Intervista a Eugenio Montale, Mondadori – 1976, pp 569-572

eugenio-montale-ritratto1Mi duole di non saper scrivere qualche pagina sulla mia poesia. Altra volta mi ci son provato, ma con risultati molto dubbi. Un mio vecchio scritto, uscito sul primo numero della “Rassegna d’Italia” del Flora, portava questo titolo: Intenzioni; ma ho dovuto poi convincermi di non essere affatto un poeta intenzionale, un poeta che parte da una “posizione estetica” già fissata in anticipo. O meglio, una convinzione l’ho avuta: che la poesia, oggi, sia la vetta, il germoglio di un fatto di cultura, e non repertorio di notizie, aggiornamento di un uomo che si ritiene à la page. Da questo sentimento, e da simili intenzioni, sono nate in me, nel corso di un trentennio, circa centocinquanta poesie che ho raccolto in tre volumi: Ossi di seppia (1925), Le Occasioni (1939) e La bufera e altro (1956): quest’ultimo premiato a Valdagno nello stesso anno. L’argomento della mia poesia (e credo di ogni possibile poesia) è la condizione umana in sé considerata; non questo o quell’avvenimento storico. Ciò non significa estraniarsi da quanto avviene nel mondo; significa solo coscienza, e volontà, di non scambiare l’essenziale col transitorio. Non sono stato indifferente a quanto è accaduto negli ultimi trent’anni; ma non posso dire che se i fatti fossero stati diversi anche la mia poesia avrebbe avuto un volto totalmente diverso. Un artista porta in sé un particolare atteggiamento di fronte alla vita e una certa attitudine formale a interpretarla secondo schemi che gli sono propri. Gli avvenimenti esterni sono sempre più o meno preveduti dall’artista; ma nel momento in cui essi avvengono cessano, in qualche modo, di essere interessanti. Fra questi avvenimenti che oso dire esterni c’è stato, e preminente per un italiano della mia generazione, il fascismo. Io non sono stato fascista e non ho cantato il fascismo; ma neppure ho scritto poesie in cui quella pseudo rivoluzione apparisse osteggiata. Certo, sarebbe stato impossibile pubblicare poesie ostili al regime d’allora; ma il fatto è che non mi sarei provato neppure il rischio fosse stato minimo o nullo. Avendo sentito fin dalla nascita una totale disarmonia con la realtà che mi circondava, la materia della mia ispirazione non poteva essere che quella disarmonia. Non nego che il fascismo dapprima, guerra più tardi, e la guerra civile più tardi ancora mi abbiano reso infelice; tuttavia esistevano in me ragioni di infelicità che andavano molto al di al di fuori di questi fenomeni. Ritengo si tratti di un inadattamento, di maladjustement psicologico e morale che è proprio a tutte le nature a sfondo introspettivo, cioè a tutte le nature poetiche. Coloro per i quali l’arte è un prodotto delle condizioni ambientali e sociali dell’artista potranno obiettare: il male è che vi siete estraniato dal vostro tempo; dovevate optare per l’una o per l’altra delle parti in conflitto. Mutando o migliorando la società si curano anche gli individui; nella società ideale non esisteranno più scompensi o inadattamenti ma ognuno si sentirà perfettamente a suo posto; e l’artista sarà un uomo come un altro che avrà in più il dono del canto, l’attitudine a scoprire e a creare la bellezza. Rispondo che io ho optato come uomo; ma come poeta ho sentito subito che il combattimento avveniva su un altro fronte, nel quale poco contavano i grossi avvenimenti che si stavano svolgendo. L’ipotesi di una società futura migliore della presente non è punto disprezzabile, ma è un’ipotesi economica-politica che non autorizza illazioni d’ordine estetico, se non in quanto diventi mito. Tuttavia un mito non può essere obbligatorio. Sono disposto a lavorare per un mondo migliore; ho sempre lavorato in questo senso; credo persino che lavorare in questo senso sia il dovere primario di ogni uomo degno del nome di uomo. Ma credo altresì che non sono possibili previsioni sul posto che occuperà l’arte in una società migliore della nostra. Platone bandiva i poeti dalla Repubblica; in certi paesi di nostra conoscenza sono banditi i poeti che si occupano dei fatti loro (cioè della poesia) anzichè dei fatti collettivi della loro società. In un mondo unificato dalla tecnica (e dal prevalere di una ideologia) io non credo che i poeti ” individualisti ” potrebbero costituire un pericolo per lo Stato o il Superstato che li ospiti (o li tolleri).