Rocco Salerno, due Canti da “Una notte in Paradiso”, Lepisma, di Gino Rago

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Rocco Salerno con Dario Bellezza

Considerato il fondatore della critica stilistica, Dionigi di Alicarnasso, già nel I secolo d.C., dall’esame di alcuni esempi omerici dimostrò che la bellezza di quei temi e di quei luoghi non risiedeva nelle parole usate dall’Autore – tutte di uso comune – ma nella loro synthesis, cioè nella loro composizione. Sicché, parola e ritmo, metro e armonia sono le ineludibili componenti della forma poetica (sia in poesia, sia in prosa d’arte) per giungere alla psychagogia degli ascoltatori. Questa lezione dionigiana Rocco Salerno mostra d’averla elaborata proprio in questa prova di poema epico:

“Se avessi ancora saputo che tu eri occulto,
che la tua lontananza poteva ancora
accendere il mio animo
ti avrei affrettato.
Ma troppo tardi e stanca risuona la voce
nel cuore…

Un passaggio esemplare in “Una notte in Paradiso” in cui Rocco Salerno, con l’enjambement squisitamente montaliano, dà una risultante vettoriale di poesia epica moderna destinata, necessariamente, come quella aurea di Omero, all’ascolto, cioè ad una percezione subitanea e oggettiva nella quale giocano un ruolo decisivo le connessioni fra le parole e le assonanze, le allitterazioni e persino le pause.

“Saremo diluvio nell’armatura vetusta
su questa terra che ci vieta l’azzurro.
E non avremo più sogni né giorni…”

Anche in questi versi, ben costruiti e destinati al piacere dell’ascolto, Rocco Salerno si conferma polytropos, uomo dai molti percorsi, ma tetragono nella fedeltà alla parola, ai luoghi, ai ricordi, alla famiglia, con la madre a occupare il centro gravitazionale del suo sistema poetico. Le altre verità presenti nel libro le disvelino a sé i lettori.

Gino Rago

 

Canto V

Non dirmelo o rimproverarmelo:
non sono stato mai adulto.
L’ho sempre saputo
nella coscienza più buia,
nella misura esatta della mia menzogna
aperta sul mondo
ogni giorno ogni secondo
come il sole quando piove sulle cose
e improvviso s’abbandona alla bufera.
Non sono mai stato certo
di essere su questa terra
uomo fra gli uomini
cosa fra le cose.
Forse un’ombra in cerca del sole
del volto che mi fioriva dentro gli occhi
e diventavano arcobaleni e foglie
uragani e croci.
Solo in cerca della mia solitudine
aperta alla tua voce silenziosa
ai tuoi rimproveri
ai tuoi sussulti nel pensare il tuo bimbo
smarrito per il mondo in cerca di luoghi.

Non sono mai cresciuto.

E’ solo la mia ombra che s’accompagna
al mio passo cadenzato,
è solo la mia carne pesante
che si dondola per la città
in cerca di un crogiolo, di un occhio.

Sono solo il bambino sempre più solo,
insieme al mondo che grida la sua vittoria
in una città sempre più sola e in abbandono,
il suo giorno come il moribondo
dentro la tua carne, dentro le tue visceri ancora calde.

Non discacciarmi.
Fammi ancora parte di questa condanna.

Sento il ribollire del sangue nello sventolare dei platani,
nelle macchine,in questa notte turbolenta che si confonde
al sordo gemito del Tevere,
nell’ombra della mia ombra che si annida negli alberi
quasi volesse tendermi un agguato
quasi volesse dirmi: “Non ti libererò”.
Sono dentro la rete del tuo silenzio,
del tuo abbandono sul mio corpo
come il primo giorno.

Cammino e mi ascolto.
Cammino e ti ascolto.

Liberami da questa voce che m’ossessiona.

Su questo eterno sventolare degli alberi
su questo sussulto delle strade
trovo l’eterna voce della mia nascita.
Su questi occhi giocano solo
insegne di colori.

Dov’è il mio volto?

Non trovo una parola
negli occhi insidiosi
della gente.
Si sfalda ogni certezza
anche il senso dell’esistenza
trama insidie alla coscienza.

