Entrò in una perla
Entrò in una perla dentro il mondo
attraversò muri che tacquero ogni grido
qualcuno ne parlò come di un segreto
ma l’azzurra stazione di notte era piena di lacrime
L’estraneità fra te e me
non era lui: noi
ci dimenticammo l’un l’altro pur stando faccia a faccia,
mentre lui, seduto, infilava questo sogno infranto
nella cruna della sua stessa fuga,
attraverso il bene che volge al male che volge
al bene,
attraverso gli stessi luoghi che tornarono
e ritornarono
Su un sentiero così impervio
la via si tramutò in aria!
in una cupola d’ombra
con persone che entrano ed escono,
mentre ciascuno si fabbrica
il proprio sciame di pensieri,
larvati spettri e naiadi d’immagine,
e li appende
in una bianca desolazione
Lui lentamente ci circondò,
circondò da ogni parte
finché rimase nascosto
Ah, mio Io, mio pagliaccio ormai,
sulla punta del dito fai ruotare
la sfera su cui oscilloIl mio firmamento si è squarciato da cima a fondo
E allora noi, prismi ignari,
tornammo a splendere
nelle nostre prigioni
finché pensai che questa vita durerà in eterno
Steven Grieco-Rathgeb
He entered a pearl
He entered a pearl inside the world
passed through walls muffling all cries
someone called it stealth
but the blue-lit night station was full of tears
The estrangement between you and me
wasn’t him – we
forgot each other standing face to face,
while He sat threading
this wrecked dream’s own escape
through good turned bad turned
good
through the same places that came back
and back
On such a rugged upward path
the way was changed into air!
into a dome of twilight, with persons
going in and going out,
as each fashioned
his own swarm of thoughts,
cocooned phantoms and naiads of image,
hanging them
in a white wilderness
Slowly he encompassed, slowly
encompassed us
till he hid
Oh, my I, now my clown,
on a fingertip spin the ball
I balance on
My heaven has split from top to bottom
And then we, unknowing prisms,
returned in brilliance
to our prisons
ill I thought this life will last forever
(Traduzione dell’autore)
“Entrò in una perla” è la composizione poetica forse più ambiziosa di Steven Grieco-Rathgeb perché ci fornisce una sorta di resoconto pieno dei rapporti dialettici tra l’anima e l’Io: “Ah, mio Io, mio pagliaccio ormai…/ (…) E allora noi, prismi ignari,/ tornammo a splendere…”. E lo scontro fra i due termini del binomio Io-anima si avverte nello sfregamento repentino del passaggio rapido dall’Io pagliaccio al “noi” prismi ignari. Sotto questo aspetto, Steven Grieco-Rathgeb lo sento come poeta whitmaniano , soprattutto quando approdo a un altro suo verso rivelatore:”… un mistero in cui volavo verso i cieli altissimi della notte” ove le due parole-chiave “mistero-notte”, ma verso cieli altissimi, possono essere nella mitologia segreta del poeta una oceanica assenza (madre, padre) assenza, bene espressa da forza inventiva e padronanza metaforica. E poi Steven Grieco-Rathgeb, in altri versi, ci dà il suo incantamento di fronte al susino in fiore. Ed è anche il nostro incanto. Anche se in “Quando i lillà fiorivano l’ultima volta nel prato davanti alla casa” Walt Whitman negli ultimi versi confessa:
Da quella pianta dai fiori dal colore delicato
con le foglie a forma di cuore d’un verde intenso
stacco un rametto fiorito
Steven al contrario si arresta di fronte al miracolo dell’albero fiorito. Gli basta il miracolo e lo dice in una pacatezza “soprannaturale.”, in una intima ontologia estetica, avendo ogni poeta una propria, specifica, unica, irripetibile cartografia psichica.