È possibile concepire un mondo in cui il benessere e la normalità dei più lasci libero sfogo all’inadattamento e allo scompenso di infime minoranze. In ogni modo questa ottimistica prospettiva lascia aperto il dissidio fra l’individuo la società. È altrettanto possibile l’ipotesi che il dissidio sia risolto manu militari, sopprimendo l’individuo inadattabile. Quello che appare invece improbabile e indimostrabile è l’automatico – o rapido – avvento di una età dell’oro (nelle arti) non appena sia mutata la struttura sociale. Dopo questa premessa posso dirvi, in risposta alla vostra domanda, che io gli avvenimenti che fra le due guerre mondiali hanno straziato l’umanità li ho vissuti standomene seduto e osservandoli. Non avevo altro da fare. Nel mio libriccino Finisterre (e basta il titolo a dimostrano) occupa tutto lo sfondo anche l’ultima grande guerra, ma non più che di riflesso. Nondimeno la mia reazione era tale che il libro sarebbe stato impubblicabile in Italia. La stampai a Lugano nel 1943. La sola epigrafe iniziale sarebbe stato fumo agli occhi dei censori fascisti . Essa dice: “Les princes (cioè i dittatori) n’ont point d’yeux pour voir ces grandes merveilles; leurs mains ne servent plus qù à nous persécuter… ” (1). Sono versi di un uomo che di stragi e di lotte s’intendeva: Agrippa d’Aubigné. In definitiva, fascismo e guerra dettero al mio isolamento quell’alibi di cui esso va forse bisogno. La mia poesia di quel tempo non poteva che farsi più chiusa, più concentrata (non dico più oscura). Dopo la liberazione ho scritto poesie di ispirazione più immediata che per certi lati sembrano un ritorno all’impressionismo degli Ossi di seppia, ma attraverso il filtro di un più cauto controllo stilistico. Non vi mancano accenni a cose e fatti d’oggi. In ogni modo sarebbe impossibile pensarle scritte dieci anni fa. E perciò, a parte il loro valore, che non posso giudicare, debbo concludere che mi sento perfettamente a posto col cosiddetto “spirito del nostro tempo”. Ho scritto molto di critica e dal 1948 sono redattore del “Corriere della Sera”. Prima – dal 1929 al 1938 – ho diretto il Gabinetto Viesseux di Firenze. Ne sono stato allontanato per insufficienze politiche. La critica ha fatto quasi sempre buon viso ai miei libri, che hanno avuto (almeno o i primi due) molte edizioni. Alcune mie poesie, tradotte, hanno fatto il giro del mondo. Non saprei spiegare come la poesia nasce in me: so solamente che ogni poesia è preceduta da una lunga e oscura gestazione, nella quale però non è contenuto nulla di prevedibile; né l’argomento, né il titolo, né l’ampiezza dello sviluppo. In alcuni casi ho l’impressione che due o tre poesie diverse, “precipitando” si siano fuse insieme. Finito il periodo dell’incubazione scrivo con molta rapidità e con pochi ritocchi. A cose fatte leggo i critici e scopro le mie intenzioni. Talora mi accade di non poter riconoscerle per nulla; altre volte imparo a ravvisare qualcosa di me che non sospettavo affatto. A questi critici manifesto qui la mia riconoscenza.: non li conosco tutti e a pochi ho scritto per ringraziarli. Non ne cito i nomi in questa sede per non offendere gli esclusi: meritevoli anch’essi (ma a diverso titolo) di stima e gratitudine. Per la cronaca sono nato a Genova il Columbus Day (12 ottobre 1896).

