“L’inferno del nostro portento”, inedita raccolta di Gabriele Pepe introdotta da Giorgio Linguaglossa

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Gabriele Pepe

Ortega Y Gasset ha scritto: «La vita è una serie di collisioni con il futuro: non è una somma di ciò che siamo stati, ma di ciò che desideriamo essere. L’uomo è l’essere che ha assolutamente bisogno della verità e viceversa, la verità è l’unica cosa di cui l’uomo ha essenzialmente bisogno, il suo unico bisogno incondizionato»1; ma potremmo anche capovolgere il suo assunto affermando che l’uomo è l’essere che non ha assolutamente bisogno della verità, la verità è l’unica cosa di cui l’uomo non ha assolutamente bisogno. Le categorie politiche si sono trasmutate in categorie psicologiche, ed anche estetiche, e viceversa. Il postruismo (dizione di Maurizio Ferraris) e il truismario (dizione mia) sono categorie imperfette e precarie che dalla «nuda vita» (dizione di Giorgio Agamben) sono passate nella sfera politica e di qui all’estetica; ormai le categorie sono transitabili, permutabili e mutagene, non c’è nulla di solido in esse, sono precarie, inferme, sono entità mass-mediali. Il mondo va alla rovescia ribaltando le categorie che un tempo erano dritte e mandando all’aria le cose statuite. L’ordo rerum del capitalismo sviluppato impone il suo marchio vigoroso sulle cose e sugli uomini, imprimendo sulle loro carni e sulle loro psicologie il sigillo della infelicità coniugale e generale. L’infelicità coniugale è una sorta di epifenomeno della infedeltà e della infelicità generali. Il mixario degli stili e dei registri lessicali è l’ultimo stadio della generale compossibilità che le moderne democrazie liberali concedono a chiunque ne faccia richiesta, e la concessione è gratuita, anzi, addirittura viene rifocillata con gettoni e prebende. E così il disordine delle menti rispecchia il disordine generale che vige nel regno del capitalismo galoppante. In queste condizioni, parlare di libertà e di felicità e di foro interiore significa partecipare inconsapevolmente o colpevolmente all’imbonimento generale delle masse e favorire la barbarie della civilizzazione ininterrotta.

Giorgio Linguaglossa

1) Ortega Y Gasset , Sull’amore, Sugarco, 1996 p. 76 Urbi et Orbi e la teoria del tutto

 

→ (Premessa) →
0.

…e di nuovo vedersi cadere le travi dagli occhi
schiarirsi in un fonema di luce
nel linguaggio segreto di tutte le forme:
stringa – onda – particella – atomo – molecola
riverberi in rapido transito
sotto la superficie degli specchi:
né un prima né un dopo: l’istante duole e ci appartiene
come un lieve sbattere di porte
il secco cigolìo di cardini, sfasati;
né ora né mai: la goccia si fa brocca e ci contiene
come il punto di frizione tra due faglie contrapposte
un fuoco di pagliuzze sotto le ceneri dell’io…

…nascere, rinascere, mai nascere:
da gran vigneto a vigna
da vigna a vite da vite a tralcio
da tralcio a grappolo
da grappolo ad acino cadente:
polvere a buccia d’uomo
in polpa e succo di coscienza…

…la luce illustra mondi al colmo dei riflessi:
spiccò la prima luna e nacquero maree
ed acque nuove in piedi ad ansimare,
a dilatare alveoli all’incrocio dei sospiri,
e come Enea con Anchise appena oltre
l’argine del fuoco e della distruzione,
il redivivo Giona sputato sulle rive,
il secco William con la scimmia sulla schiena
a bocca spalancata e denti storti nel delirio tangerino,
umano, tra le costole, scarlatto respirò…

…dal buio all’incudine del Tempo:
con un guizzo predace della mente
ai quattro venti sottrasse il cielo
e come un cuneo di stelle
tra l’ombra avara dei cipressi
il bosco sacro di Diana
il sangue rarefatto delle fragole,
al centro del suo plesso con forza conficcò….

..tra l’angoscia delle eclissi, i fuochi di meteora, i presagi di cometa,
tra il battere e il levare degli sguardi e il blu degli orizzonti
le origini del grande viaggio:
e caddero le cime, e si aprirono le valli,
sinuose le colline, ampie le pianure, dolci i declivi
profumati di resina e salsedine:
un passo dietro l’altro:
(malgrado l’immagine residua
delle nuvole,
negli occhi acuti dei rapaci,
presagisse oracoli
di paludi e nebbie solforose
ceneri dolenti, erbe amare
e bramosie di lotte)
un sogno dopo l’altro:
(nonostante il fato
che sfioriva tra i cespugli,
e il vento austero del tramonto,
sfrangiato dalle selve,
con sé portasse
il freddo anelito dei giorni morti)…

…in ogni viaggio si nasconde un’ombra:
impronta umana in fuga da se stessa
con un fronte aperto sull’eterno
e l’altro a districarsi tra i roveti della vita…

