Marco Bellini è noto per essere un poeta di sorvegliato registro lirico, di contenuto profondo, ampio nel dettato colto ma mai ampolloso e/o intellettualistico. Quanto sopra affermato non è riconoscibile in questo volume; coraggiosamente Bellini si è avviato sul sentiero del nuovo, del futuro, comunque del futuribile , soprattutto ha dato voce alle istanze interrogative più che al suo ego spartano. Molti versi, molte strofe , si chiudono con un’at (@) che chiama il lettore a interloquire; infatti il simbolo ci consente di entrare in relazione con l’altro, è grossomodo simile al codice di avviamento postale; giunge quasi sempre inatteso, non ha la sonorità di un gong , ma neppure la dolcezza di un segno di interpunzione; sembra sussurrare di prendere in mano il nostro destino, di raccogliere tutti i fili e di annodarli per ripercorrere le trame degli eventi che ci hanno consentito di arrivare all’at. Più che al rituale poetico , le poesie rimandano ad una filosofia che non ha ancora trovato le risposte all’origine e alla fine; ci sono solo orme, più o meno distanti, orme di terra che non tradiscono il tradizionale uomo d’argilla, al quale hanno fatto seguito i discendenti procedendo a casaccio, spesso l’uno contro l’altro belligeranti, sicché di certo è rimasto ben poco: la distanza delle orme, la loro fissità di fossili, la loro esistenza morgana: esistono o le immaginiamo? Leggiamo questa dolente dichiarazione di poietica ( pag. 19) dove si può cogliere anche il valore semantico della chiocciolina:
In disaccordo, nascondendo la presenza
senza capire dove, cerchi
la poca luce, l’angolo
che nessuno pretende.
Il cibo della sera resta l’orizzonte lontano.
l’intercapedine, il cono d’ombra
dove tieni le ore private
non possono essere una somiglianza.@
Mutati nella vergogna , gli occhi
come un chiaro d’uovo:
anche il bianco può essere
il colore della paura.
Quale sorte si prospetta dunque all’uomo? Non sarà certo Bellini a rivelarla, ammesso che ne abbia un’idea; la sua essenza identitaria non lo affranca, ce lo pone a fianco , frate alla ricerca delle orme , studioso delle stesse e intanto tesse con noi lettori dialoghi che estende a chi ci ha preceduto e chiede anche alle pietre la giustificazione topologica e formale . Eppure non mancano poesie che coinvolgono i cari; i versi allora acquistano spessore, tralucono di una tenerezza sublime : sono coloro che hanno una giustificazione al nostro essere qui, ora, canne al vento , come affermava Blaise Pascal, che si flettono ma non si rompono . E ancora più vicino ai tempi sento lo zittirsi di Heidegger : se dalla parola veniva il mondo, decretata la sua inefficacia, si deve tornare alla terra, alle orme, confuse e distanti, prossime e disarmoniche ma autentiche. Non è certo un libro che si diletta a dilettare, questo di Marco; ficca domande nella mente e lascia agire . Non sono medicamenti né placebo, sono un modo ritroso per procedere rasoterra verso lo sconosciuto infinito.
Narda Fattori
LA DISTANZA DELLE ORME
@
*
Voci recise, distanti
sanno la presenza dell’ascolto.
Ritrovate tentano,
come il sole le ombre sui muri,
la parola
ogni suono deposto.
L’appartenenza sospesa
@
*
Sotto le scarpe gli avanzi
di una terra che non puoi dire.
Da straniero calpesti la nuova
ti chiedi cosa ancora di te,
cosa conservare, un riconoscimento
altro. Nulla si è trovato.
*
Sei un uomo in partenza
rimetti mano ai conti, stavano lì
per negare.
Tracci la fila: quanti sono
gli abbandoni le mani staccate.
Non vedi pretesti.
Disarmato nella spunta
hai misurato il peso lasciato. @
La carne avuta
come un inganno non è bastata.
*
Hai una carne fatta trasparente
il ricordo sostiene, anche se resta
inevaso il nome che veste. @
Manca la possibilità
il taglio in un’altra vita
dentro questo spessore
che non sei.
*
E non sarà possibile ricordare di te.
Ripulire le superfici avremo cura
le cose che popolavano l’imbarazzo inesorabile.
Renderà più semplice mettere via,
poi basterà
evitare il tuo nome.
Bambini apocrifi
@
*
(Per loro non hanno scelto la terra;
la terra non sa trovare il cielo).
Qualcuno ha pensato a dare un posto
perché resti qualcosa della carne
mischiata al latte. Dentro uno scavo
di legno caldo dove tacciono ripiegati
privati del loro progetto
i bambini apocrifi, destinati
a una prevaricazione accolta e subita. @
Un brodo scandaloso il midollo osseo
e la linfa; fluidi tornati alla parola
dentro gangli contaminati dove scorre
una “mortevita”.
*
Alberi che proteggono l’ultimo tepore
nella ferita disposta; talamo sigillato
dove si compie la mescolanza la confusione
delle ossa nel legno. Tra gli scavi
della corteccia affiora il muschio
dei pensieri; atti senza movimento. @
Vivono la morte, un giorno
per ogni giorno portati su
verso l’alto il gesto, ascendono
con un passo di cellulosa, proteso.
Per loro che non sanno, l’ombra
del tronco con le ore si sposta
misura tra l’erba il dono mancato.
Dove la volta si spande, tra le foglie
si fa nuovo un globulo rosso.
Madri antiche passano raccolgono
e cullano i frutti caduti.
L’enfant sauvage
@
*
Non sapremo mai dov’era per te
il luogo della parola madre,
quanti capezzoli contava, il timbro
dei suoni, del fiato trasmesso.
Un segreto che respinge: dove avevi preso
il latte, il calore per l’infanzia
dentro quel bosco che ti ha restituito
e i colori rimasti incollati all’iride
come un passaporto. @ Ti apparteneva
una pace, il posto dove riconoscerti,
dove stare era giustificato.
Marco Bellini nasce in Brianza, dove ancora risiede, nel 1964. Sue pubblicazioni sono: Semi di terra (Lieto Colle, 2007); la plaquette Attraverso la tela (2008); per le Edizioni Pulcinoelefante la poesia Le parole (2008); la plaquette E in mezzo un buio veloce (Edizioni Seregn de la memoria, 2010); Attraverso la tela (La vita felice, 2010); Sotto L’ultima pietra (La vita felice, 2013). Nel 2013 è risultato vincitore con inedito nelle selezioni italiane per European Poetry Tournament. Sue poesie hanno ottenuto riconoscimenti in diversi concorsi e sono presenti in numerose antologie, su blog e riviste di settore.