Corrado Calabrò: la vita nuda e l’illimite, di Giuseppe Rando

castro_lillimitedeletre

Edson Castro, L’illimité de l’être

Appare sempre più evidente il carattere d’indipendenza, se non d’indifferenza, della poesia di Corrado Calabrò rispetto alle varie tendenze della ricerca poetica di questi ultimi decenni; si può casomai riconoscere, nella sua ampia produzione, una certa continuità con la nostra migliore lirica novecentesca, interpretata, però, in termini molto personali, che non lasciano intravedere la lezione dei maestri.1

È, tuttavia, inequivoca la totale, radicale e forsanche antologica distanza del poeta reggino non tanto dalla generazione postermetica (da cui probabilmente egli mutua il canto lungo, il poemetto, la poesia narrativa) e dalla linea lombarda (cui è, in qualche modo, attiguo) ma soprattutto dai novissimi della neoavanguardia. Tale distanza, che sottende un rifiuto, è intuibile in Triangolazione: «Privo di senso e saputo, / come le nonpoesie di Sanguineti, / è un calendario scaduto»;2 ma se ne ha esplicita attestazione nel lucido saggio, Il poeta alla griglia.3

Si direbbe che, dopo gli sciali della «parola» e sulla «parola e dopo i miraggi dell’autoreferenzialità- intransitività del segno poetico che hanno attratto non pochi poeti del secondo Novecento, spingendoli fino alle soglie dell’afasia, Calabrò recuperi, nei suoi versi, la duplice, fondamentale dimensione espressivo-comunicativa (non solo espressiva) della poesia e ridia nel contempo libero accesso nell’orto poetico alla realtà concreta, magmatica, irriducibile dei fatti della vita e del mondo, lasciando che la pregnanza delle cose, la carnalità dei sentimenti (l’amore in primis ), il filo dei pensieri anche più sottili, nonché la complessità irriducibile degli eventi, penetrino nel tessuto profondo delle sue liriche.

Ed è – occorre riconoscerlo – sotto la pressione della realtà rappresentata, non per un vezzo formale o “sperimentale”, che si producono talora nella struttura metrica dei testi del Reggino certi movimenti narrativi che portano il testo a espandersi e a prolungarsi nella forma del poemetto o a contrarsi, per converso, nelle fulminee torsioni gnomiche e/o ironiche dell’epigramma («Noi di Reggio a quelli di Messina / – che gli stiamo di fronte – / solo una cosa invidiamo: //la visuale») 4. Pur facendo bella mostra di sé, ovviamente, nelle raccolte del poeta calabrese, componimenti di dimensione abituale, “intermedia”.

La scelta del canto lungo, poematico, selettivamente presente nell’ultima, limpida raccolta,5 asseconda, in primis, la forte necessità meditativa del poeta, che non si stanca di indagare sulla sua vita e sulla natura delle cose (pullulano gli interrogativi nella poesia di Calabrò), facendo del testo quasi il naturale ricettore della sua volontà di sapere e di dialogare collettore: «Chi sa perché ho fatto questo sogno: / in mezzo al campo, nello stadio immenso / ci vedo poco, malgrado l’erba / sia illuminata da un’enorme luna. / Marcato stretto dalla mia stessa ombra / e preso dal panico non riesco / nemmeno a controllare il pallone. / E invece sto giocando a tutto gas / come quando avevo sedici anni»6. L’incanto dell’onda lunga (quasi ariostesca) del racconto (del sogno) in versi «francherebbe», ad ogni modo, «la spesa» dell’acquisto, per dirla con Contini.

