Il canzoniere di Isabella Morra fu scritto quando la poetessa era in età molto giovane, essendo morta intorno ai trent’anni. Che cosa si vuole da una donna così giovane, fuor che l’intensità del sentire e la genuinità della passione? Isabella ebbe l’una e l’altra cosa; ma che sia stata una grande poetessa, con un suo messaggio da trasmettere e con una personalità che rinnovasse e travolgesse la lingua che ebbe a disposizione, questo non si può dire. Certo, è anche vero che a ventotto anni Foscolo scriveva I Sepolcri e che a trenta Leopardi scriveva I Grandi Idilli. Ma è qui la eccezionalità del genio. Isabella Morra, ovviamente, non era un genio. Ella aveva imparato a comporre sotto la scuola del suo maestro, che le poteva insegnare la tecnica raffinata dei petrarchisti, così com’egli stesso aveva potuto apprenderla dai libri e nei circoli culturali che aveva frequentato, sicuramente, nella capitale del Regno. La lingua di Isabella, perciò, era destinata ad essere fredda e scolastica, libresca e retorica, se, per sua fortuna, non fosse stata nutrita di un’esperienza umana, autentica e desolata. Gli schemi, le formule, e persino la singola parola, per ciò stesso, si ravvivavano e si caricavano di una particolare suggestione. Forse fu anche una fortuna che ella non potesse compiere i suoi studi o condurli in un ambiente più favorevole. Ciò, infatti, dà alla sua lingua un non so che di vago e di imprecisato, di improprio e di inespresso, che contribuisce a rendere più fascinoso il suo canto. C’è , insomma, l’eco della provincia isolata. E tuttavia, come tutti coloro che hanno studiato sui libri e si son proposto un modello di perfezione, ritenuto peraltro ineguagliabile, anche Isabella Morra sente la inadeguatezza del proprio stile, che definisce “rozzo, aspro, ruvido, vile e frale”. Non è che sia una finzione o un modo di prendersi gioco dei propri lettori, come ha detto un caldo, ma distratto critico (F. Santoro). La poetessa è sincera, perchè, avendo imparato che la poesia è imitazione di forme, si sente al di sotto dell’ideale di perfezione, a cui si è sempre rifatta come a un termine di paragone. ed era anche così, in effetti, perchè – come si è detto – non potè completare gli studi nè ebbe stimolazioni da un ambiente ricco di fermenti culturali. Tuttavia, non era nemmeno una sprovveduta. ” L’autrice – scrive il Croce – possedeva certamente buoni studi, aveva letto poesie classiche e aveva pratica del verseggiare e della forma italiana” . E’ facile, pertanto, avvertire il peso che nella sua lirica aveva il Petrarca, che sembra passato attraverso l’esperienza e il gusto ondulato e ampio di Giovanni della Casa; ma è difficile dire se in qualche modo Isabella abbia conosciuto questo finissimo letterato. Intanto, va ricordato che il della Casa fu maestro di stile, riconosciuto come tale in tutto il Cinquecento. il pedagogo di casa Morra dovette conoscerlo e leggerlo nelle Accademie che aveva frequentato. L’impressione dell’influsso di della Casa appare evidente dall’uso frequente degli enjambements. Può tuttavia darsi che l’ampiezza del poetare sia stata suggerita ad Isabella e al suo pedagogo dagli studi classici, che essi avevano condotto insieme. La presenza di un gusto classicheggiante, infatti, è un altro elemento stilistico che va debitamente sottolineato.
Riguardo al petrarchismo, i segni sono evidentissimi sin dal primo sonetto del canzoniere, là dove la poetessa così canta: ” I fieri assalti di crudel Fortuna/ scrivo piangendo la mia verde etate”, ove si avverte la stessa cadenza musicale del petrarchesco “Solo e pensoso i più deserti campi/ vo mesurando a passi tardi e lenti”. Un richiamo più diretto al petrarca è in un verso successivo dello stesso sonetto che così suona: ” E spero di ritrovar qualche pietate”. Petrarca infatti aveva scritto: ” spero trovar pietà non che perdono”. Petrarchesca è anche la ricorrente “querela” che la poetessa rivolge contro la sua “adversa e dispietata stella”, che il Petrarca aveva chiamato ” la dispietata mia ventura”. Nel definire il suo stile, Isabella Morra ne sottolinea la fragilità, il modo angosciato: ” Scrissi con stile amaro, aspro e dolente”. In Rime, IX dice: ” Dirò con questo sitil ruvido e frale” ; in Rime, VI parla di rozzezza: ” E spesso grido col mio rozzo inchiostro”. L’eco del Petrarca è evidente. si ricordino, fra gli altri esempi, lo “stil frale” del sonetto petrarchesco CLXXXVII, lo ” stile stanco e frale” del sonetto CCCLIV, l'”aspro stile e angosciose rime”, le ” roche rime” della sestina doppia CCCXXXII.
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Sacra Giunone, se i volgari amori
son de l’alto tuo cor tanto nemici,
i giorni e gli anni miei chiari e felici
fa’ con tuoi santi e ben concessi ardori.
A voi consacro i miei verginei fiori,
a te, o Dea, e a’ tuoi pensieri amici,
o de le cose sola alme, beatrici,
che colmi il ciel de’ tuoi soavi odori.
Cingimi al collo un bello aurato laccio
de’ tuoi più cari ed umili soggetti,
che di servire a te sola procaccio.
