La raccolta di poesie di Daniela Monreale, Fragilità del silenzio, induce il lettore a un sussurrato, intimo, colloquio. Il silenzio, in grave presenza, domina qui la scena, in ogni verso, in ogni lirica. E, d’altronde, il ritmo sembra quasi generato da un sommesso, inesauribile, battere di tamburi. Si potrebbe accompagnare la recitazione di Fragilità del silenzio con le note di Vexations di Erik Satie: note seducenti, ripetute, ossessive. Note “miti”, come la mite, suicida, co-protagonista dell’omonimo racconto di Dostoevskij: “Tutto uguale e stantio nel mio quotidiano/ che ti verso a gocce la sera per una cantilena/ di malumori, dilungandomi nell’invettiva/ e poi improvvisamente muta, evasiva,/ rannicchiata nella mia stanza d’animale/ che non può attaccare.//”. Così Monreale tratteggia certi eventi domestici: li dipinge ora di malinconia, ora di ansiosa noia, ora di tragiche tensioni. Quando un legame affettivo – quale esso sia – si sfalda, sgretola le quotidiane sicurezze e soffoca l’anelito di vita, l’io si raggomitola, e va cercando, nelle profondità dell’anima, un nuovo equilibrio. È un percorso faticoso, un lungo, interiore, lavoro di cesello, una sofferta indagine delle motivazioni autentiche del proprio esistere: “e questo arcano che mi accompagna/ è il parassita dolce, la linfa che mi dà forma,/ è il seme dell’hortus conclusus/ che coltivo solitaria, nella declinazione/ del sole, sul fronte amico.//”.
Monreale, tuttavia, non resta chiusa nelle ambasce dei suoi tormenti. Osserva, con acuta attenzione, il mondo esterno, farraginoso, frenetico, assurdo. Ed ecco, la sua arte si fa dettato civile, pacato eppure fermo, ed eleva alta la protesta: “La finta vita procede e io non la capisco,/ tra retorica, gabbie e indifferenza,/ (…)/ e intanto l’aria infernale di luglio/ svena la superstite umanità,/ io sogno le montagne sogno il silenzio,/ la solidale fuga, mentre il mondo/ mi scorre accanto, e tu ascolti/ la mia indignata corsa a ritroso/ (…)/ (…) vorrei una vita non posticcia,/ colma di fresca luce.//”. Questa nostra epoca si è irrigidita, ormai, in una persistente e acritica informatizzazione dei rapporti umani, in un modus vivendi considerato innovativo, ma che in realtà si rivela sempre più inconsistente, in un becero iperconsumismo, nell’adulazione di una forma che non contiene in sé alcuna sostanza, nel dialogo che si riveste di ciancie. Monreale registra tutto ciò, creando, in antitesi, l’immagine di un delicato dagherrotipo: “(…) questa sera/ mi dà pace solo lo sguardo antico/ e vero e nobile di una signora/ anziana d’altri tempi, fertile/ di cortesie, di attenzioni,/ una sconosciuta che l’istante/ ha donato, amico e insospettato,/ per sapere che qualcuno ancora c’è/ che sa cogliere il nodo, la magia,/ il semplice accordo di due/ occhiate di largo e quieto/ parlare, come fosse un secolo/ che ci si parla, e non c’è/ fraintendimento, non c’è/ difesa, se non emozione,/ e le naturali parole.//”.
Monreale, in Fragilità del silenzio, propone, inoltre, inquiete, mistiche riflessioni. Rispetta i sublimi insegnamenti di madre-natura: “impari più/ da un filo d’erba/ o dall’ape/ che dalla statica/ dei grattaceli.//”. Riconosce che l’uomo è “(…) cenere spenta,/ disattenzione molle.//”, persa “(…) nella steppa delle attese,/”, stretta “(…) al confine/ tra lutto e follia,/”. Si nasconde, poi, nell’angolo remoto della propria solitudine, lì dove traballa ogni certezza, lì dove, però, una tenue luce appare, e indica la tortuosa via: “l’anima (…) chiede e risponde/ nel silenzio severo/ che è abisso cima/ e scoperta/ resto muta e meravigliata/ sono i demoni a parlare/ le onde della vita oltre la diga/ al posto mio/ come un assolo in pace//”. Osa, quindi, fantasticarsi a colloquio con Dio, Padre magnanimo, Figlio oblativo, Spirito latore di sapienziale grazia – infine, fidato, gioviale amico: “me lo immagino/ seduto su una panchina/ Dio giovane e calvo/ con la camicia a quadretti/ ad aspettarmi per una chiacchiera/ per una bevuta di vino/ o un sigarino anisette/ con lui parlerei di romanzi/ poesie e gatti randagi/ eviterei teodicea/ e curiosità trinitarie/ mi farei raccontare/ l’equivoco dell’onnipotenza/ la sua invece segreta sete/ di compagnia di risate da bar/ il suo bisogno d’amore/ la solitudine di creatore/ la necessità/ di un sonno ristoratore//”. Torna, da ultimo, Monreale, a sperare – non sceglie, come la mite, l’autodistruzione – ha il cuore colmo di lacrime e di caparbia volontà: “io voglio lo scatto d’orgoglio/ la disubbidienza la rivolta/ voglio vivere un minuto/ che esploda come un vento/ d’uragano.//”. E allora, solo allora, al dolore concede un senso, all’amore restituisce la fiducia: “ogni pagina quotidiana/ si tingerà di sacro/ nel cono di luce/ appena necessaria.//”.
Adele Desideri
Giorni feriti,
inanellati come catene
a battere il chiodo sul terzo occhio,
quello che intuisce stelle, quello che sa
nuovamente cantare,
sa indovinare le strade,
sa nominare cose come fossero lievi
e senza finte sonorità, felici solo
del fragile silenzio che le innerva.
Ma io sono nella steppa delle attese,
a rimestare questa malinconica voce
nel tempo rapace,
come vortice indomabile
e a ritroso nella memoria,
quando le pozzanghere del reale
scioglievano il torbido nel chiaro avere,
e da allora non ho mai dimenticato la rosa,
la saggia riflessione della viola, no
non ho lasciato all’avversario
la gioia non altrimenti perfetta
del profumo d’erba quando si mischia
alla rugiada del nasturzio, e nel cingolo
del sole promette, promette ancora.
*
Davvero puoi anche non esistere
se sei coscienza ed emozioni,
se stipate le tue ragioni
premono nel segreto,
intanto piovono frasi fatte
e come stai e che si dice,
e tu sei solo, guardi l’indifferenza
e l’assenza e non si accorgono non sanno
eppure vorresti il legame, vorresti
che il tuo dolore fosse
già stato il dolore
di qualcuno.
Daniela Monreale
Il mio Testamento poetico per Daniela Monreale
Gino Rago – Ti lascio le parole senza suono.
“Ti lascio le schegge.
Ti lascio il sole.
Ti lascio la grandine, la pioggia, il vento.
Ti lascio i cascami radioattivi.
La ricchezza del mondo in poche mani.
Le macromolecole dei veleni.
Ti lascio la plastica. Le segature. Le vernici
e il grafene.
Le parole senza suono. Le vie del dolore,
le vie della mano sinistra,
il catrame.
Le maschere. L’alluminio a lamine sottili.
Le segature. I trucioli. Le colle.
Ti lascio.
Ti lascio le stelle che brilleranno.
Ti lascio l’uomo nella creta.
Ti lascio il fango.”
Gino Rago
Grazie ad Adele e a Gino.