È chiaramente leopardiana, peraltro, l’opzione netta di Corrado Calabrò per una poesia che si apra al pensiero, alla razionalità, alla filosofia insomma (e Don Benedetto si rivolti pure nella tomba), sulla scorta della Ginestra. Ma va pure detto che, muovendo sulla linea maestra segnata dal prototipo ottocentesco, il Reggino finisce col fare, heideggerianamente, della poesia un altro strumento conoscitivo del sé, del mondo, dell’essere:7 «Un sobbalzo nel tempo dello spazio / che allarghi fantasticamente / oltre sé l’orizzonte degli eventi, / può capitare, in milioni d’anni. / O viaggiare a ritroso nel tempo / fino a giungere a un passo dalla soglia / oltre la quale forse attende Dio:/ o l’AntiDio d’un universo / che sta incoccando a occhi chiusi la freccia / verso un altro spazio e un altro tempo / dove la consecutio non ha senso …».8

In perfetta conformità alle urgenze meditati ve e comunicative del poeta, il linguaggio di Calabrò è, perciò, di norma, quello della conversazione usuale, standard o neo-standard che dir si voglia: non è, insomma, l’antilingua burocratica e o libresca, detestata da Calvino (e non solo): «Ho letto casualmente la notizia / che più di trentamila pinguini, / seguendo la corrente delle Falkland, / sono approdati per nidificare / sulle coste di Rio de Janeiro. / Pinguini di Magellano ai Tropici, / il Brasile nuova Patagonia! / Son loro che hanno smarrito la rotta / o noi che abbiamo perso la bussola? / Come sarebbe a dire “Che ci frega?” / Noi siamo le nostre abitudini; / se si stravolgono quelle, chi siamo?».9 Quanto dire che Calabrò ha mandato in soffitta o relegato in cantina la lingua poetica dei «poetanti».10 E, con essa, i soliti temi “poetici” e la metrica tradizionale (non ovviamente la metrica tout court), di cui pare apprezzare, in ispecie, la misura lunga dell’endecasillabo e l’uso ricorrente dell’enjambement che accentua, com’è noto, la portata discorsiva, prosastica dei versi. Non è, peraltro, insolito il ricorso, nei testi, alla forma dialogica propria del codice teatrale e/o del codice narrativo: «Ragazzo mio, ti vedo alquanto male / mi disse sogghignando. / (Ragazzo a me che ho più di quarant’anni!)».11

E ciò, senza mai deflettere, tuttavia, dal canone primigenio ed eterno della musicalità intrinseca del dire in versi. È, difatti, immediatamente percepibile, la perfetta, esplicita, ma personalissima caratura musicale dei componimenti poetici di Calabrò, insieme con il supporto di una poetica che si avverte, d’acchito, assolutamente nuova: «Quando andavo ragazzo in bicicletta / il vento mi pigliava d’infilata / respingendomi indietro / nei lunghi rettifili della Jonica. / Ma quando soffiava lo scirocco / all’uscita da scuola correvamo / a fare tutti nudi a novembre / nel mare caldo l’ultimo bagno»;12

«Di quelle rose restano le spine / ed un sapore violamaro in bocca»:13 musica allo stato puro, invero.

E non c’è dubbio, altresì, che la poesia del Reggino, pur essendo, quant’altre mai, pregna di realtà, si connoti, di primo acchito, per il deciso, marcato investimento simbolico-fantastico esercitato sulla percezione­ rappresentazione del reale.

Epperò viene fatto, appunto, di chiedersi di che cosa sia simbolo il reale simbolizzato nella poesia di Corrado Calabrò.

***

In principio erat … mare. È il mare- con la sua forte caratura mediterranea, calabro-sicula, estiva (o al massimo autunnale) – che incanta dapprima il lettore dei componimenti poetici del Reggino, il quale, da uomo cresciuto nel mare, presso il mare, conosce e trasmette, per via diretta, senza remora alcuna, l’avvolgente sensazione di piacere quasi erotico, sessuale che sa dare il mare («A Praia mi veniva incontro il mare / e io gli entravo in grembo a perdifiato / spogliandomi in corsa sulla spiaggia. / Poi riprendevo la costiera calabra / per ritornare dalla mamma a Reggio»).14 E dispiace, invero, che non siano moltissimi i poeti di mare in Italia (paradossalmente, una delle nazioni più marinare del mondo per lunghezza di coste bagnate dal mare): Corrado Calabrò colma, senza meno, più d’una lacuna.