(Intervista radiofonica a Eugenio Montale,
raccolta in E. Montale, Sulla poesia,
a cura di G. Zampa, Milano, Mondadori, 1976, pp. 569-72)

10 commenti
  1. Queste dichiarazioni (o intervista rielaborata) di Montale andrebbero commentate con grande impegno critico anche se sono di un’epoca ormai conclusa.
    La tesi centrale è che la sua poesia affondi le proprie radici nelle condizione umana e non nella storia. Ovvio? Secondo me, no. Chiediamoci: Perché l’argomento della sua poesia poteva essere esclusivamente «la condizione umana in sé considerata»? È possibile astrarre una «condizione umana» dal tempo storico in cui viene vissuta; e quindi trascurare o mettere in secondo piano i rapporti personali, sociali e politici in cui Montale condusse la sua esistenza? Forse che la politica, le condizioni di vita materiali, le divisioni sociali che si ebbero in Italia dal 1896, anno della sua nascita, al 1981, anno della sua morte, non facevano della «condizione umana» vivibile da un piccolo borghese come lui dalla «condizione umana» vivibile da un altro individuo, appartenente ad un’altra classe sociale in un’altra epoca? Vita, amore, morte sono la stessa cosa in tutte le epoche e società?
    Se Montale ritiene che nella sua ricerca poetica dovesse rientrare la «condizione umana» e non la storia (« questo o quell’avvenimento storico»), è perché fa una scelta. Più o meno consapevole, ma discutibile. E che non deriva automaticamente dal suo essere o voler essere (da giovane) poeta. La scelta di Montale è filosofico-politica. Per lui – lo dice – «l’essenziale» è la «condizione umana», mentre «transitorio» è «questo o quell’avvenimento storico». Con questa scelta Montale stabilisce una separazione netta tra poesia e fatti sociali e politici, tra io e società. Ovvio, dirà ancora qualcuno. Correggerei: ovvio nella società borghese sorta dalla Rivoluzione francese e prolungatasi fino alla società di massa. Non prima.
    Seconda osservazione. Montale difende la sua scelta contro gli intellettuali di sinistra che negli anni del dopoguerra e dopo (e fino agli anni Settanta del Novecento) sostennero invece una tesi opposta: la storicità della condizione umana.
    Dalla scelta di Montale discendevano alcune conseguenze: ad esempio, Montale finge di non capire che i poeti, quando «si occupano dei fatti loro (cioè della poesia)» non si occupano affatto di “fatti loro”. Si occupano lo stesso «dei fatti collettivi della loro società», perché il linguaggio che usano in poesia non è che una variazione (elaborata) dei linguaggi sociali. Attingono cioè ad un “bene comune”: la lingua (nazionale; e anche questa è una connotazione storica!), non a qualcosa di loro proprietà. Questo significa che il linguaggio che usano – consapevoli o meno – ha una sua «politicità» (Fortini). E quindi una poesia non è mai un fatto (privato) del singolo poeta o (corporativo) dei soli poeti, ma è un fatto contraddittorio che viene fuori dal conflitto tra istanze individuali (lo stile che il poeta riesce a costruirsi) e istanze collettive (l’uso sociale o “comune” che della lingua fanno gli altri, i non poeti, la gente). Questo Montale proprio non lo coglie (o lo rimuove). Ed, infatti, si preoccupa soprattutto di difendere il suo individualismo linguistico (derivato dalla scelta anzidetta) separato dall’uso collettivo che ne fanno gli altri (si pensi al suo disprezzo giovanile per i linguaggi di massa e poi, in vecchiaia, alla resa ironico-snobistica a quei linguaggi in «Satura»).
    Lo si vede quando difende «i poeti “individualisti”» affermando che essi non «potrebbero costituire un pericolo per lo Stato o il Superstato che li ospiti (o li tolleri)». Si noti come Montale faccia sua una precisa visione politica, quella liberale. Il privato (il proprietario privato) ritiene, infatti, che la sua proprietà e l’aumento della sua proprietà sia sacro e non danneggi gli altri che non ne hanno o ne hanno in misura minore di lui. Qualcosa di simile fa Montale in poesia.