…di rovo in spina: umanità che scorre
nel tormento delle mosche,
la fame, le labbra screpolate, i fuochi
da mantenere accesi,
la grande Madre cento seni gonfi
e fianchi planetari,
il dio cornuto: nascosto tra i pozzi della notte…

…di riva in sponda: umanità che esonda, affonda
nel filo tagliente delle chiglie e le chimere
sentieri di sangue e spume
scavati tra le scie…

…Fenici. Egizi, Greci, Latini:
da terra con tenacia e grande affanno,
o dal mare nel fiume navigando
fino a toccar Boario
Foro e avamposto esistenziale
sull’isola del dolce guado
a sinistra tra le rive
di fronte al Campidoglio e all’Aventino
dove l’aria rinfrancava
e senza dolo al grande flusso
dorata conduceva…

…e quindi andare,
sognare, sperare e forse ritornare:
con gran fatica tra i sacchi del suo prezioso sale,
i mucchi accumulati di verdure e cereali,
col fango nei calzari, il muschio tra i capelli,
i graffi sui polpacci, il freddo tra le dita,
le pecore, le vacche, le capre,
le vecchie cagne tutte spelacchiate
sempre pronte a scodellare
agli angoli del cosmo
futuri paradossi…

…la storia imperla miti nell’ostrica del tempo:
così Larentia
la calda lupa distesa tra i pastori
che venne all’ansa del suo fiume
e accolse il pianto dei gemelli, pur sapendo,
Matrigna dell’impero
che ogni gloria per sé pretende
metà di tutte le frontiere
intero il sangue di tutte le sconfitte…

 

1.

…bolla, membrana, brana tra le brane,
fluttua, collide, si espande e ci frantuma
nel vortice frattale
(il big bang di una qualche dimensione)
di queste strade millenarie
che un tempo, si diceva,
portassero tutte a Roma
e ora, invece, da questa follia
reclamizzata eterna,
sgranando scorie nel vento se ne vanno…

…le vetrate del cielo
riverberano tutte
una luce differente:
livelli astrali di saturazione
tra mondi immobili
e spicchi di natura
in continua assuefazione,
squarci d’aria e cicatrici d’ombra
tra le infuocate promesse del giorno
e le restanti braci della sera…

…l’inconscio della notte
è il ponte levatoio
tra lo stupore delle stelle
e il nostro cumulo di sterco,
l’architrave sulla porta della cittadella oscura
dove paure e desideri dettano legge
popolano i nostri sogni di creature arcaiche e misteriose:
come gli occhi incandescenti di un lemure
che sogna un cielo fitto di foresta,
l’ombra dolce del riposo,
là dove il tempo si disarma
e lascia aperte tutte le carezze,
o come il tocco di un mostro senza faccia
che sogna un fiore cieco di caverna,
l’intero pandemonio del nostro labirinto,
là dove l’alba resta
l’ultima speranza
che un nuovo giorno venga davvero
a risvegliarci…

…si continua a camminare:
(malgrado le stagioni
cadute silenziose
tra il fumo dei pensieri
e l’onere del passo,
tra i vecchi corsi e decorsi cronici,
gli avanzi smemorati
di tutte le nazioni,
le costole taglienti della notte
e il suo purpureo stillare)…

…sui trapezi del vasto regno
urla e volteggia l’ordine gabbiano:
novello cittadino dell’impero
dall’alto esplora le sue leggi
contempla quei misteri
tutti aggrappati al suolo…

…i continenti vanno alla deriva
e l’orbita di Giove lo protegge
dalle piogge d’asteroidi
ma tra uno sciame e l’altro
la fine incombe e a terra,
quando, tra le fulgide scogliere
delle auto in sosta, affamato scende,
l’alterigia libertaria del suo becco
imbeve nella morte di un piccione…

…il paradiso arriva pasteggiando
all’angelo del sangue s’accompagna,
ma al verbo indifferente
senza il peso di un rimorso
con grazia d’ali a prova di peccato
spalanca un un universo
s’avvolge nel suo tempo
e come una preghiera s’innalza vola via…

…le fasce di Van Allen vanno scomparendo
e la magnetosfera inverte i poli,
ma l’orso bianco non ha cambiato regno
e le vetrine ancora s’appannano d’amore;
il conducente d’autolinea,
assai stressato,
maledice gli accordi sindacali,
il traffico strozzino;
forse un dio salirà alla prossima fermata
e siederà su un trono in fondo la vettura,
lisciandosi la barba, troppo bianca per essere compresa,
farà finta di non sentire
il ragazzino che sbraita al cellulare
e fingerà che fuori il finestrino
non sventoli veloce la santa apocalisse;
oggi è il settimo giorno e lui riposa
domani, forse, la prossima creazione…

 

2.