Ora, il mare di questo poeta è mutevole, cangiante, ma sempre, incantevolmente, mare. In altri termini, per Calabrò (e per tutti i calabro-siculi della costa) il mare è più che mare; non è solo mare. Mare come un essere umano che s’asciuga su una spiaggia al sole («In un lieve velo l’onda si vetrifica / […] / e si stende ad asciugare su spiaggette / che le fanno da filtro»).15 Mare come nutrimento e come letto per dormirci dentro («Sarebbe bello addormentarsi in mare / con l’acqua in gola che disseta e nutre / e, volteggiando, planare sul fondo / dove s’addensa l’ombra degli assenti»).16 Mare come un cane («Come una foca l’onda mi depone / su una roccia rosata, / tiepida come un corpo a sangue caldo. / Aderisco alla pietra levigata, / modellata aricalco; le mie mammelle premono i tuoi seni / palpita il mio corpo che s’asciuga / come un polpo su una piastra. / Un’onda mi viene a cercare / per lambirmi le gambe come un cane»).17

E non si può non considerare come in queste similitudini (e in altre con­ simili) risaltino l’assoluta mancanza di retorica e il rifiuto di ogni intonazione epica, nonché la predilezione per i toni bassi dell’understatement: nessuna esaltazione panica, trionfalistica, insomma.

Piuttosto, si evidenzia, nella poesia di Calabrò, sullo stesso asse stilistico, un’altra facies, meno gioiosa, del mare: quella dell’assenza, del mare come luogo del piacere provato, perduto e viepiù agognato, ma – si badi – senza particolari ambasce psicologiche: come se, per il poeta, l’assenza del mare, col trascorrere del tempo, fosse un fatto naturale, inevitabile («Ho comprato un potente cannocchiale / con un ingrandimento trenta volte. / Non per guardare Roma, io cerco il mare; / è quello l’orizzonte che mi manca»;18 «Se non sognassi non avrei un passato // Non appartiene al navigante il mare / che ha solcato //Non trattiene chi nuota / altro che il sogno / del mare che ha abbracciato»). 19

Da qui – dalla mutevolezza- perennità, dalla presenza-assenza del mare e dalla sua incessante attrattiva – meglio si coglie il legame profondo, nella poesia di Calabrò, tra il mare e l’amore:20 «L’onda avanza sullo scoglio / e l’abbruna / come l’ombra di nuvola che passa. / Così un amore, a volte, attraversa la vita e se ne adombra».21 Ma l’immagine del mare accogliente come il «grembo» di una donna è limpidamente tracciata, à jamais, nei versi di Vento a Myconos sopracitati.

Nella poesia del Reggino, in verità, l’amore non è mai disgiunto dall’eros, da una spiccata carica di carnale erotismo: «Cosa c’è di sbagliato cosa manca, / perché vuoi interrogarmi negli occhi / dopo i nostri sfrenati corpo a corpo?»;22 «Il primo pensiero a occhi aperti / l’ultimo pensiero ad occhi chiusi / e sempre questo tremito nel cuore»;23 «Come cerca l’acqua la verga / del rabdomante / così il mio turgore adolescente / sente a distanza il bisogno di te»24.

Amore sempre nuovo, inedito, imprevedibile, incontrollabile, mutevole (come il mare), epperò sempre, perennemente, amore.

Amore come passione, attrazione sensuale: financo amore dell’amore, amore di sé, del proprio io, nei modi dell’estetica dell’amore, tracciata da Kirkegaard nel Diario del seduttore: «No, no, mia cara, donna dell’altr’anno; / c’è solo questo, che hai come esaurito. / Ecco, la mia capacità d’amare / forse per una, cinque, sette estati; / al più, ancòra, per tre volte sette …»;25

«S’inoltrano in mare gli amanti / come Alice entrava nello specchio; / cercano dimensione al loro amore / – di sé perdutamente innamorato – / che siano almeno a misura d’oceano».26

