Il ready made dadaista rifletteva sul valore contestuale in cui strumenti comuni vengono mostrati allo scopo di conferire loro valore d’opera. Gli oggetti surrealisti condividono con Duchamp la critica feroce alla funzionalità delle macchine per contraddirne paradossalmente l’uso normale. Gli “objects trouvés” assumono la valenza psicologica di essere disponibili nelle case in misura maggiore e non più sotto forma di arnesi strettamente necessari. Avvalorano nei minimi termini l’idea antropologica di bricolage formulata da Levi-Strauss e Floch in base all’essenzialità del pensiero, rapito nel suo viaggio dalla pratica all’astrazione. Nell’utensile si inizia a proiettare l’identità individuale con ossessioni e desideri, fenomeno classificato da Freud come psicopatologia della vita quotidiana, ammucchiate improbabili che al di là dell’esperimento ludico speculassero nei meandri emotivi attraverso l’utilizzo di congegni dotati già di una propria memoria interna, tipo gli orologi di Dalì. La pinacoteca che raccoglie i capolavori di Max Ernst è quindi la fiera inattesa di animali curiosi con piume e becchi rinchiusi in voliere di cornice o di tradizioni apocrife trascurate da una certa moda di opinione. Spiare durante gli Anni Venti dalla finestra La Vergine che sculaccia il Bambino Gesù davanti a tre testimoni (1920) come fanno Breton Éluard e Ernst vuol dire assistere a un evento domestico usuale e nel contempo rispettoso dei dogmi impartiti dalla religione sulla natura umana e divina del Cristo, a dispetto di quanto il pensiero dominante ne asserisca invece il contrario.
La medesima situazione si ripresenta in L’Elephant célèbes (1921) dove l’otre viene mutato dal pennello in un pachiderma con testa di minotauro picassiano e incoronato dalla cresta di strumenti da disegno suggerita da De Chirico che un nudo di donna decapitata all’angolo conferma. Un dinosauro terribile, con a capo un arto che dipinge la tela in procinto di allattare un cucciolo avvinto alle mammelle materne e appoggiato sopra una scatola di materiale e attrezzi, titola Il Surrealismo e la pittura (1942). Senza far venir meno le prerogative del colore, la mania dell’assemblaggio e dell’incollatura confluiscono su La donna con 100 teste (1929) ricavata ritagliando le incisioni delle pubblicazioni illustrate, così per donare un alone criptico a figure conosciute e scontate. La messa in regola del frottage, con lo strofinio di grafite o pastelli su superficie ruvida di tappezzerie e monete che screziavano le superfici, avvalorava le tesi di Leonardo su nuvole e macchie in grado di evocare l’immaginazione in chi tenta di leggere il linguaggio artistico e riportarlo alla sua radice: trasmigrare dalla tavolozza un codice letterario della scrittura automatica per applicarlo a opere fatte di sgocciolamenti e tracce anarchiche. In aggiunta, un metallo comune alla scultura, il bronzo, servì a realizzare le statue totemiche de Il Re muove la Regina (1944), ispirate alle pedine degli scacchi o a idoli appartenenti a un tribalismo esotico e sensuale in voga nell’estremo oriente e poi importato, a seguito di un trasferimento, negli Stati Uniti, dove più tardi Ernst fonderà il giornale “VVV” per diffondere le sue teorie descritte in Au dèlà de la peinture.
L’impulso a contaminare i diversi strati del mondo collettivo fonda l’erotismo de La vestizione della sposa (1940). Riappropriazione debita dell’Eva peccatrice di Cranach e mostruosamente avvolta dal mantello che la copre fin sulla maschera del viso di civetta immedesima la sapienza esoterica, accostata al lume della conoscenza di Minerva che perfora l’abisso dell’ignoranza. L’approssimarsi della sessualità matura nella sposa la consapevolezza di un sapere volto a scrutare le norme dell’universo, l’amore fisico veicolo fondante dell’intero essere completi adotta la liturgia di un rito iniziatico verso una dottrina conquistata attraverso gli stadi superiori della sapienza. Un’ancella spogliata viene respinta dalla mano della sposa per ritrovarsi a guardare indietro, al passato, in una strada che alle spalle le si spalanca nella fuga prospettica del pavimento a scacchiera che aumenta la scena. Un airone antropomorfo, allegoria verde del maschio, regge la lancia spezzata simile ai giovani paggi usciti dalla bottega di Raffaello, presenti negli sposalizi delle vergini. La frattura dell’arma sancisce l’irrevocabilità del legame, una castità che ben presto sarà persa, resa esplicita dalla lancia puntata al pube della moglie in prossimità delle nozze tra questi due volatili di diversa struttura. Alle spalle della sposa, un dipinto la ritrae quasi perfetta ma in ambienti sconosciuti all’abitato urbano e senza presenze estranee che altrimenti renderebbero impossibile la sua adesione alla nuova sfera relazionale, fuori dal panorama della solitudine. A destra nel basso fa capolino un simulacro verdastro che si asciuga il pianto, è tetra mammario, ha genitali maschili e piedi palmati, assorbe in sé l’androgino, da Platone in poi la crasi addizionale tra maschio e femmina. La sua concreta inesistenza, prima dei progressi della chirurgia, ribadiva che la sposa dovesse congiungersi al compagno per espletare la fertilità. La sofferenza per il peccato che un moralismo borghese addossa al sesso viene trasfigurata nell’ inquietudine di dover patteggiare o giungere a compromesso con l’altra metà dopo aver smarrito un’autosufficienza originaria e inseparabile.