…il vuoto indossa maschere ed altre orpelli
frequenze a risonanza di materia
che (cosciente oppure inerte)
nanosecondo dopo nanosecondo,
uno sciame infinito di neutrini
trafigge ed oltrepassa
senza meta o patimento
senza colpa o redenzione…

…lentamente le nuvole bollenti
rafforzano gli istinti,
confondono quel labile confine
tra incanto astratto e cervello rettile;
ozono e piogge acide non serbano rancore
che l’inettitudine (l’eterna processione
degli attimi sprecati) è il nostro passaporto,
così le mani diffondono macerie
e il fiume avvelenato si converte
a un’entropia che scorre…

…materia e antimateria
non possono coesistere,
cani e gatti a volte ci riescono;
la piramide Cestia non punta verso Orione
ai salmi del deserto, all’oltreregno della valle,
predilige l’abbraccio ponderoso delle mura;
il bel palazzo utto imbandierato
nasconde agli occhi iene ed avvoltoi;
il bar della stazione muore a mezzanotte:
sedotti e abbandonati girovaghi depressi,
vecchi porci caduti dalle ali,
fantasmi in corso d’opera,
all’ombra dei relitti e dei rimorsi
dispersi nel ludibrio della notte
attendono, con ansia antelucana,
che un altro sole finalmente gli illumini la vita…

…ci si ostina a respirare:
(malgrado la frontiera
dei polmoni consumi:
il lento regredire delle foglie,
la marcia sanguinosa delle cure,
le voci calcinose dell’osario,
i sogni felliniani sperduti
tra i reperti dell’ultima bellezza,
in polveri taglienti
in collere spinose che:
tra il sonno prolungato della ragione,
il luogo mistico
dove fuggono le rose,
i traumi contorsivi dell’arbitrio,
aleggiano e oscillano
rigenerando mostri,
soggetti e protocolli
di cronache mondane al colmo della peste:
ogni parola un colpo di Kalashnicov,
ogni silenzio un vaso di Pandora);
(ogni fiato compiacente corrode il tempo:
l’umano mastice tra il vuoto e il nulla)…

…l’immenso buco nero al centro della Via Lattea
è il perno di un’assenza che inchioda le lancette,
il perno divergente di un altro spazio
attorno al quale la galassia ruota:
con dentro tutti gli argomenti, le promesse, le rinunce,
le favole dell’arte, il sole a mezzanotte,
il coro frastagliato delle piogge,
e tutto quello che ancor ne segue,
ma non per sempre, per sempre: mai….

…il grande pioppo ai margini della galassia
al centro della piazza del popolo sovrano
è caduto nei secoli distante
senza l’annuncio di uno schianto,
il minimo clamore…

…quattro leoni accovacciati sognano
savane di marmo e prede nerofumo;
il maestoso Flaminio pungola e ripungola il cielo
per sé pretende tutta la potenza del suo dio
che non risponde e né gli frega del come
del quando Rosati e Canova
hanno smarrito l’arte e la cultura,
il teatro della vita ora appartiene
al biossido di azoto,
all’arsenale incattivito della sera,
al cuore sincrono dei frontalieri storni
che s’annuvola e pulsa in aviogrammi
che solo il falco pellegrino riesce a decifrare…

…le vetrine del tridente, Saulo,
da sotto il culo del cavallo, Pietro,
dal supplizio capovolto,
gli atomi del Pincio, il secolo mutante,
la luna e i suoi bordelli,
Mastro Titta avvolto nel suo viola;
le ombre un po’ sbiadite di Targhini e Montanari,
sentitamente, ringraziano…

 

3.

…sotto la morsa di una luce infetta
come un esercito in rotta
i ghiacciai arretrano,
sul campo lasciano, allo scoperto
morene di un futuro antico
non ancora disvelato;
ai poli le calotte si stracciano le vesti;
il mare tensio-radioattivo fa la gobba e tracima
oltre le dolci scogliere della grande indifferenza;
il sesto continente alla deriva, ogni giorno,
come l’arroganza, aumenta,
immarcescibile, il suo plastico fiorire…

…sul proscenio dell’arcipelago teatro:
le iguane che brucano alghe e sputano sale,
le Sule dai piedi azzurri, come gli occhi
di Nettuno che si specchia nell’oceano,
le grandi tartarughe, con l’intero mondo,
a passo greve tra le ere,
ancora recitano la loro parte:
felici i turisti, felici gli indigeni, felici i darwiniani,
felici i sognatori e felici pure gli assassini…

…Europa ed Encelado,
sempre in giro a fianco dei giganti,
sotto un manto, chilometri di ghiaccio,
nel grembo custodiscono un oceano
senza fuochi all’orizzonte, né Zenit né Azimut,
auroe boreali, tropici del Cancro
trentottesimi paralleli ed altre parodie:
nel buio forse un’altra animazione…

…ad Ostia i cavalloni divorano le spiagge
scalpitano fin dentro l’ossa dell’impero;
l’ingombro lungomare abusa del suo slancio:
ingoia panorami, mastica tramonti, intruppa
zavorre e residenze mai nate marinare:
(gli sguardi troppo stretti prevedono solo rigide frontiere)…