Ma anche amore-sentimento o che vorrebbe farsi sentimento e propiziare la crescita del sé, il superamento dell’io, il contatto-compenetrazione con l’altro da sé: «la famiglia: io, tu; tu, forse io, / la casa col giardino e la terrazza …»,27 (come avviene, più compiutamente nel romanzo Ricorda di dimenticarla).28 Nessuna autoesaltazione, ad ogni modo, nessuno squillo di trombe; nessuna forma di mascolinismo prevaricatore o di superomismo. L’ironia, piuttosto («per tre volte sette»; «io, tu; tu, forse io»), che propizia l’understatement del lessico e dello stile.

Donde, anche il tema dell’amore come assenza, ricerca infinita dell’altro e dell’altrove per completarsi, per ridiventare magari l’Uno primigenio, non senza la profonda avvertenza dei limiti invalicabili della condizione umana: «Se esiste una ragione perch’io t’ami, / ci sei nella misura in cui mi manchi»;29

«Come la notte al giorno / come il giorno alla notte mi manchi»;30 «Tutta l’acqua del mare non placa / la sete a chi non la può bere // Lungo è il bisogno d’amore / in chi t’ha amata»31 / «Corro ad aprire le imposte / e cerco il cielo / dietro la coltre di nubi / che gonfia le mani e le ginocchia / e ricaccia indietro il mattino. // Svegliarsi e non trovarti»;32 «Dio mio, l’alba! / Se aprendo gli occhi, adesso, / mancasse la tua mano / a trattenere il lembo della notte …».33 Tra tanto metamorfismo, risalta pure un’inedita similitudine, legger­mente ironica e deliziosamente antiretorica, tra l’amore e la poesia: ambedue aspirano alla grandezza («a misura d’oceano»), ancorché gli esiti non sempre eguaglino le aspettative: «Ma prima o dopo tornano alla riva / portando, a dondolo, un secchiello d’acqua. / Un po’ come l’amore è la poesia».34

Talché si direbbe che l’amore è, ma contemporaneamente non è la stessa cosa, nella lirica di Calabrò. Il che sarebbe, certamente, contraddittorio (secondo la logica aristotelica), ma non secondo la bi-logica matteblanchiana egregiamente illustrata da Di Lieto.35

Né questa apparente contraddizione riguarda solo l’amore: parrebbe connotare, per il poeta reggino, altre forme dell’esistenza, che contemporaneamente sono e non sono quello che sembrano: «Lunga notte d’inizio d’estate / tiepida luna come sole albino: / è roseo quasi quanto l’alba / questo chiarore incombente / che tiene il vento in surplace. / La vela penzola disanimata / ma con qualche nervosa fluttuazione. / Sai come si dice in greco vento? / Άνεμος. E anima, soffio, incostanza? / Άνεμος, si dice άνεμος, lo stesso».

Anche da questo veloce spoglio si evince, però, o si dovrebbe, che mare e amore sono, a pieno titolo, limpide metafore dell’esistenza, cioè della vita nuda, senz’altre stratificazioni ideologiche, etiche, sentimentali, religiose, polemiche (del tutto assenti, in effetti, nell’opera del Reggino).

È, infatti, nell’ottica di questa metamorfica, lucida (ma non razionalistica), visione del mondo che s’inserivano le rare incursioni del poeta calabrese nella contemporaneità.

Si pensi a // ponte sullo Stretto, dove il progetto di «Protendere un ponte che trattenga / chi vuole allontanarsi / e faccia più stretto lo Stretto» viene svuotato di senso, senza fanfare ideologiche, dal confronto con la natura che vuole le due città, Reggio e Messina, «affratellate da sempre da un pontus» e dall’«incubo», sempre imminente del terremoto del 28 dicembre.36

Lo stesso sguardo partecipe, ma disincantato, mostra il poeta fenomeno­ logo, nel breve componimento poetico Dei caduti a Nassiria, sottraendosi ai soprassalti della retorica e alle mistificazioni consolatorie di stampo nazionalistico: «e il ricordo- ad antenna ammainata- è una duna di sabbia nel vento»37.

