai ai mortali, esse appartengono agli dèi. Il frutto deve dapprima farsi più comune, più quotidiano, poi sarà proprio dei mortali». E’ come se ci fosse per la poesia (per l’arte) una legge naturale tutta sua che rifiuta al tempo stesso la casualità degli accostamenti e la predeterminazione della loro ricerca. Come se esistesse una scala cromatica che il poeta deve scoprire a occhi chiusi. L’intervallo tra quando un dio ci ha visitati ed è andato via e un altro deve ancora venire può essere lungo, molto lungo. «E’ il tempo degli dèi fuggiti e del dio che viene. E’ il tempo di privazione perché esso si trova in una doppia mancanza e in un doppio non: nel non più degli dèi fuggiti e nel non ancora del dio che viene»(79).
10. Per l’eco interiore la parola deve fare intorno a sé il deserto. Occorre dunque fare il vuoto attorno al detto per lasciare spazio al non detto in quella terra di nessuno che si estende tra il rappresentato e l’intravisto(80). «L’analogia si muove fra parola e silenzio … afferma la continuità del senso nell’eccedenza del significato» segnandole il limite, «in quanto oltre la parola sta e resta l’eccedenza indicibile»(81). E’ dal non detto che scaturisce l’evocazione: solo che – è questa la peculiarità – si tratta del non detto indotto da quella particolare espressione. E’ essa e essa soltanto a produrre quella vibrazione interiore che trasforma la ricezione in consonanza. Sta qui la differenza (parziale) con l’ipertesto, ancorché l’annuncio che ci suggestiona non sia (per la poesia come per l’ipertesto) quello che il nostro autore voleva trasmetterci bensì quello, seminconscio, preterintenzionale, che si rivela a lui stesso solo nell’atto in cui lo decifra per noi. E’ come il braccio di una telescrivente che improvvisamente trascriva un messaggio sconosciuto che viene da lontano, ma del quale, nell’atto stesso in cui lo decriptiamo, ci sembra di riconoscere da sempre la provenienza. Anche quando il tentativo può dirsi riuscito, il lampo di bellezza che gli altri (ognuno per proprio conto) vedono non è propriamente quello che il poeta voleva mostrare; è una bellezza mutante, è un messaggio che si rigenera per interazione, ma per interazione proprio con quel messaggio. Un messaggio indotto dall’inconscio, non trasmesso concettualmente, ancorché filtrato attraverso i circuiti cerebrali e quindi con la stessa sequenzialità del linguaggio. «Cogliere significa nominare l’alto stesso […] ma il cantore non vede l’alto stesso. Il cantore è cieco»(82) La cecità di Omero è emblematica della condizione del poeta: il poeta non vede il quotidiano, guarda (e intravede in qualche modo) al di là.
Corrado Calabrò
Note
(58) I semiologi parlano di linguaggio disoccupato, un linguaggio inconsistente che non genera interesse, viene subíto solo in momenti di disattenzione ad altre cose più interessanti. Occupatrice, anzi invadente e invasiva, e tuttavia disoccupata è altresì la musica fin troppo leggera di tante, troppe canzonette (certo non di tutte), che peraltro trova ampio spazio nel nostro vuoto interiore.
(59) B. Forte, Il declino del senso della parola nella comunicazione, Considerazioni teologiche, 2000.
(60) «Dire chi è Lui stesso che abita nel sacro e, dicendolo, farlo apparire : per far questo manca la parola che nomini. Perciò il cantare poetante, mancandogli la parola autentica, la parola che nomina, resta ora un canto senza parole» (Heidegger, La poesia […], cit. p. 32).
(61) B. Forte, Teologia della storia. Saggio sulla rivelazione, l’inizio e il compimento, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1991.
(62) «Il velo non è un limite, non cela ma rivela, è una rivelazione. Maya, che sarebbe poi il velo, è ciò che mi permette di vedere la realtà, che altrimenti sarebbe invisibile. Senza velo l’uomo non conoscerebbe la realtà. La luce non si vede, ma fa vedere» : Raimon Panikkar, Intervista di Antonio Gnoli, in «La Repubblica» , 23 dicembre 2001. Col suo Principio di falsificazione K. Popper consiglia di continuare a togliere i veli di Maya, abbandonando ogni tentazione di olismo (che fa rima con assolutismo e totalitarismo).