…una certa seduzione di macchia mediterranea,
a volte fitta, vedi la luna boscosa di Endor
a volte rada, tipo la cicoria sui campi d’Annibale,
sovente (come i dubbi del murino
sui modelli della scienza) s’insinua
tra le solide certezze di un verde assoggettato,
giardini, maneggi, infernetti, pensieri
non di rado pertinenti e premurosi ma piccoli
e chiusi come le cucce dei guardiani
di razza ruvida che li difendono;
sul fronte rettilineo di un’enfasi stradale, le vetture,
con dentro tutte le variabili (umane e trasumane, sfrecciano;
qualcuno fugge o piega verso un limite di mare,
altri confidano solo in un viaggio senza troppe scosse,
di ritrovare una qualche via di casa
e concedersi di nuovo il lusso
di spegnere la notte col tasto della luce…

…a quanto pare undici è il numero perfetto
ma in quest’angolo ottuso di paradiso
si gioca ancora a dadi con Dio e l’universo:
ad ogni lancio un probabile futuro
un punto matematico tra semina e raccolto;
il giorno stesso che il piccone nero spaccava i muri,
i tetti, le povere case, le piccole storie (Spina dei Borghi)
per un mancato appuntamento col destino
il sogno folle di un secolo marziale,
così vicino, così lontano
dalla città più “viscerale,paludosa, caotica”
di tutto il regno occidentale,
tra i codici del vento, le fresche lande dell’erba cruda,
sotto i nidi del Gheppio e la Poiana,
la prima grande pietra dava un senso
e un principio all’opera
e da un’era a un’altra
asettico, imperiale, futuribile, decadente, si erge:
quartiere acronimo della grande esposizione…

…di giorno, sotto la grandine dell’ore chiare
attenua i rigidi profili e dialoga col zenno e la follia,
di notte sotto un’anticamera del nulla
riaguzza gli angoli e rivendica i suoi lupi;
in certe sere di piena estate,
quando le ombre cadono lunghe e minacciose,
e tutt’intorno senti l’ansia del suo spazio
trasalire fino al centro del respiro:
manca solo la sagoma del treno che in lontananza,
sotto le tegole di un cielo ignoto ai mondi e alle galassie,
sbuffa le glorie e le miserie del suo viaggio leggendario;
la grande statua bianca al centro della piazza che
distesa tra il vuoto e la materia
con lo sguardo scolpito oltre la ckmmedia
veloce dà un’occhiata alla sua carne;
sotto una luce rigida e tagliente,
in piedi nel muro del silenzio, una di fronte all’altra,
(specchio nello specchio) due figure in apparenza umane,
alieno il cuore superflua la ragione, appese al fuoco,
all’aria, all’acqua, alle polveri del mondo;
il tutto, il niente, un solo istante
e tanto basta…

 

4.

…A come Andromeda: che in quel piccolo
smisurato angolo del nostro verso, in remota
presunta solitudine inarca e avvolge i suoi bagliori,
Vu come Via Lattea: unica consorella
che al momento in sé scintilla prove di gaia scienza,
con tutti i crismi, i vuoti, i pieni, gli archi e le volute,
più veloci dei sogni luminosi di un levriero,
hanno deciso di corrersi incontro,
non sarà un vero impatto, piuttosto, quasi senza sfiorarsi,
come due spettri soltanto si attraverseranno;
materia ed energia sono lampi della stessa tempesta:
astri, comete, lune rosse, lune verdi, pianeti, buchi neri,
e tutto quello che sta nel mezzo dalle origini del tempo,
fusi, spaccati, rimescolati, scagliati in altri cieli e vincoli spaziali,
di una galassia sola infine splenderanno;
quel lontanissimo giorno nessun asceta, né una reliquia di filosofo,
o un oracolo scaduto, un neurone di scienzato,
un poeta di ritorno analfabeta, un cinguettio sociale
nessuna voce dall’umano a imporle un nome o un altro planetario…

quel che resta del giardino al centro
della grande piazza porticata, gioiello umbertino
di una capitale da poco conquistata,
rinfresca ancora lo sciame scottante degli eventi
a partire dagli echi e le maree di una memoria
rimasta in parte ancora accesa
fino a quel limite, sostanza invalicabile,
tra il sogno di una quiete e l’attimo che preme;
testimoni furono le possenti mura del Ninfeo,
le antiche terre degli orti e dei vigneti sradicati,
il campo scellerato dei condannati a morte…