Valga, però, il pensiero (forse apodittico) che capita di formulare, ogni qualvolta si legge Calabrò: non solo tout se tient nel suo mondo poetico, ma tutto finisce con l’assomigliarsi (sono numerosissime le similitudini nella sua poesia): le differenze tra mondo umano, animale, vegetale (persino tra terra e cielo) si riducono fino ad apparire (come sono) parti di un tutto, accomunate da un’identica forza vitale, che spinge il mondo, e l’uomo con esso, verso suoi imperscrutabili, non idealistici né provvidenziali obiettivi.

Si veda come, in Roaming, il terremoto delle Maldive del 26 dicembre 2004, uno dei disastri naturali più catastrofici dell’età moderna, diventi metafora del destino di morte dell’uomo, sottoposto, ab aeterno, ai micidiali scuotimenti o ai movimenti inconsulti del pianeta sul suo asse: quel tragico evento, al pari del terremoto del 1908 che fece ottantamila morti a Reggio e a Messina, e di mille altri sconvolgimenti tellurici, antichi e moderni – nel lungo poemetto, presente e passato, sogno e realtà, universale e particolare, attraverso i «salti» e le «associazioni di idee» (di cui dice acutamente Giuseppe Manitta)38, /coincidono- non fu previsto né scongiurato dagli astronomi (né tampoco dagli pseudoscienziati e dagli analisti finanziari): solo i galli, i gatti, i polli, che nessuno tiene in conto, percepiscono prima, inutilmente, le catastrofi naturali.

E si pensa all’eruzione “pliniana” del Vesuvio (rievocata pure in Roaming), da cui prende le mosse Leopardi nella Ginestra, per denunciare l’ottimismo degli idealisti cattolici del suo tempo ed evidenziare, ancora una volta, la fragilità, la debolezza antologica dell’uomo di fronte alla potenza de­ vastatrice della Natura: la stessa disincantata, materialistica, nichilistica posizione mostra di avere Calabrò, in Roaming, dove non c’è nemmeno la prospettiva di salvezza, di cambiamento, affidata dal Recanatese alla catena solidale degli uomini contro il comune nemico rappresentato appunto dalla Natura.

Attraverso tali percorsi tematici e stilistici, si perviene però a una conclusione – una prima, parziale conclusione – che potrebbe essere la risposta alla domanda iniziale: di che cosa è simbolo il reale simbolizzato nella poesia del Reggino?

Si direbbe che l’amore dell’esistenza, della vita naturale, della natura nelle sue mille forme, anche meno gratificanti, e nelle sue contraddizioni reali o apparenti (con la connessa «gioia» del poeta che lo esprime) costituisca – insieme con il desiderio di spingersi oltre i confini convenzionali dei sapèrì e delle religioni – il nucleo genetico dell’opera di Corrado Calabrò.

E parrebbe che esso rimandi, da un lato, alla concezione del mondo di Niertzsche e soprattutto di Heidegger (il cui «nichilismo autentico» dell’essere s’impone, con tutte le cautele del caso, in attesa di più approfondite verifiche, come uno degli assi portanti della Weltanschauung risolutamente anti­ metafisica di Calabrò)39 e, dall’altro, alle scoperte scientifiche di Einstein, di

Hawking, della fisica quantistica e dell’astrofisica, che hanno definitivamente dimostrato, tra l’altro, la relatività del tempo (e dei nostri concetti di passato, presente, futuro): si tratta- quasi superfluo notarlo- di filosofi e scienziati, che Calabrò frequenta abitualmente.40

Quanto dire che il Reggino, il quale non è filosofo né astrofisico di professione, sembra aver trovato, empiricamente, mentre fa poesia, una possibile risoluzione fisico-filosofica a molte inquietudini della modernità.