    Dalla scelta degli oppositori (di sinistra: socialista e comunista) di Montale discendevano altre conseguenze: essi volevano un impegno diretto degli uomini di cultura (e quindi anche dei poeti) nella lotta politica e nelle vicende storiche; e avevano criticato il silenzio e l’acquiescenza della cultura (e dei poeti ermetici) sotto il fascismo.
    Va notato che Montale ha gioco facile nel liquidare certe grossolane posizioni marxiste prevalenti nel PCI-PSI dei suoi anni. Ha per me ragione a respingere l’idea di certi marxisti che consideravano la poesia e l’arte «un prodotto delle condizioni ambientali e sociali dell’artista». E quindi non le riconoscevano alcuna autonomia. Per loro, come da un pero non possono nascere che pere, da un artista “borghese” (che per molti corrispondeva a “reazionario”) poteva nascere solo arte borghese e “reazionaria”.
    E Montale ha pure ragione a criticare il fatto che mutando o migliorando la società (ammesso che ci si riesca) non si curano automaticamente «anche gli individui»; o a sorridere scetticamente di fronte all’attesa di una società ideale in cui «non esisteranno più scompensi o inadattamenti ma ognuno si sentirà perfettamente a suo posto; e l’artista sarà un uomo come un altro che avrà in più il dono del canto, l’attitudine a scoprire e a creare la bellezza».
    Eppure ai tempi di Montale c’erano posizioni ben più duttili anche nel da lui odiato campo marxista. Ad esempio quelle del suo prima amico e poi antagonista Fortini (Cfr. http://moltinpoesia.blogspot.it/2012/07/per-una-poesia-esodante-ennio-abate-la.html…). Queste posizioni contrastavano lo zdanovismo, che chiedeva alla poesia e all’arte di mettersi al servizio del Partito; e non riducevano affatto la prospettiva socialista a mito «obbligatorio», come dice qui Montale, o ad attesa fideistica dell’ «avvento di una età dell’oro». (Uno dei motti di Fortini era proprio: il socialismo è possibile, non inevitabile).
    Montale non ne volle mai sapere. Sottovalutò queste posizioni, le combatté e si accontentò di un generico umanesimo progressista: «Sono disposto a lavorare per un mondo migliore; ho sempre lavorato in questo senso; credo persino che lavorare in questo senso sia il dovere primario di ogni uomo degno del nome di uomo». Pur sapendo bene di essere nella storia e ammettendo – come fa qui – di non potere « estraniarsi da quanto avviene nel mondo». Se la cava, però, dicendo di non essere stato «indifferente a quanto è accaduto negli ultimi trent’anni» (grosso modo dal ’45 al ’75). E si dice convinto che «se i fatti fossero stati diversi» la sua poesia comunque non « avrebbe avuto un volto totalmente diverso».
    Come fa ad esserne così certo non si capisce. È vero che i mutamenti in poesia non avvengono in coincidenza stretta con i mutamenti politici e storici. È vero pure che i tempi della poesia non sono i tempi della politica o della società. E che si è prodotta grande poesia anche in tempi orrendi o brutta poesia anche in tempi meno orrendi o più tranquilli. Ma sostenere che «un artista porta in sé un particolare atteggiamento di fronte alla vita e una certa attitudine formale a interpretarla secondo schemi che gli sono propri», da una parte è vero (vale però per ogni singolo uomo e non solo per l’artista) dall’altro significa esasperare l’autonomia dell’individuo e dell’artista e farne un dato immobile, quasi archetipico. Di più: un fatto di elezione e di superiorità. A me pare che ci sia qualcosa di falso e di pseudo-aristocratico (Montale era un piccolo borghese, ma invaghito delle squisitezze del “bel mondo”) in quel suo presentarsi preso esclusivamente dall’ispirazione, che gli procurava la «totale disarmonia con la realtà che [lo] circondava», tanto da fargli ritenere che in lui le «ragioni di infelicità […]andavano molto al di al di fuori di questi fenomeni» “transitori” come il fascismo, la guerra, la guerra civile.
    O nel dichiarare senza vergognarsene (e pur rimanendo anche per me un grande poeta) :«io gli avvenimenti che fra le due guerre mondiali hanno straziato l’umanità li ho vissuti standomene seduto e osservandoli. Non avevo altro da fare». (Se un poeta dicesse oggi cose del genere di fronte a quanto sta accadendo a Gaza o in Ucraina o in Siria non lo sopporterei).

