Sei poesie di Giorgio Caproni

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Giorgio Caproni nasce a Livorno il 7 gennaio 1912. E’ vissuto a Genova (che considerava la sua vera città) dal 1922 al 1938. Richiamato alle armi nel 1939, ha combattuto sul fronte occidentale; dopo l’8 settembre si è unito alle formazioni partigiane operanti nell’Alta Valtrebbia. Subito dopo la guerra si è trasferito a Roma, dove ha vissuto sino alla morte avvenuta il 22 gennaio 1990. Necessità contingenti gli hanno impedito di portare a termine gli studi regolari (musica e università), lasciati per dedicarsi a varie professioni, tra le quali quella – per lunghi anni – di insegnante. La sua lirica, che attinge nei ricordi autobiografici, rivela rigore tecnico e intima passione. Come un’allegoria (1932-1935), 1936, Ballo a Fontanigorda, 1938, Alba, 1938, Finzioni, 1941, Cronistoria,1943,  Il passaggio di Enea.  Prime e nuove poesie raccolte, 1956,  Il seme del piangere, 1959, Congedo del viaggiatore cerimonioso e altre prosopopee, 1965,  Il muro della terra, 1975,  Il franco cacciatore, 1982, Tutte le poesie, 1983. La sua attività letteraria, iniziata nel 1930, lo ha visto affiancare al lavoro poetico quello di critico, pubblicista, consulente editoriale e traduttore, soprattutto dal francese ( ricordiamo, tra le sue versioni, quelle da Proust, Char, Céline, Maupassant, Cendrars, Genet, Apollinaire).

 

RICORDO 

Ricordo una chiesa antica,
romita,
nell’ora in cui l’aria s’arancia
e si scheggia ogni voce
sotto l’arcata del cielo.
Eri stanca,
e ci sedemmo sopra un gradino
come due mendicanti.
Invece il sangue ferveva
di meraviglia, a vedere
ogni uccello mutarsi in stella
nel cielo.

(da COME UN’ALLEGORIA, 1932-1935)

 

ALBA

Amore mio, nei vapori di un bar
all’alba, amore mio che inverno
lungo e che brivido attenderti! Qua
dove il marmo nel sangue è gelo, e sa
di rifresco anche l’occhio, ora nell’ermo
rumore oltre la brina io quale tram
odo, che apre e richiude in eterno
le deserte sue porte?…Amore, io ho fermo
il polso: e se il bicchiere entro il fragore
sottile ha un tremitio tra i denti, è forse
di tali ruote un’eco. Ma tu, amore,
non dirmi, ora che in vece tua già il sole
sgorga, non dirmi che da quelle porte,
qui, col tuo passo, già attendo la morte.

(da IL PASSAGGIO D’ENEA, 1943-1955)

 

PREGHIERA

Anima mia leggera,
va’ a Livorno, ti prego.
E con la tua candela
timida, di nottetempo
fa’ un giro; e, se n’hai il tempo,
perlustra e scruta, e scrivi
se per caso Anna Picchi
è ancora viva tra i vivi.

Proprio quest’oggi torno,
deluso, da Livorno.
Ma tu, tanto più netta
di me, la camicetta
ricorderai, e il rubino
di sangue, sul serpentino
d’oro che lei portava
sul petto, dove s’appannava.

Anima mia, sii brava
e va’ in cerca di lei.
tu sai cosa darei
se la incontrassi per strada.

(da IL SEME DEL PIANGERE, 1954-1958)

 

CONGEDO DEL VIAGGIATORE CERIMONIOSO

Amici, credo che sia
meglio per me cominciare
a tirar giù la valigia.
Anche se non so bene l’ora
d’arrivo, e neppure
conosca quali stazioni
precedano la mia,
sicuri segni mi dicono,
da quanto m’è giunto all’orecchio
di questi luoghi, ch’io
vi dovrò presto lasciare.

Vogliatemi perdonare
quel po’ di disturbo che reco.
Con voi sono stato lieto
dalla partenza, e molto
vi sono grato, credetemi,
per l’ottima compagnia.

Ancora vorrei conversare
a lungo con voi. Ma sia.
Il luogo del trasferimento
lo ignoro. Sento
però che vi dovrò ricordare
spesso, nella nuova sede,
mentre il mio occhio già vede
dal finestrino, oltre il fumo
umido del nebbione
che ci avvolge, rosso
il disco della mia stazione.