…e dunque i poveri vecchi Platani contorti nel respiro,
i bei Cedri del Libano venuti in aeroplano,
le chiome scolorite delle Palme troppo in alto per essere notate,
il profumo inacidito di Magnoliq, residuo di un tempo
ormai lontano che gli uomini chiamavano: primavera,
l’alto Cipresso interno e quello esterno
intrappolato nella morsa delle aiuole,
il fritto misto, il Pino dei buddhisti, testimoni restano:
dell’ossesso aggrovigliarsi degli istanti bellicosi
talmente ingarbugliati che neppure la spada di Alessandro
o la Katana del saggio Hàttori Anzo riuscirebbero a scalfire;
la porta alchemica preserva ancora i suoi segreti
nella speranza che prima o dopo un pellegrino
del tutto rinnovato ritorni a disvelarli,
il dio Bes intanto fa guardia doppia in attesa
che finalmente dai corvi nascano candide colombe
e che la Terra torni a volare sopra le nostre teste…

…gli exquilini, sempre gente da suburra
carne marcia da rigettare fuori le mura,
distanze umane con i chiodi nel midollo,
galassie clandestine in urticante attesa
di poter brillare, un giorno, di una luce tutta propria
degna di esere salvata;
i filari di Spina Christi indifferenti fanno ombra spigolosa
ai passanti che inconsapevoli, lungo la strada che congiunge
la Cattedrale del miracolo nevoso (eretta sulle spoglie
di una Madre rinnegata) alla Basilica
che in sé conserva l’estasi del dono e l’indice del dubbio, calpestano
schegge del verbo pregare, ceneri di un insensato ardore,
scaglie d’argento, lische dorate, nascite e rinascite
sulla via dell’eterna trasformazione…

…lo storico mercato ha preferito le pareti di caserma:
troppi gli odori incontrollati, le spezie colorate,
lo strepitìo di voci, le aspre nervature,
la pelle da sfiorare, i beni da occultare,
e troppe nuvole fin troppo cuore da spartire:
che un minuto, un’ora, un giorno in più al sicuro
val bene una stolida fortezza…

…sotto i portici le ombre sfumano, divagano,
s’addensano, si elidono, confliggono, combattono
una guerra mai del tutto dichiarata;
tra il vivido e l’opaco inseguono gli assetti
irregolari di un paesaggio errante,
la santa litania dei giorni vuoti appesi al calendario,
ignorano che oltre gli scalini dell’ultima penombra esiste un’altra vita:
troppo vicine alla stazione per sentirsi davvero a casa
che il viaggio è solo una partenza, tutto il resto, un’epica speranza…

…alle prime luci dell’alba nel cerchio del giardino
(luogo vero quanto immaginario)
gruppi di anziani con gli occhi ancora carichi d’oriente, mentre i loro
nipoti dormono sonni profondi di flusso occidentale, dolcemente danzano:
con grazia millenaria rallentano le frenesie del multiverso;
da qualche parte, oltre i recinti del piccolo orizzonte,
c’è La Mecca che, da questo lato dell’impero, attende,
con fiducia, la sua dose quotidiana di preghiere,
Santa Maria Maggiore e Sant’Eusebio applicano orari differenti:
un’offerta, una candela accesa , una vecchia col rosario
a volte bastano per un salto in paradiso;
l’impronta di Siddhartha non lascia mai la stessa forma
convive suo malgrado con l’oro delle Icone e il senso del peccato;
Il Creatore, Il Conservatore, Il Distruttore. respira
cammina e vibra assieme al venditore e a tutte le sue rose;
all’imbrunire, quando le luci dei lampioni e quelle delle poche
insegne rimaste accese provano con ogni sforzo a diluire
la netta oscurità che incombe, sul carro dei viventi salgono
i frutti avariati, i figli maledetti della grande Babilonia:
il buio arrota e affila le congiure della notte,
la paura rasenta i muri, incalza i mantici del fiato,
dietro i portoni, le porte trincerate, le sbarre alle finestre,
rafforza le catene dei nostri pregiudizi:
il dio della vita, il dio della morte, respirano lo stesso sogno
e le Stelle stanno ancora a guardare…

tutti i fiumi del mondo scorrono tra queste strade provvisorie
sopra e sotto le dinastie del volgo,
dentro e fuori le rive di questa gente;
il Niger che trasuda Uranio ed Erbe ad alto potenziale;
il sacro Gange che accoglie e placa le nostre ceneri
e quelle di tutti gli universi presenti, passati e futuri;
i mille Uadi che polvrosi attendono il ritorno
delle stagioni delle piogge per risorgere
e ribadire all’occhio i fiori più belli del deserto;
il grande padre Nilo che ai reggenti di nuovo
occulterebbe le sorgenti e se potesse pure il maestoso Delta:
l’Indo che vide gli Dei scendere e combattere tra gli uomini;
il Karnaphuli profumato di tabacco e fiori del cotone;
l’Urubamba che in alto spacca miti e montagne sacre;
il Danubio che nero nasce, nero muore e nessuno ha mai visto blu;
e il Fiume Azzurro, il Fiume Giallo, il Reno, il Volga, il Nipro, fino al casalingo
amato odiato Tebro che dai tempi del riflusso
ha smarrito le acque della Storia,
ora lo sciabordio delle cronache mondane appartiene
al tuffator di capodanno, ai gorghi e ai mulinelli del prossimo suicida;
e tutti i destini del mondo scorrono intorno sopra e sotto
i cieli, le scadenze, i vuoti, le speranze (sempre ultime a morie),
i piani dettagliati, le cadute rovinose,
le vertigini del bene, le voragini irriducibile,
di tutto questo caparbio ostinato irriducibile
brulicar di genti chiamato vita;
ma ogni uomo è goccia e per quanto pura trasparente,
per quanto torbida e corrotta
fino a quando cadrà la pioggia da fonte a foce in qualche modo scorrerà…

 

5.