  2. Condivido totalmente questa appassionata quanto ragionata critica di Ennio Abate alle posizioni montaliane espresse nell’intervista del 1976. Aggiungo solo, per completezza e per onestà, che Montale non è stato e non è soltanto quello che lui diceva di essere. La sua poesia, pur se scritta “standosene seduto” – ma chi mai ha scritto in piedi? – ha svolto nella storia, nella nostra storia, anche una funzione di libertà e di progresso per le classi non borghesi. Con sua buona pace. E resta comunque aperto il problema di “quanto” la storia abbia inciso e possa incidere sul “quid” delle singole individualità, problema che vale per ogni epoca storica, anche per tutto ciò che è accaduto prima della rivoluzione francese. Chi può dire, per esempio, che lo spirito di Dante non avrebbe una sua riconoscibile identità anche fuori dal medioevo?

    • @ Ottaviani

      Caro Paolo,

      al link che ho indicato nel mio recente commento su LA PRESENZA DI ERATO, all’articolo intitolato “La poesia passata a contrappelo: Un nodo Fortini-Montale-Mengaldo” (3 lug. 2012) seguono vari commenti (di Francesca Diano, Giorgio Linguaglossa, Gianmario Lucini) che riprendevano alcune delle tue perplessità o comunque la tua visione problematica del rapporto tra poesia e storia. Oggi siamo tutti “velocilector” e so che non posso pretendere una lettura attenta di tutti i commenti, ma mi pare che in uno che allora avevo fatto ( lo trovi qui:http://moltinpoesia.blogspot.it/2012/07/per-una-poesia-esodante-ennio-abate-la.html?showComment=1341438490399#c7525672607697505370, ma lo riporto per comodità dei lettori) avevo chiarito sia le ragione dell’indiscutibile valore della poesia di Montale sia la sua reale storicità contro ogni tentazione idealistica e universalistica che mi pare faccia capolino anche nell’ultima parte del tuo commento:

      ” Mi pare di aver già chiarito che Fortini riconosce Montale come poeta e grande poeta. Ma forse un grande poeta è perfetto? Se Fortini lo critica, è perché ci sono vari tipi di poesia e anche di grande poesia. E a un poeta-critico come lui (sempre Fortini) la grande poesia di Montale non andava giù.
      Proprio perché rimuoveva alla grande ( e quindi con maggior danno per il fascino che essa aveva per i lettori) una verità (certo valida per Fortini ed altri che la pensavano come lui): che esiste la storia, che essa non è riducibile a «sterminio d’oche» e che richiede in certe situazioni una scelta. Detto volgarmente in dialetto – il grande poeta Montale, negando quella verità ( sempre per Fortini etc.) «fa ‘o sceme pe nu ghì a guerre”[fa lo scemo per non andare in guerra] o , come dice Giorgio in modi elevati, «si toglie dal campo del contendere della piccola borghesia adottando, da “Satura” (1971) in poi il punto di vista (anche stilistico) alto scettico-borghese»; o, come diceva Fortini, fa «la parte del topo e dell’imperfetto per non pagare il dazio del dovere storico ma nello stesso tempo [è] certo di non essere stato in alcun modo corresponsabile dello sterco e del fango in cui si è trovato a vivere»:

      Questo che a notte balugina
      nella calotta del mio pensiero,
      traccia madreperlacea di lumaca
      o smeriglio di vetro calpestato,
      non è lume di chiesa o d’officina
      che alimenti
      chierico rosso, o nero.

      (Montale, Piccolo Testamento).

      Lui è in alto, lassù! Quale modello per milioni di piccolo borghesi entusiasti della sua poesia quasi come per quella del Pascoli, prima quasi socialista e poi cantore colonialista della Grande Proletaria!

      E se «TUTTO è nella storia» (meglio solo la minuscola), lo è suo malgrado anche la poesia, anche la Grande Poesia. E per questo Fortini, che non toglie la poesia di Montale (o di altri) dalla storia, ha pienamente ragione a giudicarla come ingannatrice. Sebbene- ripeto – poesia e grande poesia.(Come del resto grandi romanzieri furono Balzac o Céline. Solo chi parla senza riflettere può pensare che i grandi poeti o scrittori siano per forza di cose grandi uomini o quasi dei santi).
      Sì, «l’arte è uno strumento di precisione per valutare il polso di un’epoca». Quella di Montale ci fa sentire il polso aritmico della piccola borghesia che ha paura e non se lo vuol dire.

