[…]Dunque Stefano Modeo, con queste poesie così distanti dalla colloquialità malinconica, dalla tenerezza spossata e inquieta di tanto minimalismo fin-desiècle, imposta un’anti-epica, dirotta i languori di una visione ancora elegiaca o lirica, come poteva essere nella sua tradizione (quella, per intenderci, di Bodini o di Carrieri), verso esiti più rigorosi e serrati. Il suo occhio è attento e severo, e con tale attenzione e severità allestisce le sue disarmanti allegorie, riesuma e rivitalizza una «lingua morta» per farne, ancora una volta, lo spazio di una significazione comune, condivisibile. Lo spazio del «noi»: «cominciamo a parlare al futuro / non sappiamo bene cosa dirgli / ma siamo tanti tutti insieme». Un’allegoria è una metafora che si fa racconto. Un travestimento che vuole parlare più apertamente e profondamente di una dissimulazione, di un mostrarsi a nudo. Nel suo spostarsi anche in altre terre – e da lì tornare a osservare la propria – Modeo adotta spesso immagini della navigazione. Non è certo il primo a farlo, e il pensiero torna subito a Dante, a un’Italia allora, come oggi, inesistente, ridotta a una nave senza nocchiero, presa nelle tempeste della Storia. Ricordava un autore come Auden che ogni qualvolta in poesia tornano ad agitarsi gli «irati flutti», vuol dire che la società, non solo il singolo, è scossa da pesanti perturbazioni. Il mare è la scenografia prediletta dalle allegorie sociali, dai grandi quadri; come quello che di testo in testo il giovane poeta della Terra del rimorso ha cercato di mettere insieme, mostrando una padronanza espressiva che lo colloca su ben altro piano di maturità da quello della sua anagrafe. Così la «terra del rimorso» si attesta anche come la terra del disagio, del rifiuto, dell’inadempienza; il disagio che mette a confronto, in una guerra tristissima, i poveri coi poveri; il rifiuto di una tradizione non ancora portata a compimento ma cristallizzata in una vetrina ludica altrettanto triste; l’inadempienza verso quanto si sarebbe potuto fare e ancora è ben lungi dall’essere fatto. Non è solo la Sicilia, come voleva Sciascia, una grande metafora, lo è l’intero Meridione. E, a guardar bene, spostandoci verso altri confini (ciò che i poeti invitano sempre a fare) lo è diventata l’Italia tutta. «Serva Italia», scriveva Dan te, consegnandoci una poesia, e una letteratura, che ci aiuta a non essere servi. È in questa dimensione di affrancamento dalla pesantezza del presente che mi piace pensare a Stefano Modeo.
Roberto Deidier
I.
Ecco: Impegno: nulla
Ora et labora
gli Umiliati hanno
silenzi notevoli
E se fossimo un suono
saremmo per le orecchie di un sordo.
Sullo spartito:
eserciti di semibiscrome
con le cediglie tra le gambe
Quando bambini
eravamo sudati dal gioco
Fuggivamo furbi
ogni coprifuoco della realtà
Guardavamo le botte degli altri
e nascondevamo
poesia nella paura
Madre, padre
vostro figlio è
un eterno inetto
Lo sa bene l’adesso che
aspetto e non viene.
Rassegnati gufi, vittime
gli Umiliati sono
portatori di medioevo e scaramanzia.
Analfabeti di futuro
in questa epoca delle passioni tristi.
Abbandoniamo le gambe per salire
più leggeri di una montagna di rifiuti
verso il cielo, Marte, buchi neri,
flessibili.
Fummo generati epici in questa terra
per veleggiarcene lontano
in un orbitale atomico
d’incertezze.
IX.
nel terrore delle sere le città militarizzate sembrano cespugli
se per di qui te ne vai, passante, non capisci qual è il gioco
eppure la paura ti abbraccia le caviglie e incespicando sbrighi
il tuo passo per il quais.
Batte
botte
questo cuore sorvegliato.
Quest’impero è una vetrina lungo i viali solitari,
ecco solo i militari.
Lampeggiando una sirena sale, un elicottero guarda indifferente
e silenziosamente una sigaretta fuma lenta alle finestre rabbuiate.
Splende un occhio
incandescente
sul tuo viso preoccupato.
Ovunque corrono i pensieri, ovunque le notizie in tempo reale
avanzi il passo verso casa, tutto il mondo è virtuale, la paura sale.
XXIII.
Siamo tanti tutti insieme
colorati con le gole tese
lo scirocco soffia nelle vene.
Siamo tanti tutti insieme
cominciamo a parlare al futuro
non sappiamo bene cosa dirgli
ma siamo tanti tutti insieme
e al momento ci basta.
Occupiamo qualsiasi cosa:
la storia ci appartiene
vogliamo soprattutto quella
per una volta
che la si lasci
scrivere ai vinti.
Siamo tanti tutti insieme
ce lo diciamo ancora
ci risuona nelle orecchie.
Poi,
dopo essere diventati giudici
– ad elogiare poi si imita –
ci siamo condannati tutti
al nostro essere così speciali.
Stefano Modeo
Stefano Modeo (Taranto, 1990) vive e lavora come insegnante a Ferrara. La terra del rimorso è la sua opera prima.
Bravissimi! Ad maiora semper