…lunedì in luna: non spunta a Marechiaro
implacabile riflette sempre la stessa vocazione,
il frastuono si eleva in forme originali e assedia la giornata,
sul lato oscuro della strada il granda monolito
progetta prossime odissee;
martedì in marte:un tono cosmico di rosso che aiuta a guerreggiare,
tra queste mandrie incolonnate la vita si torce nei deflussi
appanna i parabrezza, raccoglie i frutti dell’albero motore
implora una riserva che la trasporti al di là del limite di fabbrica ;
mercoledì in mercurio: tra un inganno, una bugia, un mercato
da esplorare, l’oroscopo del giorno, due chiacchere
e un certo grado di eloquenza, tra un furto e una rapina
l’arco del giorno si piega verso sera,
oltre le radici del buio: l’accompagnatore
col suo bastone alato, all’ombra dei serpenti,
sulla via per gli inferi divinamente attende l’anima di turno;
giovedì in giove: gravoso nel mezzo delle orbite,
al centro di tutte le fatiche ancor più dura ci appare la salita:
superati fulmini e saette a volte la burrasca
ci trascina verso mondi più leggeri;
venerdì in venere: verità bellezza (sorgiva come stella del mattino,
azzurra come l’ombra degli Dei) è l’utopia del vuoto
cielo terra oceano, un nòcciolo pensiero in grado di pensarla;
sabato in saturno: lo schiavo per un giorno banchetta col padrone,
tempo concesso alla confusione delle forme, al tradimento delle scale,
un attimo lasciato all’intemperie prima che Bonaccia torni ad infuriare;
domenica al Signore: che sia incenso, fiore, verbo, coscienza, pace,
che sia:suono, canto, danza, onda, silenzio, moltitudine, candore,
che sia pioggia,:deserto, assenza, compassione, che sia salvezza o cenere:
che sia oppio o verità: a ciascuno il suo spicchio d’infinito…

…oltre la forza bruta di Nettuno, dopo la fascia di Kuiper,
la nube di Oort, asilo di comete, ai margini estremi
del nostro sistema, ultimo residuo della grande nebulosa
da cui nacquero il Sole, i pianeti e persino questa mano deformata,
che faticosamente digita meteore, ci avvolge come un nido di memorie…

…l’ultimo tram affonda nella notte, su di sé convoglia
gli effetti siderali di tutta la giornata;
a bordo la tensione si taglia col coltello,
per fortuna la stanchezza
costringe le mani nelle tasche, gli allarmi e le congiure a sonnecchiare;
sui binari presente e futuro scivolano via veloci senza mai sfiorarsi,
le linee del passato invece non sanno dialogare e non prevedono ritorni;
da un capolinea all’altro tutte le storie si consumano in formule diverse
a ciascuno il suo conflitto ad ognuno la sua chiave di memoria;
l’ombelico, il cerchio descritto dalle braccia, è l’unico universo recepito:
criceti nella ruota gli automi a corto di orizzonti vanno e vengono, salgono
scendono, fino alla fine dei tempi e che sia la notte sia giusta;
intanto l’alba innalza le sue vele color dell’oro e dell’arancio
il freddo e l’inquietudine si sciolgono in un sogno senza morte…

…e l’infinito spazio, gli infiniti mondi son colati in un bronzo
lugubre,dal taglio incappucciato, con le spalle rivolte al Cupolone
lo sguardo teso al cuore dell’incendio, le braccia serrate
attorno al mistico cmpendio: summa del suo libero pensiero;
degli eroici furori appena un’ombra sui sampietrini lucidi di pioggia,
tracce di saliva sugli eserciti di bottiglie vuote
sedotte e abbandonate sui gradini della notte,
e questa neobabele di debolezze alcoliche e dissennati amori,
l’acuto tramestio di posate e piatti pronti, la lista dei solfiti e dei nitrati,
il flusso smisurato dei discorsi senza peso, fantasmi vocali di un altro verbo,
e il lampeggiare azzurro delle blindo ai lati della piazza: come un’estetica
del bene a guardia di un Urbe (e un Orbe) dal grilletto facile e l’anima scoppiata;
dello spazio della bestia trionfante a malapena qualche ciuffo rbaceo
tra le piaghe e le ferite del tessuto urbano, il solito stridore di gabbiani,
il triste zoccolare dell’ultime botticelle ed altre frazioni di di natura varia
tradotte in codici e recinti a somma vitruviana;
Diana si bagna in acque putride e il cacciatore non si ferma ad ammirarla:
bosco preda e predatore si sono allontanati, per sempre separati
da una distorsione inconsapevole dello sguardo; nel frattempo
la gramigna, il cinghiale, il branco rinselvatichito covano vendette…

 

Metafisiche da passeggio

1.