Chiedo congedo a voi
senza potervi nascondere,
lieve, una costernazione.
Era così bello parlare
insieme, seduti di fronte:
così bello confondere
i volti (fumare,
scambiandoci le sigarette),
e tutto quel raccontare
di noi (quell’inventare
facile, nel dire agli altri),
fino a poter confessare
quanto, anche messi alle strette,
mai avremmo osato un istante
(per sbaglio) confidare.

(Scusate. È una valigia pesante
anche se non contiene gran che:
tanto ch’io mi domando perché
l’ho recata, e quale
aiuto mi potrà dare
poi, quando l’avrò con me.
Ma pur la debbo portare,
non fosse che per seguire l’uso.
Lasciatemi, vi prego, passare.
Ecco. Ora ch’essa è
nel corridoio, mi sento
più sciolto. Vogliate scusare).

Dicevo, ch’era bello stare
insieme. Chiacchierare.
Abbiamo avuto qualche
diverbio, è naturale.
Ci siamo – ed è normale
anche questo – odiati
su più d’un punto, e frenati
soltanto per cortesia.
Ma, cos’importa. Sia
come sia, torno
a dirvi, e di cuore, grazie
per l’ottima compagnia.

Congedo a lei, dottore,
e alla sua faconda dottrina.
Congedo a te, ragazzina
smilza, e al tuo lieve afrore
di ricreatorio e di prato
sul volto, la cui tinta
mite è sì lieve spinta.
Congedo, o militare
(o marinaio! In terra
come in cielo ed in mare)
alla pace e alla guerra.
Ed anche a lei, sacerdote,
congedo, che m’ha chiesto s’io
(scherzava!) ho avuto in dote
di credere al vero Dio.

Congedo alla sapienza
e congedo all’amore.
Congedo anche alla religione.
Ormai sono a destinazione.

Ora che più forte sento
stridere il freno, vi lascio
davvero, amici. Addio.
Di questo, sono certo: io
son giunto alla disperazione
calma, senza sgomento.

Scendo. Buon proseguimento.

(da CONGEDO DEL VIAGGIO CERIMONIOSO & ALTRE PROSOPOPEE, 1960-1964)

 

FURTO

Hanno rubato Dio.

Il cielo è vuoto.

Il ladro non è ancora stato
(non lo sarà mai) arrestato.

(da VERSICOLI DEL CONTRO CAPRONI, 1969-19…)

 

FOGLIE

Quanti se ne sono andati…
Quanti.
Che cosa resta.
Nemmeno
il soffio.
Nemmeno
il graffio di rancore o il morso
della presenza.
Tutti
se ne sono andati senza
lasciare traccia.
Come
non lascia traccia il vento
sul marmo dove passa.
Come
non lascia orma l’ombra
sul marciapiede.
Tutti
scomparsi in un polverio
confuso d’occhi.
Un brusio
di voci afone, quasi
di foglie controfiato
dietro i vetri.
Foglie
che solo il cuore vede
e cui la mente non crede.

(da IL FRANCO CACCIATORE, 1973-1982)

Giorgio Caproni

5 commenti
  1. Espedienti formali in Caproni sottolineano un carattere di inganno e illusione, costituiscono aspetti inquietanti della sua poetica.
    Un sentimento esistenziale di innocenza primordiale sottratta alla storia, bisticcio di specchi fra vissuto e lirica è ridurre il sociale a realtà domestica, considerarla un’estensione dell’epopea famigliare.

  2. “Anima mia, sii brava
    e va’ in cerca di lei.
    tu sai cosa darei
    se la incontrassi per strada.”

    Con la stessa levità con cui Guido Cavalcanti, nella celebre “Ballata dell’esilio”, invia la sua “ballatetta” a Firenze come messaggera della sua sofferenza di esule e del presagio di morte, Giorgio Caproni affida alla sua anima il compito di recarsi a Livorno quasi a percepire la presenza di sua madre ormai defunta, di cercarla ovunque, con la speranza vana di poterla incontrare per strada, ancora viva. Delicatissimi i ricordi dei gioielli, della camicetta, di tutto ciò che rende visibile al lettore l’amata madre ormai lontana per sempre. La nitidezza dei versi, privi di sentimentalismo retorico, fa di questa poesia un gioiello inimitabile.

    Giorgina Busca Gernetti

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