“Milano dalle finestre dei bar” di Luca Vaglio, letto da Marco Onofrio

cop-luca-vaglioDalla “linea di galleggiamento” della nuova silloge del poeta comasco Luca Vaglio (Marco Saya Edizioni, 2013, 52 pp., Euro 10) affiora anzitutto Milano, con la sua segreta, aspra, “diversa” bellezza. La metropoli lombarda, dove Vaglio vive, è attraversata e, per così dire, ispezionata “sub specie sonoris”: la fragile armonia dei suoni ferrosi, l’«eco di ferro» sospesa nel freddo, e il “rumore” che arriva dalla Tangenziale (che fa da «controcanto miracoloso» alla musica di Nicola Martini) si condensano in una sorta di risultante astratta, su cui va ad innestarsi, come in prova esemplare, il processo di trasfigurazione metaforica che accende il “motore” del libro:

(…) Milano
ha un suono, come un vento metafisico
che si muove tra le case forte, sordo
forse la nota continua della Terra
che vince sul silenzio della città.

La localizzazione topografica, che Vaglio propone alla direttrice metafisica naturale del suo sguardo poetico, non è infatti un limite caratterizzante: gli umori milanesi si sedimentano nell’invaso plastico delle parole ma non impediscono il salto dimensionale tra gli ingombri della materia, e insomma la deriva simbolica dell’oltranza; per cui – se questo è vero – egli vedrebbe certe cose fondamentali anche se scrivesse di altre città, in Italia o nel mondo. La vocazione universale che sottende, in uno sguardo stereoscopico, la precisazione dei suoi molteplici dettagli costruttivi, si coglie, quasi in modo dichiarativo, alla fine stessa del percorso. Nell’ultima pagina Vaglio scrive: «Grazie al mondo sensibile, ai luoghi, alle persone / alla frattura di tempo e alle distanze che hanno / reso possibile questo libro». Il poeta ringrazia il mondo per lo spettacolo qualunque (in realtà sempre straordinario) indirettamente offerto nel fluido divenire della realtà ordinaria. Questa fluidità continua, “filmica”, casuale ma come sorretta da un Logos profondo e inafferrabile, viene intersecata dalla “frattura di tempo” oltre la cronologia, cioè dalla discontinuità necessaria per pronunciarsi sulla realtà, scriverne, estrarre le parole dalle cose. Non a caso uno dei due esergo – apposto da Vaglio in limine alle sue trenta composizioni, prima della sezione “Milano” – recita, da Simone Weil: «Se si vuole trovare l’Eternità, occorre disfarsi della superstizione della cronologia». Giacché è la “cronologia” che, assuefacendo i sensi nella continuità evenemenziale del vissuto, impedisce la percezione delle differenze che nutrono le identità, degli scarti che producono senso. Vaglio traduce a suo modo questa condizione di “distacco partecipe” che lo porta a «guardare la vita da fuori / protetto da una smagliatura temporale»; e poi, con precisione sempre maggiore: «sto da solo / guardando gli altri». Ecco la posizione storica dell’artista, da Baudelaire in poi: l’uomo sensibile, dolente ma ironico, crudele perché armato di intelligenza, che guarda scorrere la folla dai tavolini di un caffè qualunque. Così accade a Vaglio, sprofondato tra le costellazioni energetiche che circondano le storie e i destini delle persone, ognuna coi suoi movimenti “cosmici”, come orbite di pianeti, che gli consentono di uscire da se stesso, di sondare l’intelligenza dei luoghi, verso un’altra memoria (la memoria del mondo, «larga e vera come un senso») attraverso la propria sostanza di giorni, di esperienze, di occasioni:

(…) penso a me  
alla vita passata e a quella possibile
a quello che avrebbe potuto
e a quello che non è stato.