      Quando dicevo che la storia entra nelle opere di tutti poeti e in alcuni “in modi non ortodossi”, volevo intendere non immediatamente visibili o percepibili. Ci sono poeti che anche quando parlano di una rosa fanno intravvedere la storia ed altri che pare parlino solo della rosa, ma se scavi dentro il testo quella (la storia) viene fuori. Intendevo dire, allora che bisogna volerla cercare. E non tutti credono che sia necessario o giusto farlo. Anzi.
      Ma se dico che c’è la storia in tutte le poesie ( ma si deve scovarla..), non la ridimensiono a ‘contingenza’ e non l’affondo nel mare magnum della «condizione umana». Dire «storia» con Fortini è altra cosa che dire «condizione umana» o esistenziale con Montale. Perciò i due sono l’un contro l’altro armati. Montale lo possiamo mettere anche sulla montagna altissima degli Spiriti Magni della Poesia, ma il suo sguardo non è affatto «amplissimo». È lo sguardo piccolo borghese (camuffato). Lui stava nella realtà «su una collinetta» ma fingeva di parlare da «una montagna altissima». Qui la truffa.”

      Insomma l’universalismo è per me una trappola idealistica da ripensare e rimettere in discussione. Passa il tempo e anche l’universalismo di un Dante non è più un universalismo assoluto (che per me non esiste) ma mostra le sue radici ben piantate nella sua epoca e nell’Europa cristiana d’allora. Fai leggere a un musulmano il XXVIII canto dell’Inferno e vedrai che non può non mettere in discussione l’universalità (per noi ovvia) di Dante. Dante gli apparirà un “islamofobo”. Meglio è inseguire le tracce del complesso rapporto STORICO tra Dante e la cultura islamica del suo tempo. Ne hanno discusso su «Allegoria» tempo fa. Ora non riesco a trovare il numero in cui fu trattata la questione ma trovo sul Web questo articoletto che riassume il problema e lo ricopio:

      L’impronta dell’Islam nella «Divina Commedia»
      Il professor Raffaele Donnarumma ricostruisce il complesso rapporto Dante-Maometto

      C’è l’impronta dell’Islam nella “Divina Commedia” di Dante, un rapporto complesso e divaricato che va dal feroce e infamante attacco contro Maometto, a un riconoscimento dell’importanza culturale dell’Islam per lo stesso pensiero cristiano medioevale. A ricostruire questo articolato scenario venerdì 27 aprile è stato il professore Raffaele Donnarumma del dipartimento di Italianistica dell’Ateneo per il ciclo dei seminari “Il folle volo – Lezioni dantesche”.
      “I versi su Maometto – spiega Raffaele Donnarumma – sono costati alla ‘Commedia’ la censura in alcuni paesi islamici, dove il canto XXVIII dell’Inferno è stato cassato dalle traduzioni, o la circolazione del poema è proibita”. Una polemica, quella di Dante “islamofobo”, che è tornata a riaccendersi anche recentemente. Non ultimo a marzo scorso, quando Gherush92, un’organizzazione non governativa per i diritti umani, ha chiesto, assieme ad alcuni membri del Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite, di abolire la “Divina Commedia” dai progetti scolastici proprio per le frasi offensive contro l’Islam. “In realtà – continua l’italianista dell’Università di Pisa – il rapporto di Dante con l’Islam è più complesso e sottile. Nel Limbo, fra i saggi e gli eroi greci e latini, troviamo anche Saladino che aveva fama di sovrano nobile e giusto, ma che era pur sempre un vittorioso nemico dei crociati; e poi anche Avicenna e Averroè, al quale Dante riconosce la diffusione del pensiero e delle opere di Aristotele nell’Europa neolatina”.
      Ma singoli personaggi a parte, in realtà è l’intera struttura delle “Commedia” che deve qualcosa alla cultura islamica, in particolare al “Libro della scala” che all’epoca di Dante era attribuito (erroneamente) allo stesso Maometto. Chi sia l’autore del volume è a tutt’oggi un mistero. Per certo si sa che la sua diffusione in Europa partì dalla Spagna, dove probabilmente ebbe modo di conoscerlo anche il maestro di Dante, Brunetto Latini, durante il suo soggiorno alla corte di Alfonso X. “Dante non cita mai il ‘Libro della scala’ – continua Donnarumma – ma i punti di contatto sono molti sia nell’architettura generale dell’aldilà, sia nell’idea del viaggio, così come in alcuni particolari, come nel canto VIII dell’Inferno, dove Dante descrive delle ‘meschite’ (moschee) subito fuori le porte della città di Dite”.
      “Dante – conclude Donnarumma – si mostra del tutto consapevole dell’importanza culturale che l’Islam ha avuto perché lo stesso pensiero cristiano medioevale si fissasse nei suoi caratteri più propri” Lo stesso Maometto in realtà è qualcosa di vicino e lontano. Quando Dante lo pone nell’Inferno fra i “seminator di scandalo e di scisma”, in realtà non fa che accogliere la leggenda medievale diffusa che lo voleva un prete cattolico deluso nelle sue ambizioni di carriera e poi traviato dal genero Alì.
      Dopo Dante e l’Islam, il ciclo di seminari “Il folle volo”, organizzato dagli studenti di italianistica, continua con altri appuntamenti. Venerdì 4 maggio (aula 2 Palazzo Ricci, ore 14) Lucia Battaglia dell’Università di Pisa parla di “Immaginare (attraversare, raccontare) l’Aldilà. Per un censimento di modelli, letterari e non”. Martedì 8 maggio (aula magna Palazzo Boilleau, ore 14) sarà la volta di Luca Serianni dell’Università La Sapienza di Roma con una “Lettura di Purgatorio VIII”.