Dove trovare l’albero
che mi cresca dentro?
Dove il fiume che trascini i residui
dei sospiri,
dove il Tempo che batta
e si fermi sul petto?

Trascorro come l’acqua semplice
senza sapere
come il Tempo inerte vorrei essere fatto
per vedere così senza rimpianti o tristezze
succedersi le ore e i momenti.

Scende il gorgo della mia voce
su questa città in disordine.

Dove ti porterò?
Dove troverò il mare che culli le tue braccia,
dove il Castello che imprigioni come una casa
le tue infinite tristezze
squarci o addolcisca la tua voce grave?

Viene dalla notte, solo nel cuore della metropoli,
il mio giorno sul tuo cuore.
Accendo roghi sulla mia memoria
per farti risorgere
sulla memoria del tuo corpo
per farti ancora giovane.
Siamo dentro gli orizzonti
che conosciamo io e te,soli,
nei lunghi soliloqui della notte,
tu a pensarmi ancora fresco e sano
ed io a implorare la Parca
che rimandi la sua visita
e s’arresti l’orologio in cucina
(non segnando l’ora fatale).
Roma e dentro questo cupo rimbombo
del mio cuore,
queste onde di voci
dentro cui si perde e s’erge la tua voce
silenziosamente sola a rincorrere il mio volto.

Ascolterò ancora dalle tue labbra
il mio nome,
reggerà ancora il tuo cuore
solo?

Forse perché ho consumato l’anima
dentro la tua anima
non ho pace
neanche dentro lo sguardo
il suono delle labbra.

Non telefono e so che mi attendi
e svolazzi i capelli al balcone verde
semmai ti sorprenda
a vedermi all’improvviso scendere.
Ed io come farti capire che il silenzio
è tempesta dentro il mio petto,le mie idee
– che mai sei riuscita a credere eterne –
foreste di sentimenti
incendi di tormenti rappresi
quando cerco di stanare lo strazio
della nostra lontananza.

So che sei certamente scontenta
del figlio che ha soltanto sogni
da involare all’Eterno,
da incielare sulla tua voce ormai grave e fiacca
che cerca fintamente felice di allontanare.
Eppure s’aprirà dalle tue mani il mio Natale,
il mio essere sospeso dentro questa foresta,
s’aprirà l’acqua della tua semplicità sulle mie mani,
sulla mia carne sempre più sfatta.

S’aprirà le tua voce come quel giorno
quando mi raccogliesti senza parola
come la calma in questo parco
ove il tempietto guarda proteso
il celeste del nostro sereno.
S’apriranno dentro di me le tue conchiglie
da cui discendono profumi (effluvi)di stelle.
Il rumore dell’acqua nell’acqua
si distende nella nostra anima in tempesta.
Neanche il verde perenne ha più senso
se tacito scorro i tuoi firmamenti
da cui piovono immensi celesti
da cui s’aprono voli di colombe
a sghimbescio sui miei occhi
quando – silenziosamente – mi dai la mano
e tutto il mondo furente par che rinasca,
tutto il mondo rinasca dal nostro lontano
tacito sguardo.

Per una sola notte anch’io sono stato in Paradiso.
Una notte soltanto in Paradiso a vegliare il tuo sorriso.

 

Canto XXVII

E dovevi venire a rinsavire il grido
fra queste case intirizzite e valli impazzite.
E io ad attendere Gerico al limite
invalicabile della mia pazzia.
Dovevamo morendo nascere stanotte
per sapere che ancora il mondo
ha da schiudere gli occhi
inferociti da tanta pietà
di sangue sulle strade.
Ancora il fratello solenne
rinnova l’invito al fratello.
Attendiamo ancora
al varco del suono.
Ancora io e te, cuore, attendiamo in penombra
soli per coprire di fiori la Morte
e i nostri volti di sole.

Ancora un giorno per la creazione del mondo,
mio Signore.

Rocco Salerno

 

Rocco Salerno è nato a Roseto Capo Spulico (Cosenza) nel 1952 ma è vissuto per tanto tempo a Roma prima di trasferirsi a Fondi (Latina) dove insegna materie letterarie in un istituto superiore. Ha pubblicato numerosi libri di poesie e saggi critici e collabora a diverse riviste letterarie nazionali.