Necessario, a volte, immergersi in un intimo spiraglio:
farsi frammento clandestino d’un calendario umano,
il rintocco perduto di un tempo mai cronometrato;

immaginare meridiani e paralleli inquieti
fino all’estremo di un orizzonte obliquo
appeso all’attimo incoerente quando lo spazio
distorce la matrice e precipitano visioni,
presagi archetipali di solstizi ed equinozi

ben oltre la dottrina dei nostri sguardi indagatori
che, come steli di pupilla, oscillano tra luce ed eclissi.

Nel mito del concreto, frequenza e costanza d’onda,
di vita in vita, la vita, vivendo, s’infiamma:
fragile e densa carne di stella
nel fulcro dei sensi collassa e s’irradia
raggio per raggio, pigreco miraggio,
giostra e giostraio del palio mentale.

Il vento indifferente agita ancora
le dotte affermazioni di filosofi e scienziati,
gli ultramondi sensibili di santi e sciamani.
E iInsolente la pioggia scende. Senza contegno liquida:
memorabili tesi, argute teorie, incrollabili certezze
nel luccichio sapiente d’acque dolci e salmastre.
Brucia assoluto nei campi del vuoto
il fiore quantico dell’infinito mutare:
da fiamme a fibre, bagliore di nervi,
siamo un dardo cosciente di luce che genera forme
e polvere alla polvere, cenere alla cenere,
ogni scintilla torna all’origine del suo vuoto.

Ma conquistare l’ignoto alquanto ci costa:
un patrimonio faticosamente accumulato di gesti
fin troppo dissoluti, ineffabili crudezze, nodali
esperienze sperperate a braccia conserte e passi felpati.

Forse se avessimo tentato un’altra insurrezione,
una rivolta nuova senza mai sfiorare il grilletto
inesorabile delle parole dolorose;
se avessimo parlato una lingua accorta
senza mai vendicare quel barlume a volte
incandescente a volte rassegnato che ci precede
tra il battere di ciglia e l’eco delle palpebre…
forse staremmo tutti bene e ancora del tutto vivi

 

2.

Tra basso cielo e vasta terra concedersi una tregua:
una promessa di purezza totalmente disarmata,
il nostro armamentario inferno deposto per la resa

e aprirsi al perdonare come sempre fa la retina
ogni qualvolta che, nel suo duplice affabulare,
il mondo capovolge spacciandolo per vero.
Simulacro intellegibile tutto mirato a lucido
sottoposto a ragionevole interpretazione

ben oltre i sacri canoni del giorno e della notte
le ambigue volontà del sonno e della veglia

perché materia ardente materia oscura,
progetto sintomatico dell’endoverso,
qualunque fosse all’origine la causa del dividere
l’oggetto del comprendere, in conclusione
caduti come fragili conchiglie, gettati a capofitto
tra le scabrosità dell’ego, guerreggiando, stiamo.

Sperduti a dismisura in ogni pianto nascituro,
in luogo alieno a qualunque verità di fuga,
senza requie: respiro per singolo respiro.
Un velo esteso dentro e fuori e tutt’intorno
come se al mondo fosse un altro del tutto estraneo
al ciclo circadiano a sognare l’umanità che erige
il muro quotidiano dei fatti e dei misfatti.
Per tutto il resto di certo non bastano le forze
che appena appena avanzano a porgersi domande
che ansiose tremano e volteggiano nell’aria
in trepidante attesa che oracolo risponda,
sperando, invano, che orecchio le raccolga.

Istante per istante, sorge e risorge il moto
dei pianeti: e nel punto preciso, incrocio di creato
e ricreato, si compie l’ennesima illusione: il trucco
del coniglio che spunta dal cilindro del mago universale.

Forse se avessimo guardato da un altro punto d’osservazione,
diretto, con mirabile saggezza, l’intero caleidoscopio
su cieli assenti e galassie tra gli specchi,
senza mai contestare il prodotto eterno lordo
del buio e della luce, o se avessimo solo goduto
il senso univoco dei fiori e dei colori
senza mai offuscare il lume dell’artista
forse staremmo tutti in pace e finalmente liberi

 

3.

Concedersi di tanto in tanto il dolce lusso,
il sano dubbio : è meglio stare oppure andare?
Ma nulla a questo mondo è davvero bifocale.