      3 maggio 2012

      ( da http://www.unipi.it/index.php/unipinews/item/762-l%E2%80%99impronta-dell%E2%80%99islam-nella-divina-commedia)
      Rispondi

      • Carissimo Ennio,
        non mi dici cose che non conosco – il pensiero di Fortini (anche lui uno dei miei maestri che ho avuto la fortuna di conoscere personalmente e dal quale ho anche apertamente dissentito sul problema della religione, della sua “metafisica valdese”), il suo rapporto belligerante con Montale, Dante e il suo debito con la cultura islamica – e non dissolvi le mie perplessità. In effetti parli d’altro. Intanto ti rassicuro: io non cedo un bel nulla alle concezioni dell’idealismo – tra l’altro il mio dissenso da Fortini verteva proprio su questo, perché rintracciavo in lui un materialismo irrisolto, tracce metafisiche di cui la sua religiosità era una spia – ma dico solo che l’individualità non scompare nella rete dei rapporti storici. Senza essere universalisti o metafisici occorre ammettere che c’è qualcosa in noi che va al di là della nostra scansione del tempo… quando parlavo dello spirito di Dante mi riferivo soltanto a ciò che di più intimo e irripetibile c’è in lui… perché c’è in ciascuno di noi un “quid” destinato a travalicare i secoli e tutto ciò che chiamiamo storia… so che tu intuisci ciò di cui sto parlando… poi magari cadrà un meteorite e tutto diventerà gas e cenere… ma dovranno essere gas e ceneri distinti in obbedienza a una legge fisica per ora ignota… Democrito docet!
        Stammi bene.
        Paolo

  3. @ Ottaviani

    Caro Paolo,
    mi fa piacere che tu abbia intrattenuto, se capisco bene, un rapporto con Fortini e dissentito con lui. Non mi è chiaro però perché parlerei «d’altro». Non credo di sostenere la tesi di un’individualità che scompare nella rete dei rapporti storici. Sto dicendo – credo – che l’individualità (di un Dante, di un Montale, ecc.) è storica, di quel tempo e non di un altro successivo. Quel “quid” di loro « destinato a travalicare i secoli e tutto ciò che chiamiamo storia» a me pare la loro opera, sottoposta però anch’essa a successive trasformazioni e ai crolli delle vicende storiche, che ce la fanno apparire sotto aspetti nuovi nei secoli seguiti alla loro prima apparizione. E quindi – dico io – sempre nella storia che continua e probabilmente continuerà finché non interverranno meteoriti o altri sconvolgimenti della natura ( compresi quelli che gli umani possono produrre…). Comunque, quando e se ne hai voglia, scrivi su tutto ciò al mio recapito di posta elettronica, perché m’interessa. E poi renderemo conto in maniera non frammentata anche ai lettori di questo sito dei nostri punti di vista sul tema. Un saluto.

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