Pasolini ci dava identità, con la sua presenza in questo mondo. La sua morte ci invecchia tutti. Ci allontana senza mezzi termini dagli anni passati, dai furori della Contestazione, e ci butta in un presente che non abbiamo voluto, che abbiamo temuto e nel quale appunto non ci riconosciamo. C’è certo stato il 15 giugno (una data, una boccata d’ossigeno in un’Italia maledetta, capace di digerire, fascisticamente, ogni volontà di dissentire, di resistere), ma non basta a consolare il nostro cuore afflitto da questa immensa perdita: Pasolini combatteva per tutti noi, si contraddiceva per tutti noi, saliva sulla Croce per tutti noi, rispondeva al nemico per tutti noi; avrebbe certo trovato le parole più giuste per commentare la sua atroce morte, il suo assassinio, non solo, ma avrebbe intanto risposto come si deve a questi Soloni della Psicanalisi che nella loro abissale cretineria (gli psicanalisti, spesso, sono come i preti, ragionano con le idee ricevute, non le mettono mai in discussione, non disubbidiscono ai Padri) sono arrivati a congiungere l’omosessualità che è soltanto un comportamento sessuale diverso da quello della norma, senza complicazioni patologiche, con la paranoia, la schizofrenia e simili. Non si sono accorti questi Soloni che tutta la loro problematica negativa, le loro considerazioni possono essere rovesciate; e quando Maiore scrive che l’omosessualità è paranoia, qualcuno può obiettare che la paranota è una malattia tipicamente eterosessuale; e quando Servadio invece scrive che l’omosessualità é fondata sull’odio e che i rapporti omosessuali sono preda di ripicche, scenate, schiaffi e crudeltà mentali, non si accorge che le stesse parole che sta usando per ciò che moralisticamente sta condannando, facendo finta di accettare, possono essere rovesciate su un qualsiasi «menage» eterosessuale, fra moglie e marito? Ma certo Pasolini avrebbe avuto le parole più illuminanti non solo per ciò che offende la ragione, in questo paese ridotto alla bestialità usurata e cretina della Televisione, ma soprattutto sulla incapacità nostra di risolvere l’enigma della sua morte. Può essere che nessuno in Italia, nessuno, abbia scritto che il giorno prima della morte di Pasolini, a Roma, alla Piazza dei Santi Apostoli, Almirante arringò una folla di giovani ubriachi a vendicarsi della morte di un ragazzo fascista (da compiangersi, certo, per la giovane età)? Pino Pelosi poteva bene aggirarsi fra quel manipolo di sfaccendati fra i quali si fece largo l’idea mostruosa, di far fuori un diverso, facilmente denigrabile per la sua diversità? Ci siamo dimenticati che Pasolini fu per venti anni il bersaglio favorito della violenza e del dileggio fascista? Egli soleva dire con una parola che molto gli assomigliava per la tensione interna che si porta dietro: «Abiuro». Ecco, la sua lezione era quella di abiurare costantemente dalle idee passive, rinunciatarie, non pensate veramente, che lasciavano le cose come stanno. Non aveva neppure uno dei vizi dei letterati: sedentarietà, ruffianeria, cortigianeria. Era libero. Ora aggirarsi in una Roma dove non vive più, dà malessere. Intristisce. Eravamo abituati, noi delle nuove generazioni, a sentirlo parlare, a leggere i suoi libri, a vedere i suoi film. Era l’unico italiano che potesse essere messo accanto ai guru internazionali che ci eravamo scelti con gli anni, Allen Ginsberg o Che Guevara. Non abbiamo più nessuno che sia moderno e contemporaneo come lui con cui confidarci. Siamo tutti un po’ orfani. Dobbiamo ora come nel 1945 riedificare un’Italia coperta di macerie morali. Che si trascina in questi ultimi anni’ in un polverone di decadenza e di morte nera. Dobbiamo trovare le parole giuste per parlare, senza paternalismi, ai ragazzi, ai giovani, che ovunque ci sfuggono, perché nella loro afasia pure sentono che le nostre parole sono vigliacche e stente, e sono intrise della ideologia dominante. Dobbiamo spiegare che in qualsiasi momento essi volessero, ci metteremo in discussione, come scrittori, come artisti, come giornalisti, come