Guida Imeneo con sì cortesi affetti
e fa’ sì caro il nodo ond’io m’allaccio,
ch’una sol’alma regga i nostri petti.
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Quanto pregiar ti puoi, Siri mio amato,
de la tua ricca e fortunata riva,
e de la terra che da te deriva
il nome, ch’al mio cor oggi è sì grato;
può far tranquillo e la mia speme viva,
malgrado de l’acerba e cruda Diva,
c’ogno’or s’esalta del mio basso stato!
Non men l’odor de la vermiglia Rosa
di dolce aura vital nodrisce l’alma
che soglian farsi i sagri Gigli d’oro.
Sarà per lei la vita mia gioiosa
de’ gravi affanni deporrò la salma,
e queste chiome cingerò d’alloro.
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Nata a Favale, l’odierna Valsinni, nel 1516 circa, morì nell’inverno tra il 1545 e il 1546. Fu uccisa dai fratelli per una presunta storia d’amore con Diego Sandoval De Castro, poeta di origine spagnola, barone di Nova Siri (allora Bollita). Petrarchista, Isabella Morra ha lasciato uno struggente canzoniere, fatto di dodici sonetti e tre canzoni, che, pubblicato per la prima volta nel 1559, ne fa la più grande poetessa d’amore del Rinascimento italiano per originalità e schiettezza del sentire.
Dopo un lungo silenzio, protrattosi dal 1559 fino all’Ottocento, fu riscoperta da Angelo De Gubernatis nel 1901, con una conferenza tenuta nel Circolo Filologico di Bologna, poi pubblicata nel 1907. Ma doveva toccare a Benedetto Croce occuparsene approfonditamente in un lungo saggio, che fu preparato da un viaggio-pellegrinaggio fino a Valsinni, tra il 23 e il 25 novembre 1928, nella speranza di trovar tracce della di lei vita e opera. Non fu trovato nulla, tranne l’aura entro cui si svolse una poesia, che, nata dall’isolamento geografico, diventava il canto della solitudine, secondo immagini e ritmi e sospiri che sarebbero stati, poi, di Giacomo Leopardi. Anche Isabella Morra, infatti, sognò la fuga e la libertà dal suo “denigrato sito”, ove era costretta a “menar” la sua vita e che considerava “sola cagion del suo tormento”. E anche per lei l’unica forma di evasione fu la poesia, intesa come canto.
Vagheggiando il mondo delle corti, la giovane poetessa pensava a Parigi, ove viveva suo padre, esule dal 1528 per aver parteggiato con i Francesi contro gli Spagnoli vincitori. Sola nel suo lontano castello, e in balia dei fratelli rozzi e selvatici, ella sospirava il ritorno del padre; bisognosa d’amore, forse dopo una grave malattia che la portò in prossimità della morte, trovò la quiete nella fede religiosa, di cui sono testimonianza la canzone a Cristo e la canzone alla Vergine; ma fu ripresa da un nuovo ardente desiderio di affetto e libertà al comparir di Diego Sandoval De Castro, marito dell’amica Antonia Caracciolo, applaudito nelle corti d’Italia, amico dell’imperatore Carlo V e dei potenti, ma nemico della famiglia Morra, filofrancese.
I fratelli di Isabella, per motivi d’onore, ma anche per motivi politici, non accettarono nemmeno il sospetto che fra la sorella e il nemico spagnolo, sposato e con figli, potesse correre una simpatia, che forse era solo letteraria. Né si potevano ignorare le voci che correvano tra la gente di Valsinni. Sotto i loro pugnali e archibugi, perciò, nell’ordine, caddero il pedagogo di famiglia, protettore di Isabella e presunto mezzano d’amore, la stessa Isabella e, l’anno successivo, Diego Sandoval De Castro. Per gli assassini, quindi, ci fu l’ospitalità francese, presso il re Francesco I e presso il padre, che dalla Francia non era mai rientrato e che nulla fece per evitare la terribile vendetta.
Attualmente il Canzoniere di Isabella Morra è consultabile in A. Cambria – G. Caserta, Isabella, la triste storia di Isabella Morra, Venosa, Osanna, 1996, che, sulle tracce del nuovo testo critico preparato da Antonietta Grignani (Isabella Morra, Rime, Roma, Salerno, 2000), contiene, insieme con una ricca introduzione, anche il primo commento e parafrasi del testo.
Giovanni Caserta
“l’aura entro cui si svolse una poesia, che, nata dall’isolamento geografico, diventava il canto della solitudine, secondo immagini e ritmi e sospiri che sarebbero stati, poi, di Giacomo Leopardi.”
Anche il Canzoniere del Petrarca, pur nella notevole differenza della sua vita rispetto a quella di Isabella di Morra, è impregnato di solitudine, ora sofferta, ora ricercata.
Indipendentemente da ciò, il petrarchismo è evidentissimo nelle poesie di Isabella, come, del resto, in moltissimi rimatori dei Cinquecento e oltre. Petrarca era considerato il poeta perfetto, perciò chi si accingeva a comporre versi guardava al grande maestro come a un modello. Importante era imitarlo con una propria originalità di scrittura e, prima ancora, di “sentire”.
Isabella di Morra, pur “petrarcheggiando”, appare originale per la straordinarietà della sua vicenda umana e per l’autenticità del suo amore verso Diego Sandoval de Castro, temi ispiratori del suo poetare.
Giorgina Busca Gernetti
L’ha ribloggato su Muto Barocco.