In altri termini, l’essere antimetafisico, «sfondato» (liberato cioè da ogni fondamento assolutistico ottocentesco), che genera gli enti (l’infinito fluire, divenire degli enti), parrebbe preservare da possibili slittamenti nell’assoluto anche la poesia di Calabrò, che mentre gioisce heideggerianamente della pòiesis, mira all’illimite,41 dove le opposizioni della logica aristotelica (notte­giorno; estate-inverno; nord-sud;) diventano differenze; epifenomeni dell’unico essere che è la natura cangiante, non configurabile in termini di assoluto né riconducibile a una qualche unità etica o razionale o estetica.

E contemporaneamente il connubio di finito-infinito, rapportabile con l’ápeiron, anassimandreo, o di pensiero-emozione della bi-logica sessuale di matrice matteblanchiana, nonché le opposizioni di spazio-tempo, presente­ passato, presente-futuro, su cui si esercita, spesso, con ironia o sarcasmo, il poeta, si spiegano (e si annullano) alla luce della più recente ricerca scientifica: «Sai che pensavo? / Se m’avvicino a te / più di quanto tu non t’allontani / in definitiva è lo stesso / che se un’attrazione latente / ci attirasse reciprocamente / o se una stella al suo momento estremo / ci risucchiasse nella sua scomparsa / (è così cara, non è una mia idea; / lo dice Einstein – o Stephen Hawking- credo, / non Zenone d’Elea».42

***

Certo, è molto evidente la Weltanschauung antimetafisica e antiideologica sottesa alla poesia di Calabrò. Il quale- si badi- non è poeta a prescindere dalla filosofia e dalla scienza (come sosterrebbe Croce): al contrario, è proprio quella sua Weltanschauung antimetafisica che gli consente il recupero e il godimento della realtà nelle sue forme più reali (anche amare o contraddittorie) propiziando, insieme con l’ansia di ricerca e altre probabili “spinte” che ignoriamo, il «miracolo» – per dirla con Ingarden- della poesia.

Giuseppe Rando (professore ordinario f. r. di Letteratura Italiana presso l’Università di Messina, dove è stato anche direttore del Dipartimento di Studi Linguistico-Letterari e della Documentazione Storica e Geografica, insegna Critica Letteraria e Letterature Comparate presso la Scuola per Traduttori e Interpreti di Reggio Calabria).

(Articolo apparso su Cultura e prospettive n. 34, Gennaio – Marzo 2017)

1 Cfr. C. BO, Prefazione a C. CALABRÒ, Rosso d’Alicudi, Mondadori, Milano 1992.

2 Triangolazione in La stella promessa, ivi, 2009, 86-87.

3 C. CALABRÒ; Il poeta alla griglia, «L’Illuminista», dicembre 2003, 255-299.

4 Prospettiva, in La stella promessa, cit., 58.

5 C. CALABRÒ, Mare di luna, con una nota di G. Manitta, Il Convivio Editore, Castiglione di Sicilia 2016.

6 Roaming, ivi, p. 37.

7 Cfr. M. HEIDEGGER, La poesia di Holderlin, Adelfi, Milano 1988.

8 Roaming, in Mare di luna, cit., 55.

9 lvi, 45.

10 Così il poeta definisce i «letterati a una dimensione che si riconoscono solo in un certo tipo di letteratura e che coltivano un’impoverita rappresentazione della realtà […]», in Il poeta alla griglia, cit., riportato in C. DI LIETO, La donna e il mare. Gli archetipi nella scrittura di Corrado Calabrò, Vallardi Editore, Milano 2016, 185.