politici. Che la droga, che essi prendono voracemente, non è il paradiso artificiale che può risolvere i loro problemi, ma solo l’inferno della loro resa demoniaca al Potere che li vuole assenti e scoperti da ogni difesa. Ma queste parole bisogna trovarle; bisogna ancora una volta impegnarsi, resistere ai nemico, ritrovare una certezza per la quale la vita diventi degna di essere vissuta. Certo, nessuna delle nostre parole arriverà mai nella sterminata periferia urbana, o nella provincia dove possono accadere misfatti all’americana del tipo Vercelli, sicché il fenomeno droga risulterà insoluto finché non si colpiranno i grossi spacciatori che impestano la gioventù, per i loro biechi profitti. Inutile fare una campagna di stampa e propaganda contro l’eroina, o fare come i radicali (la cui lotta è sacrosanta, intendiamoci) che donchisciotteschi, con Pannella in testa, queste cose le dicono da molto, facendosi mettere in carcere nella loro adorabile battaglia civile, se poi gli spacciatori restano indisturbati, con la complicità mafiosa dei potenti, a diffondere la loro merce di morte. La diffusione dell’eroina testimonia sempre più spoliticizzazione virulenta a cui è andata incontro la gioventù italiana, dopo l’orgia della Contestazione. Diceva bene Pasolini che in Italia l’eroina, l’anfetamina, e la morfina avrebbero attecchito molto bene, considerando il vuoto spirituale in cui i ragazzi italiani sono stati tirati su. Nella omicida sottoculturale abiezione in cui sono stati costretti, unica evasione giustificata era la droga. Ed essi l’hanno presa nella convinzione di fare qualcosa che li riscattasse dal presente noioso e dalla paura del futuro fatto di disoccupazione o ruolizzazione negativa, in luoghi mercenari e senza fantasia. Un giovane che esce di casa per trovarsi lavoro, a Roma, e si avvia fiducioso verso la vita, trova subito una serie di delusioni cocenti che lo amareggiano; intanto e subito il nostro cinismo che lo offende, la nostra mancanza di ideali, l’accettazione supina della quotidianità consumista e idiota fatta di volgarità, povera di ogni argomentazione; e dunque se trova un compagno che gli passa una siringa perché non dovrebbe farsi un buco? In nome di chi dovrebbe rifiutare?
Dario Bellezza
PAESE SERA, giovedì 27 novembre 1975
A PIER PAOLO PASOLINI
M’aggiro fra ricatti e botte e licenzio
la mia anima mezza vuota e peccatrice
e la derelitta crocifissione mia sola
sa chi sono: spia e ricattatore
che odia i suoi simili. E non trovo
pace in questa sordida lotta
contro la mia rovina, il suo sfacelo.
Dio! Non attendo che la morte.
Ignoro il corso della Storia. So solo
la bestia che è in me e latra.
Dario Bellezza
ANCORA A PIER PAOLO
Davvero hai pensato
che crucifiggendo la Madre
si possa entrare nel Mito?
E se la Madre crucifigge il Figlio
che cosa si crea tra le terra e il cielo?
I fiori non sbadigliano mai per caso.
“Quante domande”, dicevi, e ribadivi:
“La conoscenza, badate, voi due, la conoscenza
che entra nei palpiti del divenire
e scardina il Mistero dalle assuefazioni,
inonda di oggettività
i segni del cammino umano”.
Dario e io eravamo carichi di domande
e il furore non trovava sponde
né la tua teologia compiva il miracolo
e quel tuo farneticare sulle spine ricurve,
sui fiumi che sfociano nelle stelle
non colmava la nostra sete, e l’accresceva…
con mille dubbi. Recalcitranti e ingordi
di vita e di poesia sostavamo inquieti
ai bordi del dissenso.
Tu e Dario adesso siete nel folto d’una verità
che non tesse più il desiderio della conoscenza,
forse la vivete senza i disastri disumani delle apparenze.
Ti devo la mia irritata e irriverente maniera
di stare al mondo legittimamente
nel pullulare delle contraddizioni.
Dante Maffia
Ho molto apprezzato tutto il vostro programma in ricordo di Piepaolo Pasolini, e sono fiera di avervi poi potuto addirittura partecipare. Tutti gli interventi erano appropriati e interessanti; un grazie speciale a Dante Maffia anche per i due volumi fotografici presentati, che avrei voglia di cercare. Grazie a tutti.