Emerge insomma la «memoria segreta del cuore», poiché «a volte vivere / ha a che fare con il non essere». C’è un substrato filosofico che presiede al palpito emotivo di queste composizioni: una dimensione fenomenologica di registrazione oggettiva della realtà, quale si manifesta al presente della percezione, scena dopo scena, istante dopo istante senza posa. Come se il fenomeno del mondo fosse un “micro-kolossal”, uno sterminato lungometraggio (ignoto il regista) di presenze, comparse, apparizioni, che il poeta raccoglie intorno a sé e da cui, sfogliando in controluce i fotogrammi, tenta di estrarre un’interpretazione. Le poesie di Vaglio separano abbastanza nettamente il piano ontico da quello ontologico, il non essere dall’essere nel quale siamo immersi. Il tracciato stilistico configura i segnali di un minimalismo non fine a se stesso, ma pronto e, anzi, proteso a trascendersi, a trovare – per vie endogene di approfondimento – la propria vibrazione di sublimità. Ci sono, sì, le cose esterne al sé («fuori dal raggio delle mie braccia»), nella loro oggettiva presenza indubitabile: il tavolo di legno che «sta lì», il bancone del bar, le bottiglie, le carte da gioco; e poi, fuori del bar, la facies industriale di Milano (elettrodi, cavi, batterie, ruggine, tubi, gas, rotaie)… eppure «a volte un segno / viene dalle cose»: una scintilla inattesa di rivelazione, per cui Vaglio scrive di «metafisica delle cose» che «diventa sensibile / prende forma / se dentro un bar di Milano / si riesce a vedere fuori». Nelle cose esterne, mentre le guarda da fuori, Vaglio (lo si è ormai capito) proietta una grande materia di ricordi, riflessioni, sogni, immagini interiori: utilizza il mondo come cartina di tornasole, reagente per catalizzare, e quindi fare emergere, il “basso continuo” dell’esistenza.

L’asse cartesiano del libro è dato da un incrocio dinamico di “orizzontalità dello sguardo” (che enumera e descrive, calando sul foglio le “presenze”) e “verticalità del pensiero” (che approfondisce l’attimo, intanto che lo vive). La distanza tra sé e le cose è forse incolmabile. Quando, in un tratto del libro, scrutando lo spazio lacustre di un giorno d’inizio marzo, nebbioso e indefinito, scrive «vedo la mia assenza / muoio a me stesso / sono differenza», Vaglio intuisce che guardare il vuoto del mondo davanti a sé (dove noi non siamo) significa vedere la propria assenza, cioè sperimentare in anticipo la propria morte: come era il mondo prima di noi, e come sarà dopo. Uno degli impulsi più potenti che anima la scrittura poetica di Vaglio è proprio questa spinta alla chiarificazione, al censimento dei margini dell’esistenza:

più tardi andrò in via Solari a prendere un gelato
la decisione lascia sotto traccia la paura
di non sapere quale sia il perimetro della mia vita
nessuno a segnare il confine, a dire chi sono.

La memoria del mondo alla quale si vorrebbe appartenere, oltrepassando i limiti della propria, è incisa nel vuoto invisibile, nel reticolo dei percorsi “sotto traccia” dove ci si sporge a vedere aldiquà e aldilà di se stessi, nello «spazio che trova forma / tra sentire e pensare». È in questa terra di nessuno che si toccano le radici più profonde dell’attimo fuggitivo: sul crinale incerto dell’ombra, nell’esperienza aperta del “qui e ora”. Vaglio misura il sé anche dal rapporto con gli altri, dalla capacità di esistere dal loro punto di vista, di «scendere a patti con la pena» di chi ci sta attorno.

La superiore acquisizione del percorso poetico affrontato e felicemente risolto in “Milano dalle finestre dei bar” consiste forse in un nucleo di coscienza evolutiva, che abbraccia – dopo l’analisi dei luoghi e degli attimi particolari, per un progetto di sintesi globale – l’armonia dialettica degli opposti, oltre la loro apparente inconciliabilità. La risposta del mondo, che si articola dentro le parole, gli fa avvertire la coincidenza di creazione e distruzione, e così di inizio e fine (la «fine tiene dentro il germe / primordiale del principio che sarà»), nonché di affermazione e negazione («dire no / mi ha salvato la vita / da lì è passato / anche il più piccolo dei miei sì»), per cui occorre avere il coraggio di perdersi, prima di potersi finalmente ritrovare: «il sé si riconosce / e poi ammette di essere diverso da sé / se ha il coraggio di perdersi / di scivolare nell’infinito». Tutto infine trova requie, in una sorta di inquieta, sublimante pacificazione, nella quartultima poesia del libro, che io trovo la più emblematica (e insieme la migliore) di tutto il libro:

Il genio segreto delle relazioni
come un sesto senso della comunanza
quando si perde il conto degli anni
trascende in un’eco di spazi terminali
affondati dentro epoche lontane
millenni e millenni di vita spesa
a vedersi, a riempire case e strade
quasi che, stretti nel tempo che rimane,
sia possibile esistere soltanto
sulla scena di un saluto, di un addio.

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