(63) Nietzsche, Umano cit., par. 109. Ma a noi compete sotto le tempeste del dio,/o poeti, stare a capo nudo,/ afferrare del padre il raggio stesso con la mano/ e porgere al popolo, velato/ nella canzone, il dono divino. (Hölderlin, Gedicht).
(64) Cfr. appresso, paragrafo 12. Siamo sicuri che non conoscano in qualche modo il futuro gli uccelli quando si mettono a costruire per la prima volta il nido? L’istinto, si dice. Ma che cos’è l’istinto? Una conoscenza collettiva inintelligibile insita nei nostri geni? V. anche la nota 45.
(65) M. Cacciari, Intervista a «La Repubblica» , 9 maggio 2001.
(66) «Le particelle subatomiche non sono da noi direttamente percepibili. L’espediente cui ricorre la scienza moderna per coglierne un segno è questo: in circuiti potentemente magnetizzati si fanno scontrare come palle di biliardo particelle che viaggiano ad altissima velocità in direzione opposta. Le particelle non si vedono né prima né dopo lo scontro, ma in appositi rivelatori alcune scie luminose, con la loro angolazione e con la loro curvatura, consentono di desumere la brevissima esistenza di particelle subatomiche e di forze subnucleari. Sennonché, anche quando l’esperimento riesce, esso ha fornito un’esternazione solo indiretta, per così dire metaforica, della realtà che lo scienziato ha intravisto intuitivamente. Non si sono viste nel rivelatore le particelle subatomiche né le loro onde, ma semplicemente i segni indiretti della loro presenza. Non solo; spesso non si vedono nemmeno le tracce delle particelle realmente esistenti in natura e ricercate, bensì quelle di altre particelle create artificialmente dall’alta energia della macchina acceleratrice, che delle prime rappresentano solo una trasmutazione, un effimero movimento di passaggio, poco più di un messaggio voluto, che si esaurisce in se stesso. Si esaurisce, cioè, nell’annunzio dell’evento realizzatosi in un attimo; così, senza alcuna funzione ulteriore. Eppure è l’ultimo orizzonte della realtà scientifica d’oggi» (Calabrò, Per la sopravvivenza […], in «Poesia» n. 143, cit. ).
(67) Lacan, Il seminario cit., pag. 17.
(68) La parola verso, in greco στιχος, significa infatti ταξις, cioè ordine, disciplina: Nicola Crocetti, Introduzione alla poesia di Nasos Vaghenàs, relazione tenuta al Cipresso tecnologico, Firenze, 27 aprile 2001. L’affermazione della perdurante necessità di una struttura metrica del verso non è in contraddizione col mio rifiuto di
griglie: v. appresso paragrafo 9.
(69) Dante, Vita Nuova, XIX, 2.
(70) Heidegger, La poesia[…], cit. pp. 48, 49.
(71) Heidegger, ibidem, p. 55.
(72) Corti, Percorsi […], cit., p. 16.
(73) Heidegger, La poesia[…], cit., p. 50.
(74) «Tutti possono fecondare e generare, ma solo l’artista porta il feto a completa maturazione» (Corti, Percorsi[…], cit., p. 14).
(75) «La poesia ha l’aspetto di un gioco e tuttavia non lo è. Il gioco riunisce gli uomini, ma in modo tale che, giocando, ognuno dimentica proprio se stesso. Nella poesia, invece, l’uomo è raccolto sul fondamento del proprio esserci» (Heidegger, La poesia[…], cit., p. 54.
(76) Corti, Percorsi[…], cit., p. 13.
(77) Heidegger, La poesia[…], cit., p. 54.
(78) La poesia[…], cit., p. 45.
(79) Heidegger, La poesia […], cit., p. 57.
(80) «La pittura deve aspirare al silenzio, deve fare il silenzio intorno a sé, deve diventare un’eco perfetta» raccomandava Cézanne. V. anche nota 11.
(81) Forte, Teologia della storia cit.
(82) Heidegger, La poesia[…], cit., p. 32.