11 L ‘esorcismo dell’Arcilussurgiu, in Mare di luna, cit., 16.

12 Accorre improvvisa, in La stella promessa, cit., 37-38.

13 Il tempo delle rose, ivi, 50.

14 Il vento di Myconos, in Mare di luna, cit., 34.

15 Ibidem.

16 Il vento di Myconos, ivi, 35.

17 Marelungo, ivi, 11.

18 Praticamente non serve il cannocchiale, in La stella promessa, cit., 91-92.

19 Mi manca il mare, ivi, 59.

20 Si rinvia al bel saggio di C. DI LIETO, La donna e il mare …, 9-131

21 Marelungo, in Mare di luna, cit., Il.

22 Elisione, ivi, 51.

23 Eyes wide shut, in La stella promessa, cit., 46.

24 Marelungo, in Mare di luna, cit., 12.

25 Marelungo, ivi, 13.

26 Il vento di Myconos, ivi, 34.

27 Coppe carnose di camelie, in La stella promessa, cit., 53.

28 C. CALABRÒ, Ricorda di dimenticarla, Newton Compton, Roma 1999, ripubblicato da Rubbettino – Ilisso, Soveria Mannelli (CS) 2006, con prefazione di Carlo Alberto Madrignani.

29 Marelungo, ivi, 11.

30 Duale, in La stella promessa, cit., 71.

31 Retrogusto, ivi, 55.

32 Triangolazione, ivi, 86.

33 Alba di notte, ivi, 42.

34 Il vento di Myconos, in Mare di luna, cit., 34.

35 Cfr. La donna e il mare …, 9-45.

36 Il ponte sullo Stretto, in La stella promessa, 59-60.

37 Dei caduti a Nassiriya, ivi, 67.

38 Cfr. G. MANITTA, Luoghi e tempi nei poemetti di Calabrò. Con qualche considerazione intertestuale, in C. CALABRÒ, Mare di luna, cit., 61-73.

39 Cfr. M. HEIDEGGER, Essere e tempo, a cura di Franco Volpi, Longanesi, Milano 2014.

40 Lo si evince agevolmente dai numerosi riferimenti espliciti fatti dal poeta nel suo denso saggio di poetica Il poeta e la griglia, cit.: si vedano, in particolare, le note 6, 14, 17, 19, 23, 25, 26, 27, 28, 32, 33, 34, 42, 47, 51, 54,60, 63, 70, 71, 73, 75,77, 78, 79,82,83,86,88,89,92.

41 È il Reggino stesso, nel saggio Il poeta alla griglia, cit., nota 21, che indica nell’illimite «l’imprinting» della sua poesia: «imprinting» da rapportare alla sua nascita «sulla riva del mare».

42 Dilemma, in La stella promessa, 40.

2 commenti
  1. WE ARE FOR HECUBA (Noi siamo qui per Ecuba)

    Paris made love in the bridal room of Troy
    without ever knowing it
    maybe just an idea. A hairful of ashes.
    A cloud of nothing. A cirrus cloud.
    Fleshless.
    We are here for Hecuba. Deprived of all
    for bubblesveevv of air. Senseless
    the slaughter on the Acropolis
    for the ravished Spartan. A runaway bride.
    She landed for Priamus as a simulacrum
    of the beautiful queen of Sparta.
    In his words she was moved by Olympus
    like fire in the blood or shiver in the limbs
    Helen never landed in Troy.
    A city devoured by flames.
    We are here for the wise partner of her King.
    Defeated she goes to the ship.
    The stare fixed on the eye of the Achean.
    As if contrary to the enemy goddesses
    in the disaster she gathers her women slaves

    ©2017 for the American translation by Adeodato Piazza Nicolai of the Poem “Noi siamo qui per Ecuba” by Gino Rago

    Dedico i miei versi del poema di prossima pubblicazione sul “ciclo di Troia”, versi
    magistralmente tradotti in angloamericano da quel Maestro di poesia che è Adeodato Piazza Nicolai, che ringrazio, da questa vetrina preziosa, dal profondo del cuore,
    alla Redazione, al fondatore e coordinatore de La presenza di Erato, Luciano Nota, ai suoi numerosi
    e colti frequentatori e a chiunque sia disposto a donar la propria vita nel nome e nel segno delle Muse, a iniziare da Corrado Calabrò.

    Gino Rago

  2. L’ illustre professore ha fatto tutti gli accertamenti e le indagini che ” il caso ” richiede. Il paziente risulta sano, in ottima salute.

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...