Torna nelle sale cinematografiche oggi 9 gennaio la versione restaurata de “Il Monello” capolavoro di Charlie Chaplin

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Il Monello (The Kid) è il primo lungometraggio di Charlie Chaplin, largamente autobiografico per quel che riguarda la sua infanzia povera nei quartieri popolari di Londra. Il film ebbe la première a New York il 6 gennaio 1921 con immediato unanime successo. Nei tre anni successivi fu distribuito in ben cinquanta paesi di tutto il mondo. Un successo che dura da 96 anni. Rieditato nel 1971 dall’autore che eliminò alcune scene e vi aggiunse una partitura musicale di sua composizione.Tenero, umoristico, realistico, lirico, Il Monello rese il piccolo Jackie Coogan famoso in tutto il mondo. Chaplin stesso fu il primo a riconoscere che il grande universale consenso all’immagine di Jackie era in parte dovuto alla sua capacità di simboleggiare tutti gli orfani della guerra recente.

161348480-b1f1d02a-c5bf-4030-aaaa-5b0ae51b5c8cUna donna sedotta e abbandonata lascia l’ospedale dei poveri con un bambino tra le braccia, sotto gli sguardi di disprezzo di un’infermiera e di un portinaio. Edna, probabilmente con l’intenzione di suicidarsi, abbandona il bambino nei sedili posteriori di una lussuosissima macchina con un biglietto in cui prega chi troverà il bambino di proteggerlo e di prendersene cura. Per ironia della sorte l’auto viene di lì a poco rubata da due loschi individui. Quando scoprono il bambino, i due crudelmente lo buttano in un vicolo. Charlot, povero vetraio, raccoglie il bimbo e ne diventa il tutore, impara l’arte di accudire ai neonati. Improvvisa una sorta di amaca-culla, ricava un biberon da una vecchia caffettiera, e per i bisogni del bambino ricorre ad un ingegnoso stratagemma consistente in una sedia con un buco nel sedile e una sputacchiera al di sotto. Il bimbo cresce e per aiutare il padre adottivo rompe i vetri. Una delle scene più memorabili di questo straordinario film è quella del monello ammalato. Il vagabondo chiama un vecchio medico burbero e severo. E quando il dottore gli chiede se è il padre del bambino, gli mostra ingenuamente il biglietto che accompagnava il trovatello e che conserva religiosamente tra le pagine di una copia logora della “Police Gazette”. Il dottore sentenzia che il bambino ha bisogno di attenzioni e cure appropriate, le quali arrivano ben presto, sotto le spoglie di un altezzoso direttore dell’orfanatrofio e del suo servile aiutante. A dispetto dell’eroica resistenza del Vagabondo e del Monello, il bambino viene portato via e gettato, come un cane randagio, nel rimorchio di un furgone, vigilato da un feroce poliziotto. Il Vagabondo corre disperatamente sui tetti per intercettare il furgone, quando lo avvista si lancia sul poliziotto gettandolo sulla strada e salvando il Monello. Poche manifestazioni d’amore sullo schermo sono altrettanto emozionanti del bacio che il Vagabondo stampa sulle labbra tremanti di quel bambino in preda al terrore. Altra scena memorabile è quella del dormitorio: solo e infelice, il Vagabondo si addormenta davanti alla porta chiusa, e sogna che il vicolo si è trasformato nel paradiso; perfino il magnaccia, il piedipiatti e il personale dell’orfanatrofio diventano benigni angeli alati. E’ riunito al Monello, ma quando la felicità sembra raggiunta, il peccato s’insinua nel paradiso. Il diavolo tenta il Vagabondo con una bella ragazza, provocando le gelosie dell’amato, il magnaccia, che prende un fucile e gli spara. Il Monello piange sul suo cadavere insanguinato e… a questo punto il Vagabondo viene svegliato dal poliziotto. Sarà proprio il poliziotto a portare il Vagabondo all’ingresso di una meravigliosa casa dalla cui porta usciranno il Monello e l’ex ragazza madre ricongiunti.

3 commenti
  1. Caro Luciano, una volta di più ci permetti di tenere bene a mente che quello poetico è un orizzonte non solo di parole, ma è il “farsi” della bellezza e della verità, da archetipi e universali, parole, immagini, suoni, colori e – come i tuoi versi testimoniano – persino profumi, sapori e tattilità.
    Bene, dunque, hai fatto a proporci una memoria sul gioiello cinematografico di Chaplin, per aprire quest’anno di Erato, centenario di rivoluzioni e illusioni magnifiche e tragiche, di disfatte e di macelli (penso ora a una visita di tredici anni fa a Fleury-sous-Douaumont, villaggio del quale – nel 1917 – restava già, come ora, soltanto qualche brandello di muro: lo avvolge una foresta benevola che s’accorda al mostruoso saliscendi di decine di migliaia di crateri tutto attorno a Verdun), di ritorni all’ordine e liquidazione delle avanguardie politicamente impegnate… e cinquecentenario di un’idea cristiana che pose un’enfasi sulla necessità di una morale attiva e responsabile, prima che sulla certezza del perdono.
    Una piccola riflessione a margine del tuo intervento: se il “monello” chapliniano rispecchia davvero le schiere sterminate dei piccoli orfani di una guerra che di grande ebbe solo il numero di vite umane spezzate o per sempre cambiate, nella pellicola che racconta le vicende sue e del bizzarro e generoso vetraio che lo cresce c’è un ottimismo di fondo. Charlot racconta di un mondo di ultimi, ma dentro un Paese che ha vinto: i suoi ultimi attraversano solitudini, miseria, dolore smisurati, ma non disperati; e il delicato finale è aperto alla speranza di ritrovare unità sciolte, ma non dissipate. Non c’è ottimismo, ma c’è una prospettiva. Questa è l’America.
    Penso a come, in questi stessi anni (1919-1929) dei quali il film di Chaplin è monumento, nella Germania piegata e umiliata di Weimar, gli artisti del tempo non vedessero speranza, né nell’eredità della sconfitta, né nell’orrore revanscista che preparava una nuova tragedia: guarda i dipinti di Otto Dix, di Georg Grosz, i fotomontaggi antinazisti di Hans Herzfeld (che si sarebbe poi fatto chiamare John Heartfield); annusa il vuoto, il rancido, l’amaro dei meravigliosi pittori della Neue Sachlichkeit (confrontali, magari, col cinismo un po’ nichilista dei nostri italici artisti di quegli anni, genuflessi all’ordine e rifluiti distanti da ogni prima linea del pensiero). Poesia non meno alta, non meno profonda. Ne riparleremo, se ci sarà occasione.

  2. Caro Furio, convengo pienamente quando scrivi ” quello poetico è un orizzonte non solo di parole, ma è il “farsi” della bellezza e della verità, da archetipi e universali, parole, immagini, suoni, colori “. L’arte è di per sé poesia in tutte le sue manifestazioni. L’arte mimica di Chaplin e la sua straordinaria mescolanza di comicità e di sentimento hanno toccato le vette più alte. Fellini a proposito di Chaplin disse: “egli è una sorta di Adamo da cui tutti discendiamo. La sua personalità ha due volti, quello del vagabondo, ma anche quello dell’aristocratico solitario, del profeta, del sacerdote, del poeta”. Poeta dunque, supremo esempio di genialità creativa.

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