Gino Rago
Il verso di Steven Grieco Rathgeb è il verso libero privo di unità metrica. È un verso libero che è stato privato della sua libertà. È un verso libero prodotto del nichilismo compiuto. Il verso libero si è finalmente liberato di se stesso, ed è diventato qualcos’altro che fatichiamo a riconoscere. Ecco perché è così difficile, oggi, distinguere la poesia dalla prosa. È per via della libertà, quella libertà che i poeti si sono conquistata, che hanno pagato a duro prezzo durante il Novecento e che ancora stanno pagando. Quella antica libertà oggi si è tramutata nella peggiore delle reclusioni: la reclusione del verso liberato, cosiddetto «libero», in realtà zoppo e frammentato. Fatto sta che quel verso, rectius, quel frammento di verso, quel relitto malmostoso, ci parla molto meglio di quanto potrebbe fare un verso sinuoso e rotondo, un verso compiuto, ammesso che esista e sia possibile, oggi, scrivere un verso rotondo e compiuto! Scrive Sergio Givone: «Potremmo dire che il nichilismo altro non è che una forma di ateismo in cui Dio non è più un problema, come non è più un problema il male – Dio è morto, e questa sarebbe l’ultima parola, non solo su Dio, ma anche sul male. Questo nichilismo amichevole e pieno di buon senso, oltre che perfettamente pacificato, continua a essere la cifra del nostro tempo. Lo sarà finché nella morte di Dio vedremo un fatto che per noi non significa più nulla e non invece quel che intravide Nietzsche: un evento la cui portata è ancora tutta da esplorare».1]La poesia di Steven Grieco Rathgeb già nel titolo «Entrò in una perla», rende manifesto il senso della precarietà che la domina, la percezione della non abitabilità del mondo («il mio firmamento si è squarciato da cima a fondo»), è un esistere intempestivo, fuori tempo, fuori spazio quello che qui viene messo a fuoco, il senso di un abitare un luogo disabitabile, non idoneo alla abitazione, un luogo che non è più un luogo ma un contenitore per quanto vasto di una esistenza che non ci appartiene più. Il mondo diventa uno sfondo sempre più lontano, i dettagli nitidamente percettibili si fanno più distanti, l’estraneazione e la disumanizzazione diventano sempre più palpabili:
L’estraneità fra te e me
non era lui: noi
ci dimenticammo l’un l’altro pur stando faccia a faccia,
mentre lui, seduto, infilava questo sogno infranto
nella cruna della sua stessa fuga,
attraverso il bene che volge al male che volge
al bene,
attraverso gli stessi luoghi che tornarono
e ritornarono…
Giorgio Linguaglossa
1] S. Givone, Trattato teologico-poetico, il Melangolo, 2017
Steven J. Grieco Rathgeb, nato in Svizzera nel 1949, poeta e traduttore. Scrive in inglese e in italiano. In passato ha prodotto vino e olio d’oliva nella campagna toscana, e coltivato piante aromatiche e officinali. Attualmente vive fra Roma e Jaipur (Rajasthan, India). In India pubblica dal 1980 poesie, prose e saggi. È stato uno dei vincitori del 3rd Vladimir Devidé Haiku Competition, Osaka, Japan, 2013. Ha presentato sue traduzioni di Mirza Asadullah Ghalib all’Istituto di Cultura dell’Ambasciata Italiana a New Delhi, in seguito pubblicate. Questo lavoro costituisce il primo tentativo di presentare in Italia la poesia del grande poeta urdu in chiave meno filologica, più accessibile all’amante della cultura e della poesia. Attualmente sta ultimando un decennale progetto di traduzione in lingua inglese e italiana di Heian waka. In termini di estetica e filosofia dell’arte, si riconosce nella corrente di pensiero che fa capo a Mani Kaul (1944-2011), regista della Nouvelle Vague indiana, al quale fu legato anche da una amicizia fraterna durata oltre 30 anni. Dieci sue poesie sono presenti nell’Antologia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, 2016). Nel 2016 con Mimesis Hebenon è uscito il volume di poesia Entrò in una perla.