Gabriele D’Annunzio, “Sogno di un mattino di primavera” , a cura di Roberto Taioli

9 - D'Annunzio e Duse - Copia

Gabriele D’Annunzio ed Eleonora Duse

Il poema dannunziano, che in realtà è un atto unico teatrale, come peraltro l’autore dichiara, fu scritto nel 1897, dedicato ad Eleonora Duse e rappresentato l’anno dopo a Parigi, con la Duse come protagonista. Nel progetto iniziale di Gabriele D’Annunzio, l’opera avrebbe avrebbe dovuto essere la prima di una tetralogia dal titolo “Sogni e stagioni”, cui seguì Sogno d’un tramonto d’autunno nel 1901, mentre non videro la luce Sogno d’un meriggio d’estate e Sogno d’un mattino d’inverno. Troviamo nel testo teatrale tutti gli elementi della poetica dannunziana, tra cui l’importante tema della varietas delle stagioni, fulcro di un ciclo cosmico di nascita e morte, cui il poeta fu legatissimo. La trama apparentemente intricata, è molto semplice, priva di grandi accadimenti e scandita dalla presenza di pochi personaggi, ma potente per il pathos innescato che rinvia alla tragedia greca classica. In una atmosfera permeata da angoscia, sogno e follia, si dipana la vicenda di Isabella (la Demente) che dopo aver tenuto per tutta una notte accanto a sé il corpo insanguinato del marito ucciso dall’amante, in una mattina di primavera (che fa da contrasto all’orrore della notte) è raggiunta da un nuovo sogno che annuncia felicità, pace, armonia tra le piante del giardino, nell’estasi rinascente della natura. In questa essa si trasfigura e si trasforma, come assumendo ed espiando su di sé il male che l’aveva raggiunta. Nel momento più alto della sua follia, Isabella la Demente, cogliendo un ramo lo trasforma in ghirlanda, simbolo di eterna rinascita e dell’unione di vita e morte. Il momento catartico della purificazione, lascito esemplare della tragedia greca, è percepito nell’acuto panismo e estetismo della natura e dell’ambiente circostante, come leggiamo nelle righe di introduzione al dramma che ne fotografano la scena:

Un loggiato vasto, in un’antica villa toscana, detta l’Armuranda, aperto su colonne di pietra, chiaro e tranquillo, simile all’ala d’un chiostro. Su ciascuna delle due parte laterali è una porta dall’architrave scolpito, tra due statue alzate su piedistalli. Per entrare agli archi svelti, che solo orna il nido della rondine, appare un giardino intercluso da siepi di cipresso e di bossolo donde si levano a distanza alaterni tagliati a foggia di urne profonde. Nel mezzo è un pozzo di pietra sul cui margine si torce una vite di ferro co’ suoi pampini e i suoi grappoli rugginosi, congegnata a reggere le secchie. A destra e a manca, poggiate ai muri di cinta, si prolungano le tettoie ove prosperano al riparo gli agrumi nei grandi vasi d’argilla rossastra disposti in più ordine su i banchi. A traverso un cancello, in fondo, si scorge il bosco selvaggio ove gioca il sole mattutino: visione di forze e di gioie senza limiti. Nel portico, intorno ai plinti delle colonne, sono adunati innumerevoli vasi di mughetti in fiore, infinitamente dolci nella loro delicatezza infantile di contro alle tenaci siepi secolari. E tutte le grazie della primavera novella si diffondono su l’aspetto austero e triste che creano le forme simmetriche della cupa verdura perenne; cosicché il giardino suscita l’immagine umana d’un volto pensieroso di sotto a una fresca ghirlanda”.

L’estetismo dominante si cala in una cura ossessiva per il particolare, trasformando il tutto in organismo vivente e palpitante. E in altri passi:

LA DEMENTE (volgendo su sé stessa lo sguardo rasserenato)
Vi piace la mia veste? Io ho detto a Beatrice; ‘ Fammi una veste verde, d’un tenero colore, perché, quando vado pel bosco, le piccole foglie novelle non abbiano paura di me’ E Beatrice me l’ha data e stamani la porto per la prima volta. Vi piace? Ora potrò distendermi sotto gli alberi che mettono la fronda: essi non s’accorgeranno di me. Io sarò come l’erba umile ai loro piedi; li illuderò col mio silenzio. E scoprirò forse qualche loro segreto, se essi crederanno d’esser soli; sorprenderò qualche paroletta … “.
“LA DEMENTE
Io potrò dunque con gli alberi, con i cespugli, con l’erba essere una cosa sola! Beatrice mi passerà accanto, sfiorerà col suo piede, senza riconoscermi. La vedrò al fianco dello sposo che il mio sogno le ha dato, tutta bella d’amore, tutta raggiante di speranze, dopo tante lacrime. Ed egli le dirà …Io le so, io le so le parole che rivelano la vita a chi langue e a chi muore. Tutto il mondo vaniva come una nuvola in un silenzio delle sue labbra e rinasceva per una parola trasfigurato in un miracolo di gioia …Ah!

Roberto Taioli

 

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