Se un passo segue l’altro, una è l’orma che lasciamo:
che sia traccia indelebile impressa in un quasi vuoto,
grande balzo del genio umano a spasso sulla luna,
che sia l’impronta fossile del pensiero vestigiale,
uno e soltanto uno è il calco che affondiamo

ben oltre le frenetiche scalate, le atroci scorribande,
le nevi, il fango, l’erba cruda, e il buio da squarciare

perché, a memoria d’uomo, le cause del partire
le contrastanti e solitarie ragioni del restare
di pari passo vanno lungo le anguste vie
che corrono e attraversano ogni dannata storia:
siamo le piste insanguinate dell’ultimo bisonte,
le irriducibili barricate prima dell’orrido sentiero.

E dunque rinnegarsi a decifrare eventi:
soggetto oggetto; causa effetto; esterno interno;
quel complesso intento, quel rito tutto biologico
che ad ogni costo sempre vuole travasare senso
in un compendio logico a misura di cervello,
come se lingua e segni del cammino ci appartenessero
incisi a fuoco tra le rughe della fronte, le valvole
del cuore, il vorticoso eccedere di formule e preghiere.
Le presunzioni, dicono, rendono l’uomo scaltro,
perfettamente in grado di comprendere,
con le dovute cautele, il sonno delle rocce,
l’onore delle querce, il gusto delle nuvole.

Infine scienza o metascienza quel che forse
a malapena emerge dall’utero del mondo:
è un’esigenza chimica che aspira al cielo,
una ghirlanda accesa tra le pieghe della sera

 

Gli inganni del traguardo

I sing the body electric

Se, di slancio, da un tempo non ancora diramato:
(strepitio di verbi di vago declinare fuori e dentro
i respiri di questo castello senza torri
né muraglie, ma di sole feritoie)
staremmo ancora qui, nel mondo affastellati,
di organismo nuovo a decantare:
vertiginosi approdi e intrepide crudezze,
quali interpreti, quali voci,
quali immagini, quali incanti se non per dire:

“…mai più vicario era:
al palio siderale di tutte le contrade
umane e sovrumane,
al combattivo inganno di una volontà di carne
caduta e dilaniata al centro di questa muta guerrq
che soltanto esiste nel breve ingaggio
della sua dissipazione;
mai più vicario era:
alle corrotte fecondità del seme e dell’ovaio,
ai margini discreti delle indotte consuetudini,
al gorgo tumultoso delle correnti alluvionali:

saldo scoglio al centro di ciò che ovunque scorre
fieramente stava:
(eroico continente dell’umane meraviglie).

E non più soggetto era:
al rigoroso sfinimento dell’indagine perenne,
al gelido sbiancare dell’ennesima parola pronunciata;
e non più soggeto era:
al peso insostenibile di esser freccia e mai l’arciere,
al ristagno dei fluidi, all’estradizione delle cose morte,
al ripiegamento delle vertebre sul cuore dell’abisso:

incompatibile al gergo dell’antico transitare,
senza timore alcuno, massiccio e puro,
sull’orizzonte degli eventi, superbo, andava…”

Questo è. Fu. Sarà: il secolo inderogabile
del corpo nuovo che ibrido
riassume, nel buio e nell’azzurro,
la risacca modulare delle intere percezioni
organico-inorganico
variabili circostanze di realtà aumentate
segmenti di corteccia replicante
che trasuda un’ambra di pensieri del tutto originali
e intrappola concetti inclini all’esatta taratura..

Saccenti e osceni quanto basta, ancora cantavamo:
“…questo è il blues del pianto elettrico a lacrime di cromo;
del sangue color dell’argentoro che,
da un polo all’altro reclamato, più veloce
del lampo cellulare, come una tempesta scorre;

e questo è il blues del tempio risanato
che atomo per atomo rinnova la promessa:
spiga nuova, futura resistenza…”.

Gabriele Pepe

 

2 commenti
  1. Dante in Vita nova:

    con ciò sia cosa che li nomi seguitino le nominate cose, sì come è scritto:
    «Nomina sunt consequentia rerum».

    Gabriele Pepe aspira invece a un grado zero della scrittura:
    rompendo la relazione fra nomen e res, fra cosa e nome, fra nome e cosa, si può verificare ciò che Gabriele Pepe prospetta in un suo verso ben riuscito: spezzandosi il legame “Preda-Bosco-Predatore”:

    “[…]
    la gramigna, il cinghiale, il branco rinselvatichito covano vendette[…]”

    Risultato che in modo limpido Giorgio Linguaglossa in prefazione sintetizza così:

    […]il disordine delle menti rispecchia il disordine generale che vige nel regno del capitalismo galoppante. In queste condizioni, parlare di libertà e di felicità e di foro interiore significa partecipare inconsapevolmente o colpevolmente all’imbonimento generale delle masse e favorire la barbarie della civilizzazione ininterrotta.”

    Sul piano meramente linguistico-ritmico Gabriele Pepe, per esiti estetici più pieni,
    per me farebbe bene a intervenire sui testi con paziente labor limae soprattutto sul versante della relazione aggettivi (troppi)-sostantivi, a favore dei sostantivi.

    (gino rago)

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