“Flë . Il flë è quel miscuglio di fieno che si rinviene nel fienile in primavera quando il mucchio del foraggio è stato mangiato dalle mucche; esso contiene le semenze di tutte le erbe e i fiori del prato e sovente si adopera per seminare con risparmio. E’ la semenza naturale, grezza, non selezionata, che sigilla in sé tutti i germi, buoni e cattivi, dell’esplosione di vita e tutti i profumi dolci e amari, tutti i colori variegati del prato. La poesia, anch’essa, esce dal germe della vita e deve rientrarvi senza pudori e vivere di questo scarto di piaceri e di dolori ove naviga l’essere e portarlo alla fioritura della sua verità, con la musica della parola e nel suono universale della lingua”.
Flë è l’opera postuma di Marco Gal, una raccolta di trentuno poesie che il poeta di Gressan ha scritto negli ultimi anni della sua vita e che mani pietose hanno preservato dalla dispersione restituendocele nella freschezza e musicalità della lingua francoprovenzale con traduzione in francese ed in italiano compiuta dallo stesso Gal, non come mero supporto e apparato linguistico, ma prodotto anch’esso poetico, finemente curato e cesellato. La raccolta era già pronta per essere pubblicata, ma poi, come sappiamo dalla nota del curatore Giuseppe Zoppelli, per vicende editoriali non vide la luce. Le parole di apertura contengono in un certo senso una dichiarazione di poetica che il poeta ha premesso ai versi. La poesia è il flë, “contiene le semenze di tutte le erbe e i fiori del prato”, è il nucleo vitale e fermentante della vita, ciò che resta e permane quando l’inessenziale è stato scartato o si è consumato”. E’ il residuo fenomenologico, l’essenza, il fondamento dal quale ripartiamo. In tutti questo residuo si nasconde anche nelle forme inconsce e larvate del ricordo, ma nel poeta diventa scaturigine di nuova poesia. Nelle parole di Marco Gal “esce dal germe della vita e deve rientrarvi senza pudori e vivere di questo scarto di piaceri e di dolori” che sono il suo perenne alveo, la sua nutritura. In questa raccolta estrema di Gal il piacere (non in senso edonistico) pare porsi come chiave di lettura, cifra per decodificare l’universo del poeta. Il Plèisi è l’amore, forza attrattiva e coagulante che risveglia dal torpore e dall’inedia lo spettacolo del mondo. La forma estatica della contemplazione e del perdersi nella dimensione del micro assume talora la forma liquida dell’acqua (tema non secondario in Gal), lo scorrere, il fluire, il non fermarsi eppur permanere come amicale compagna dei giorni, evocatrice di reminiscenze e consolatrice materna:
La vouéce de l’éve litaniye sa meseucca / deun le net, djeusto désot me fenetre./ L’est todzor l’anchiéna mélodie d’ eunfance / de tsaque euforie, quan eun baille campa i son / liquido de son cor; et s’arreton / deun la net le campagnar a predje, / eun attenden lo tor di s-éve,/ a l’eunclliousa, eun la meusecca di ru. (testo in lingua francoprovenzale)
La voce dell’acqua litania la sua musica /nella notte, proprio sotto le mie finestre. /E’ sempre l’antica melodia d’infanzia/ di ogni primavera, quando si dà libertà al suono /liquido del suo corpo, e si fermano / nella notte i contadini a parlare, / aspettando il loro turno d’acque, /alla chiusa, nella musica dei ruscelli.
Il tema della terra-madre è molto sentito in Gal, che ne teme lo scempio da parte degli uomini custodi infedeli delle tradizioni, delle architetture, dei paesaggi. Un vulnus che dall’esterno raggiunge la coscienza, la sensibilità, la vista e tutti i sensi, anche i sensi interiori, propaggini del nostro io, sensori delicatissimi ma cui nulla sfugge. Con struggimento il poeta avverte questo legame ancestrale che non è un rinchiudersi, ma rimettere le cose al loro posto, e la poesia ridona sfondo a tutte le cose maldisposte, manomesse, sfregiate. La memoria restituisce non illusioni ma immagini sfumate e sottili, eppur radicate e malinconiche ma, nel loro rovescio, talora gioiose. E’ questa la particolarità sensualità della poesia di Marco Gal, accennata e data per frammenti, attimi, rapidi brividi.
Roberto Taioli
PLEISI D’EVE
Le verne bleuve lo lon de rive senza adzo
secaouson de dzemme d’éve peteillente
comme de fantome ver emervéillà,
sesi pe eun fouà d’ardzen.