 

3 commenti
  1. Ringrazio con gratitudine

    – Giorgio Linguaglossa ,
    per avere ottimamente confezionato e proposto questo pezzo sulla poesia di Rocco Salerno;

    – Luciano Nota, e la Redazione di La presenza di Erato,
    per l’ospitalità su una pagina di Erato davvero ben curata.

    Propongo un’altra mia meditazione, del 2014, su un’altra raccolta poetica dello stesso
    Rocco Salerno per la delicatezza delle implicazioni religiose che la percorrono come un lungo, intenso brivido.

    Gino Rago
    Rocco Salerno, L’origine del fuoco, Caramanica Editore, Marina di Minturno, 2014

    Sdipanando questi versi recenti di Rocco Salerno lungo quell’asse, non ancora abbastanza esplorato dalla critica più attenta, della “lirica religiosa” italiana che da Jacopone da Todi e Francesco d’ Assisi giunge a Clemente Rebora e a David Maria Turoldo, Rocco Salerno, per quid et quomodo, propone una ricerca di poesia i cui esiti si affrancano dal dominio della prosodia montaliana, dalle inclinazioni orfiche, dalle vibrazioni sapienziali, dai numerosi e asfissianti gerghi poetici che popolano l’interminabile coda della poesia italiana del tardo Novecento e di gran parte di quella dei primi lustri del nuovo secolo.

    “Gli alberi attoniti ci guardano; non sanno
    che anche noi portiamo una Storia

    di là della Parola”:

    così esemplarmente Rocco Salerno organizza i suoi versi nel corpo del Canto Terzo del suo volume lirico quasi a preparare l’ansia di “trovare la scorza verde dell’Albero” e a dimostrare che “tutto è candida illusione” (Canto Sesto), in una transitività espressiva che spinge tutto il lavoro poetico al di fuori dell’oscurità e dell’ambiguità del dettato poetico estroverso e proprio d’ una certa poesia creaturale che vuole il poeta al centro dell’accordo con le voci delle cose, del sentimento basico del vivere, del battito della e sulla natura.

    Il tutto fondato su poche ma chiare parole chiave che l’Autore de “L’origine del fuoco” potenzia con “l’adozione della maiuscola” che “rimarca… la caratura di fede… nella pregnanza del divino” (davvero colta ed efficace la riflessione di Pasquale Maffeo in prefazione):

    Certezza, Verità, Senso, Aria, Cielo, Parola, Trionfi, Paradiso…

    Ormai, la Poesia italiana significativa è fatta dagli appartati, da quelle che un tempo, per rimanere al Novecento lirico italiano, venivano dette le “solitudini poetiche” (mi vengono in mente i nomi di Sbarbaro, di Rebora, di Campana…) come Rocco Salerno : non più dai “poeti laureati” che marcano il proprio territorio con le urine maleodoranti della spocchia, nell’attesa del Nobel per la Letteratura…

    E guai a chi osi a malapena sfiorarlo questo territorio marcato, figurarsi a invaderlo, codesto territorio di presunta superiorità.

    A farlo, a tentare di farlo, potrebbero scapparci perfino i morti.

    (gino rago)
    (Roma, 2014)

  2. Caro Gino, grazie per i Canti di una notte in Paradiso, di Rocco Salerno, che hai presentato . Mi sono immersa in questi canti epici. E’ una poesia profonda, magica, da meditare in mormorii sottovoce. Raccoglie tutto: l’origine della vita, la morte, la tristezza, la solitudine, la madre, le attese , i rimpianti e i ricordi, la città che ci fa vivere e ci annulla.

  3. Autrice bilingue ispanoamericana-italiana, Francesca Lo Bue fra gli altri suoi libri ha congedato anche “Itinerari-itinerarios” (Società Editrice Dante Alighieri, 2017) dai cui versi emerge la sua idea centrale di poesia, vale a dire “la poesia come esilio”, o, per dirla con Brodskij, come “esilio linguistico”, una raccolta dalla fine tessitura lirico-meditativa.

    Anche a nome di Rocco Salerno, che mi confidava in una recente telefonata la sua totale estraneità verso l’uso del computer, desidero dire grazie a Francesca Lo Bue per il suo acuto commento.

    Gino Rago

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