Oltre il confine della ragione e il controllo dello spazio, L’Antipapa (1942) intona una donna al margine sinistro del quadro mascherata da una testa di gufo. La terra su cui appoggia le gambe è ridotta a fiordi cesellati e una limpida lastra di acque si estende lontano in uno sfondo nuvoloso, dietro le quinte della scena. Mezze umane e mezze bestie plasmate, ragnatele rocciose le accomunano a dei colonnati. Soltanto una sagoma femminile, abbigliata malamente di rosa, conserva la certezza che l’umano vivere risiede nell’inconscio in un florilegio di visioni interne che confluiscono nella mente oltre i cinque sensi. Ernst, sposato a Perry Guggenheim, intratteneva una relazione extraconiugale con Lady Carrington, appassionata di cavalli, ragione che giustifica l’abbondanza di effigi equine nella composizione. L’anonimo guerriero sulla destra identifica nella corazza proprio il pittore e la persona in rosso che si volta a osservare aggressiva la scena simbolo di Ernst, coccolato dalla ragazza rosa e da una donna pilastro che ricalca i lineamenti dell’amante, è Perry. A sancire graficamente la divisione tra i due coniugi è un’asta obliqua e appuntita. L’universo conosciuto viene rovesciato nell’immagine: lasciate inalterate le sembianze delle cose, il loro farsi e disfarsi insegue la tangenziale dei moti inconsci che determinano l’affettività di certe relazioni interpersonali. Giunti all’approdo finale si potrebbe azzardare un paragone. Nel Levitico e Deuteronomio sono enumerate le specie impure inclusi i rapaci notturni, volatili, rettili, il cavallo tanto apprezzato da Salomone a scanso di prescrizioni e il maiale che “ha l’unghia fessa ma non rumina”. La perifrasi ebraica per nominare il porco “Noun” significa “colui che finge di far apparire ciò che in essenza non ha”: accomunato dalla zampa ai bovini allevati che non registravano però quell’anomalia nell’apparato gastrico smentisce il rapporto proporzionale indispensabile delle qualità, che, al contrario, caratterizzano il vitello per inserirlo nella dieta: “cherem”, dunque da evitare e a rischio di anatema. Per esempio la Circe di Georg Grosz (1927), quasi coetaneo di Ernst ma influenzato dal Dada e da eredità espressioniste, restituisce al busto d’uomo e al cappello calcato sul grugno suino l’identità di un frequentatore dei bordelli tedeschi e accentua la violenza sgradevole con la seduzione artificiale di una élite facoltosa. Grosz deforma anche la prostituta nuda di fronte che saetta la lingua in risposta all’avance: aggiusta corpi e visi in un intreccio di pennellate contrastanti, assorbe ogni fondo riconoscibile per sostituirvi le spire di onde allucinate che suggeriscono lo snodo fumoso di un anaconda sprigionato dal sigaro del maiale elegante. Uno squarcio satirico di magico realismo senza nulla di surreale, ereditato dalle vignette caricaturali degli Anni Trenta che comunque dà una visione accessoria rispetto a quanto la pupilla trasmette. Non è una maschera carnevalesca il muso del cavallo che occupa la scena davanti a noi, perché la psiche indaga oltre i confini imposti dal dettame quotidiano. Il cavallo nell’Antico Testamento, “parash” da sella e “rakash” da corsa, è una metonimia per un’intelligenza ispirata da quella saggezza che innalza al Signore la sua lode ma che può conquistare e acquisire un’autonomia di giudizio per allontanarsi dai suoi comandamenti, come il serpente che istiga Eva a mangiare il frutto proibito e a distinguere le rispettive gonadi. In parole povere, la mente con i suoi incubi e idiosincrasie intende valorizzare la somma delle percezioni identificative dei singoli, cioè un uomo o una donna condensati nella realizzazione erotica legata alla condizione estrinseca della genitalità, dunque il feticismo fallico soddisfatto da una testa equina privata del connotato deviante, così come il sapore del baciare è un segno di fissazione al piacere orale della primissima infanzia. L’argine tra normalità e perversione è scomparso e quanto si definisce trasgressivo in base alla legge sociale, spunta godereccio nella menzogna “porcina” nascosta e praticata in ciascuno di noi, in barba alla scomunica dei ben pensanti e al divorzio, come toccò a Ernst, o alla stima già scarsa dei compagni surrealisti che il Gran Premio della Biennale gli alienò.
Michele Rossitti
Il re muove la regina (1944)
Il Surrealismo e la pittura (1942)
Straordinario autore di Erato il nostro Michele Rossitti. Complimenti!
Sono letture preziose, queste che ci offre Michele Rossitti. Sono vere e proprie lezioni di storia dell’arte che l’autore sa porgere con grande eleganza formale e chiarezza descrittiva. Molto bravo, davvero.