Lo gueup de la montagne eunvaeit lo chiel,
tchiardjà de plodze deun l’er de vèiro;
et le bouèisson dessu la couta arida jouèisson
comme i premie dzor de la créachon.
Lo vepro no souffle dessu la pe an lemieye molliéye
dedeun eun mondo de batèimo d’éve a verse,
mondo peur moillà de sondzo a verse.
PIACERE D’ACQUA
Gli ontani celesti lungo le rive senza tempo
scrollano gemme d’acqua crepitanti
o come fantasmi verdi meravigliati,
investiti da un fuoco d’argento.
Il dosso della montagna invade il cielo
carico di pioggia nell’aria di vetro;
e i cespugli sulla morena arida gioiscono
come nel primo giorno della creazione.
La sera ci alita sulla pelle una luce bagnata
in un mondo di scrosciare d’acque battesimali,
mondo puro bagnato a scrosci di sogni.
PLEISI D’ERBA
Deun l’ègaremen di ten,
pe de tsemeun consemou retrouve
de tzan d’aveigna immanse etendu
deun la lemieye ara le bouque
touffu epatton leur ombra,
et de pavou vermeille que braseillon
la couta, galandou di fleur di jeu,
emerveillà de no revére. A l’encon
de tsan coille de s-erbe varissente
et detendre noutra londze lagne
deun le prou euncò boulversou
pe eun bordon-emen de llioutar.
Euncò, de la fenetra iverta senti entre
la vouéce d’etsaaten de la djoueye
avoue lo len epuisement di s-onde,
que pame recèiveren noutre cor
parfemou d’erbe di prou.
PIACERE D’ERBA
Nello smarrimento del tempo,
per strade consunte ritrovare
campi d’avena immensi distesi
nella luce, ove ora i boschi
folti estendono la loro ombra,
e papaveri vermigli che avvampano
il costone, corteggiati dai fiordalisi,
sorpresi di rivederci.
Sul bordo
del campo cogliere erbe guaritrici
e distendere la nostra lunga stanchezza
nei prati ancora sconvolti
da un brusio di locuste.
Ancora, dalla finestra aperta sentire entrare
la voce estiva del fiume
con il lento sfinimento delle onde,
che più non accoglierebbero i nostri corpi
profumati d’erbe di prato,
che più non accoglierebbero i nostri corpi
profumati d’erbe di prato.
DZARDEUN
Deun lo dzardeun de te pa secret
pa despetou di seison
pa corrompu di s-ombre,
ton cor-etsaaten s’est etaoulou ci prou
todzor pegnà pe l’oura,
prèi pe euna gnoulou de poteun etourdi
deun eun ven levet de parfeun nu,
parfeun d’ombra d’euna net eunsolenta
de pa-olle eun estase.
A catson, detsaas, arreveret la morte un mateun
A t’atoffe le pèi deun le solei,
a te féye suoffri de pèin-e de lis regnà,
a te féye tourne feus nu de la tèra.
GIARDINO
Nel giardino dei tuoi passi segreti
non conteso dalle stagioni,
non corroso dalle ombre,
il tuo corpo-estate si è disteso su questo prato
sempre pettinato dal vento,
preso da un nugolo di baci storditi
in una brezza leggera di nudo profumo,
profumo d’ombra di una notte insolente
di parole in estasi.
Furtiva, scalza, giungerà la morte un mattino
ad affogarti i capelli nel sole,
a farti soffrire pene di giglio reciso,
a farti tornare nudo figlio della terra.
MARCO GAL
Una dichiarazione di poetica forte, originale, decisiva ed essenziale. Ricca nella sua struggente malinconia.
Il flë, “contiene le semenze di tutte le erbe e i fiori del prato”, è il nucleo vitale e fermentante della vita, ciò che resta e permane quando l’inessenziale è stato scartato o si è consumato”.
La poesia come permanenza, vitalità, ricchezza umana e gnoseologica.
“Nello smarrimento del tempo,/ per strade consunte ritrovare
campi d’avena immensi distesi/nella luce, …
e papaveri vermigli che avvampano…
sorpresi di rivederci.
Sul bordo/ del campo cogliere erbe guaritrici
e distendere la nostra lunga stanchezza….”
L’ha ribloggato su Paolo Ottaviani's Weblog.
Certamente Marco Gal conosceva molto bene i segreti sentieri silenziosi che attraversano i giardini
dove fiorisce la grande poesia.